Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella multiforme geografia del Quattrocento italiano, Padova e Ferrara rappresentano due luoghi d’eccellenza. Qui le forme e i modi del nuovo stile rinascimentale appaiono declinati in un’accezione peculiare ed espressiva che diventerà ben presto alternativa alla più pacata cultura figurativa di marca toscana.
L’effervescenza culturale è il tratto peculiare della Padova quattrocentesca. Lo Studio, tra le più antiche università italiane, è il centro propulsore delle prime riflessioni filologiche sulle testimonianze antiche, letterarie e artistiche, interesse che sfocia nel giro di pochi decenni in una vera e propria passione archeologica. Il collezionismo di antichità diventa così pratica assai diffusa tra eruditi e veri e propri antiquari: non è un caso se personaggi come Ciriaco d’Ancona e Felice Feliciano, figure chiave per la rinascita dell’antico all’interno delle corti italiane, si siano formati e affermati inizialmente a Padova.
L’approdo nella città veneta di Donatello nel 1443 segna la nascita della moderna cultura figurativa in area settentrionale. Nei dieci anni di febbrile attività patavina, spesi fra i cantieri del Gattamelata e dell’altare del Santo (1447-1450), l’artista mette a disposizione degli artisti e dei committenti locali i mezzi espressivi atti a dare forma concreta al fermento culturale originato dalle suggestioni dell’antico. Uno di questi è senz’altro costituito dalla linea di contorno, cui l’artista affida il compito, nei rilievi come nelle figure a tutto tondo, di dare risalto plastico alle composizioni. È in questa funzione dinamica della linea che risiede l’eredità spirituale di Donatello, un lascito che artisti come Andrea Mantegna nella stessa Padova o come Cosmè Tura a Ferrara faranno fruttare fino a trasformarla nella cifra stilistica tipica di quest’area geografica.
Una specifica connotazione umanistica possiede la bottega forse più “aggiornata” dell’Italia settentrionale: quella di Francesco Squarcione. Pittore singolare, ricordato dalle fonti come abile se non spregiudicato imprenditore, egli impronta la sua attività a un “espressionismo nutrito di archeologia” (André Chastel) che diventa in breve tempo un dogma figurativo. Squarcione, nelle uniche opere sopravvissute – il Polittico de Lazara dei Musei Civici di Padova e la Madonna col Bambino (1455) di Berlino, Gëmaldegalerie –, traspone in pittura il gusto archeologico e la predilezione per forme sbalzate e lucide donatelliane, dando vita a una formula che i suoi “creati”, da Andrea Mantenga a Giorgio Schiavone , da Carlo Crivelli a Marco Zoppo, applicheranno per decenni. Il metodo didattico di Squarcione è innovativo: la sua bottega è ricolma di reperti antichi, alcuni frutto di un “mitico” viaggio in Grecia effettuato attorno al 1425; lo studio di queste testimonianze è affiancato per la prima volta alla visione della natura e alle opere dei contemporanei, Donatello in primis.
L’opera che segna in pittura l’inizio di una nuova epoca, e che pone Padova all’avanguardia nella cultura figurativa settentrionale, è però la decorazione della cappella Ovetari agli Eremitani, semidistrutta da un bombardamento nel 1944 e ora nota grazie a una provvidenziale campagna fotografica. Verso la metà del secolo, lo spirito degli antichi e la spazialità moderna proveniente dalla Toscana raggiungono una perfetta conciliazione allorché sui muri della Ovetari sono attivi Bono da Ferrara, Ansuino da Forlì, Nicolò Pizolo e, soprattutto, Andrea Mantegna. Quest’ultimo in particolare irrompe sulla scena con la forza dei grandi protagonisti. Abbandonata in aperta polemica la bottega di Squarcione nel 1448, nello stesso anno è già all’opera nella cappella padovana che completerà da solo nel 1455. Nella cappella Ovetari Mantegna imbastisce una vera e propria dichiarazione d’amore per l’antico, ora non più citazione repertoriale ma elemento costitutivo della figurazione, come avviene nel Martirio di san Cristoforo o nel San Giacomo davanti ad Erode Agrippa.
La linea plastica e nervosa, che fa risaltare i profili delle figure, deriva direttamente dalla meditazione sulle opere di Donatello ma raggiunge qui vertici di virtuosismo sconosciuti in campo pittorico. Il rigore morale delle sue figure, unito al vigore della linea, diventerà una vera e propria sigla che accompagnerà il pittore nella sua lunga attività, svoltasi a partire dal 1460 quasi ininterrottamente a Mantova.
