PADOVA (A. T., 24-25-26)
Città del Veneto, con 83.000 abitanti (secondo il censimento del 1931, 131.066 nell'intero comune), situata a 12 m. s. m., nella pianura alluvionale a occidente della Laguna, tra la Brenta e il Bacchiglione. Attualmente essa è soprattutto un importante nodo di traffico terrestre tra il Veneto orientale, la Lombardia e l'Italia peninsulare. Ma i due fiumi, che ivi si avvicinano notevolmente, dovettero avere importanza essenziale nella formazione del primo nucleo urbano, come quelli che, percorrendo con direzione generale N.-S. la bassa pianura, in antico poco praticabile perché selvosa e paludosa, erano vie naturali di comunicazione fra la costa lagunare dell'Adriatico e l'alta pianura subalpina, coperta prevalentemente di praterie e sulla quale si aprivano gli sbocchi delle valli alpine. Il clima presenta le seguenti caratteristiche: media annua della temperatura 12°,7; gennaio 1°,6; luglio 23°,6; escursione 21°,8. Precipitazioni: mm. 871 (1872-1910), distribuite in 110 giorni con un massimo in giugno e un minimo in febbraio. Le giornate con nebbia sono in media una su sette, con prevalenza nei mesi da novembre a marzo.
Nell'area di convergenza dei due fiumi e, pare, sulla Brenta d'allora sorse la città in epoca preromana; poi importanti vie terrestri la collegarono ai centri vicini sorti allo sbocco dei fiumi nella Laguna, come Altino sul Sile, o lungo il corso dei medesimi, come Este sull'Adige antico (v. adige). Di quanto momento sia la situazione naturale di Padova, prova il fatto che essa, distrutta, risorse e si mantenne in vita prospera durante tutta l'epoca storica.
Dei due fiumi, da molti secoli, il solo Bacchiglione entra in Padova e l'attraversa diviso in rami, dei quali i principali evidentemente adattati, se non in ogni caso scavati, dall'uomo a scopo di difesa e di navigazione, per la maggior parte indicano tuttora la posizione delle fosse urbane e i successivi ingrandimenti avuti dalla città nel Medioevo e nell'età moderna.
Al Bassanello il Bacchiglione si avvicina alla città lambendone al lato SO. la più esterna cinta di fortificazioni del sec. XVI, entra in città per la Porta Saracinesca e poco dopo, presso l'osservatorio astronomico della Torlonga, si divide in due rami: il destro, minore, passa sotto i ponti delle Torricelle, S. Lorenzo Altinate e al sostegno delle Porte Contarine si versa nel canale esterno detto Piovego, formato dalla corrente principale che, a sua volta, passando sotto i ponti S. Agostino, dei Tadi, di Ferro, di S. Leonardo, Molin e dei Carmini, sul lato occidentale e settentrionale della città, se ne allontana a Ognissanti. L'insieme di questi canali descrive un quadrilatero, caratteristico della parte occidentale della città. Anche la parte orientale della città è circoscritta e attraversata da altre diversioni del fiume. Ci accontenteremo di nominare quelle che hanno maggiore interesse per l'interpretazione della pianta urbana. A monte della sopradescritta bipartizione della corrente maestra, si stacca il canale delle Acquette, o delle Dimesse: va ad unirsi con il canale delle Albere. Quest'ultimo canale, chiamato anche canale di S. Chiara, a sua volta si stacca dalla diramazione destra del fiume presso il ponte delle Torricelle e passa sotto i ponti della Morte e Businello e sotto il Pontecorvo, uscendo poi dalla città a formare il canale delle Roncaiette (v. bacchiglione). Ancora nella seconda metà del secolo XIX, il canale di S. Chiara, presso l'ospedale civile, riceveva il canale navigabile di S. Sofia, che si staccava dal ramo sinistro del fiume a NE. della città, presso il fabbricato dove ha sede la scuola Selvatico, e occupava il posto delle attuali vie Morgagni, Jappelli e Falloppio ("Riviera di S. Sofia").
Lo spazio circoscritto dagli alvei ora elencati, secondo le descrizioni del Furlanetto e del Gloria, recentemente confermate dallo studio archeologico, corrisponde all'estensione della città nell'epoca romana. Con ciò non si afferma che tutti gli alvei medesimi allora già esistessero, ma i resti romani qua e là dissepolti confermano la tradizione liviana, che la città era divisa per il mezzo dal fiume Medoaco. Al principio dell'epoca imperiale senza dubbio questo fiume percorreva l'attuale alveo che va dall'osservatorio alle Porte Contarine, ma era assai più largo, come provano sino all'evidenza le altre due arcate connesse, sulla destra, al ponte romano di S. Lorenzo, testé rimesse allo scoperto con le demolizioni e gli scavi per la sistemazione del palazzo centrale universitario. Quivi si poté anche osservare come le mura della prima cinta medievale fossero state costruite in modo da tagliar fuori le due arcate di destra e una parte dell'alveo, ciò che prova come a quel tempo la corrente principale, qual si fosse stata nell'evo antico, non passava più per il mezzo della città.