A Ferrara le sorti delle arti figurative si legano alla famiglia degli Este. Le personalità di Nicolò III e del figlio Leonello, signori della città, dominano la prima parte del secolo: amanti del “dolce stile” internazionale, favoriscono l’arrivo in città di umanisti del calibro di Guarino Veronese, mentre la curiosità di Leonello e la sua voracità collezionistica alimentano un turbinoso avvicendarsi di artisti e di opere.
A Ferrara negli anni Quaranta si segnalano così le presenze di Pisanello, di Jacopo Bellini, di Mantegna, di Leon Battista Alberti, delle opere di Rogier van der Weyden e, nel 1451, anche di Piero della Francesca. Tutto ruota attorno alle committenze estensi che spaziano dai dipinti da cavalletto alla miniatura, dalla scultura alla manifattura di arazzi e di oreficerie, che contribuiscono a creare un saldo legame con la cultura del Nord Europa. Di questo fervore artistico e intellettuale restano capolavori come il Ritratto di Lionello d’Este (Bergamo, Accademia Carrara) eseguito forse nel 1441 da Pisanello in gara con Jacopo Bellini, o lo straordinario Reliquiario (Montalto Marche, Museo Sistino Vescovile) in smalto ronde-bosse, un prodigio di tecnica eseguito in Francia al tempo di Carlo V e importato in Italia dallo stesso Leonello.
Con il dominio di Borso d’Este le forme del gotico internazionale, che pienamente avevano corrisposto alle indicazioni cortesi di Leonello, sono rapidamente abbandonate per essere rimpiazzate da un linguaggio figurativo ricercato ed espressivo, fantasioso e colorato, manifestazione esclusiva del signore e della sua corte. Questo nuovo codice si mostra, con grande coerenza e uniformità, non solo nella pittura ma anche nelle altre forme artistiche, in particolare nella miniatura, disciplina che per prima evidenzia i cambiamenti più radicali sul piano dell’espressione e della gamma cromatica. Nei due volumi della Bibbia di Borso (1455-1461, Modena, Biblioteca Estense) confluiscono non solo la raffinata eleganza delle oreficerie e della pittura dell’Europa del Nord ma anche la prospettiva della cultura rinascimentale italiana. Le pagine della Bibbia rivelano, come avverrà più tardi sulle ampie pareti del Salone dei Mesi di Schifanoia, la presenza di artisti diversi coordinati dal genio inventivo di Taddeo Crivelli e Franco de’Russi, tutti impegnati nella realizzazione del capolavoro che Borso amava mostrare ai suoi ospiti, a testimoniare la sua magnificenza.
Analoga commistione formale caratterizza le Muse che Leonello aveva immaginato per il proprio Studiolo di Belfiore, di cui Borso riprende la realizzazione, dopo avere imposto modifiche sostanziali al progetto; in questo ciclo di capitale importanza per lo sviluppo dell’arte ferrarese, all’eleganza esile del senese Angelo Maccagnino, seguace di van der Weyden, si sovrappone l’eccentricità espressiva del poliedrico Michele Pannonio. Della seconda fase dei lavori, quella dell’età di Borso d’Este, sopravvivono la Musa Talia (1458-1461, Budapest, Szépmüvészeti Múzeum) dipinta da Michele Pannonio e la Calliope (1458-1463) di Cosmè Tura. Queste opere evidenziano l’ormai perfetta fusione tra le volumetrie pierfrancescane, la suggestione dello scintillio delle pietre preziose, e la figurazione fantastica gremita di decorazioni irrazionali solo in parte desunte dall’antico. Un gusto, un rovello formale e lineare che hanno condotto Roberto Longhi a definire questa stagione di sperimentalismo “Officina ferrarese”.
A Pannonio si affiancano ben presto lo stesso Tura e Francesco del Cossa. I due artisti rappresentano due mondi pressoché alternativi sotto il profilo sia formale che operativo. Tura è l’interprete esclusivo dei progetti decorativi estensi e il prototipo del pittore di corte che, come Mantegna presso i Gonzaga a Mantova, sa imporre la propria cifra stilistica nei campi tecnici più svariati, inventando un linguaggio prezioso e popolare, decorativo ed espressivo. A partire dal 1458, anno in cui Borso gli conferisce l’incarico di artista di corte, Tura assolve in modo frenetico commissioni di natura diversissima, dalla partecipazione alla decorazione di Belfiore alla realizzazione di coperte o di barde da cavallo, fino alle monumentali imprese del 1470 circa, quali le ante d’organo della cattedrale (ora Museo della Cattedrale). Nelle quattro scene, il mondo poetico di Tura è già ben definito: rivitalizza le volumetrie di Piero della Francesca mediante una tensione lineare fra le più vive che sia dato vedere nel Quattrocento italiano; l’atmosfera cupa e lunare acuisce questo senso di straniamento e di lontananza dalla realtà quotidiana.
Ben diverso appare il percorso di del Cossa, arricchito da esperienze toscane e bolognesi, che si risolve in una pittura più asciutta, morbida e plastica. Egli avvia un dialogo aperto con gli scultori contemporanei, in particolare con il fiorentino Antonio Rossellino, arrivando a comporre figure di Madonne e santi attraverso imponenti volumi. Del Cossa si distingue da Tura anche per il naturalismo incisivo e l’accesa gamma cromatica, nata dalla conoscenza diretta della luminosa pittura fiorentina di Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alessio Baldovinetti, come dimostrano le parti che gli spettano nel Salone dei Mesi di Schifanoia.
Compiuta poco prima dello scadere degli anni Sessanta, la decorazione del Salone fu commissionata da Borso in persona. Vero e proprio monumento personale, il Salone dei Mesi va letto come ricerca attorno alla propria immagine, elaborata da Borso in prossimità dell’imminente e agognata nomina a duca di Ferrara. Lo prova la struttura del ciclo, segnata da un’ossessione ritrattistica (Borso vi compariva per ben 36 volte) che ha pochi riscontri nella storia dell’arte del tempo. Ideato dal bibliotecario e astrologo di corte Pellegrino Prisciani, il ciclo rappresenta un miracoloso equilibrio tra il simbolismo astrologico di cui era intrisa la cultura estense, la mitologia classica e le personali esigenze apologetiche borsiane. Vi è impegnato un piccolo esercito di artisti, tra cui lo stesso del Cossa, Gherardo da Vicenza e il giovane Ercole de’Roberti. Nelle scene affrescate da del Cossa, come il mese di Aprile, si apprezza un pacato e luminoso svilupparsi delle forme, cui si contrappone l’accelerazione espressionistica delle scene di Ercole de’ Roberti: la Fucina di Vulcano dichiara subito la volontà di seguire e superare Tura sul terreno della violenta carica espressiva.
Deluso dal trattamento economico riservatogli dal duca, Francesco del Cossa si trasferisce a Bologna, dove sembra trovare una committenza più attenta e un terreno fertile per le sue ricerche prospettiche e luministiche (come nel celeberrimo Polittico Griffoni eseguito, assieme a Ercole de’ Roberti, per la basilica di San Petronio nel 1473 circa).
Ma mentre Borso celebra se stesso a Schifanoia, la fine di questa stagione è a un passo. Nel 1471, a pochi mesi dalla conclusione della decorazione, Borso muore. Gli succede il più austero Ercole I (1431-1505), più interessato a incidere sul volto della città. A partire dal 1492, infatti, Ercole I avvia la realizzazione del piano regolatore ideato da Biagio Rossetti, il quale progetta un’estensione della città verso nord, raddoppiandone d’un colpo la superficie e affiancando così all’antica città medievale la nuova moderna e razionale città rinascimentale.
In ambito pittorico invece, a eccezione di Tura, che prosegue imperturbabile per la sua strada, gli orizzonti di riferimento mutano e il carattere eccentrico e irregolare comincia a stemperarsi: alcuni tra gli artisti maggiori lavorano per qualche tempo lontano dalla città, mentre i più giovani, come lo stesso de’ Roberti, tendono a regolarizzare il proprio linguaggio in direzione di quella unificazione espressiva, mirante a superare le barriere regionali, che Roberto Longhi ha efficacemente definito “italianizzazione dello stile”.
Ne è eloquente testimonianza la grandiosa Pala di Santa Maria in Porto, dipinta per Ravenna nel 1480 e ora alla Pinacoteca di Brera. Moderna è la scelta della scena unica che accantona la forma del polittico. Il fantasioso trono sopraelevato lascia allo spettatore la possibilità di indagare il paesaggio in lontananza, mentre l’impostazione delle figure è solida e compatta, tanto nella forma che nelle movenze: un nuovo classicismo sembra avere fatto presa su de’ Roberti, evidentemente influenzato dalle pale d’altare realizzate da Antonello da Messina e Giovanni Bellini.
La grande stagione estense si conclude con quest’opera. Verso la fine del secolo anche Ferrara, attraverso Lorenzo Costa e Boccaccio Boccaccino, partecipa alla stagione “della dolcezza ne’ colori unita” (Vasari) e delle equilibrate composizioni di marca peruginesca, fase che apre la strada alla Maniera moderna, al Cinquecento e al Rinascimento maturo.