A causa del nubifragio dell'anno 589, secondo il Gloria, il Medoaco, da lui e dal Lombardini identificato con la Brenta, avrebbe abbandonato Padova; più tardi, negli alvei derelitti del Medoaco, i Padovani avrebbero condotto il Bacchiglione che scorreva prossimo alla città.
Nonostante il profondo decadimento e le distruzioni sofferte nei primi secoli dell'era cristiana, la pianta della città di Padova moderna conserva tuttora le impronte topografiche dell'epoca romana, non solo nei canali e in alcuni ponti che li attraversano, ma anche nella disposizione delle vie. Si può affermare che nei secoli seguenti, pur con cambiamenti inevitabili, furono per così dire ricalcate le tracce topografiche romane. Questa condizione fu imposta dalla disposizione anulare dei canali che davano agli spazî circostanti una certa protezione (per quanto sinora risulta, nell'epoca romana l'aggregato urbano non ebbe mura) e dalla situazione dei ponti, che rimasero i capisaldi immutati delle vie attraversanti gli spazî stessi.
Si è già detto che nella parte occidentale della città i canali circoscrivono un quadrilatero: questa forma del perimetro e l'esistenza di vie principali manifestamente disposte secondo i punti cardinali, e perciò in direzioni che si tagliano ad angolo retto, prova che questa parte della città fu fondata secondo il solito piano che si riscontra in altre città antiche d'Italia. Le vie Barbarigo e Monte di Pietà, con la Strà Maggiore, ora via Dante, seguono la direzione del cardo (da N. a S.) fra il ponte Molino e S. Maria in Vanzo. Una linea parallela è seguita dalle vie Roma, VIII febbraio, Cavour. Il decumanus è rappresentato dalle vie Tadi, Arco, Valaresso, Manin, San Canciano, Portici Alti (ora formante il primo tronco della via denominata S. Francesco); direzione pressoché parallela a quest'ultima tengono le vie Santa Lucia, S. Nicolò, Livello, e le vie Brondolo, C. Dottori e vicolo Rialto.
Lungo il quadrilatero dei canali che così funzionavano da fossa urbana fu costruita nell'epoca comunale la prima cinta di mura, compiuta verso la metà del sec. XII. I resti di queste mura si notano soprattutto al lato occidentale della città, accompagnati da viali e riviere, cioè da strade e argini lungo il fiume, sulle quali si affacciano file di abitazioni. Parecchie di queste abitazioni furono costruite approfittando delle mura stesse, traforandole con porte e finestre, quando invece le vecchie mura non si demolirono per valersi soltanto delle fondamenta. Di questa più antica cinta di mura rimane anche una torre, quella del ponte Molino.
In questa parte della città, che è l'occidentale, vi sono il duomo, il municipio, il palazzo della Ragione, il palazzo centrale dell'università e altri edifici e monumenti del periodo comunale e della dominazione carrarese e veneziana.
Questo il gremio a cui era ridotta la Padova dell'alto Medioevo. La città situata a oriente del ramo destro (Osservatorio-Porte Contarine) corrisponde alla parte di città romana, che, dopo il disfacimento della società antica e le distruzioni barbariche, non era stata riedificata (perciò è indicata con la denominazione di rudena nelle carte medievali) e fu rioccupata dalle abitazioni nei secoli successivi al XII.
Però anche il Prato della Valle (ora piazza Vittorio Emanuele II), che è esterno al canale di Pontecorvo, come dimostrarono le rovine di un teatro, faceva parte della Padova romana.
Anche nella parte orientale della città i rami del Bacchiglione tuttora indicano il tracciato delle mura erette nella tarda epoca comunale e sotto la signoria carrarese: per tali opere, la città ebbe un doppio e in alcune parti un triplo recinto di mura.
La parte orientale della città presenta una pianta alquanto diversa da quella occidentale: vi continuano alcune vie provenienti da quest'ultima, dirette da O. a E. ma generalmente piegando verso SE. Accennano così a descrivere archi concentrici verso SO. più o meno distinti (vie Altinate, A. Gabelli, S. Biagio, C. Battisti, S. Francesco); altre vie con disposizione raggiata partente da SO intersecano quelle ora nominate (vie Cesarotti-Ospedale civile; Mentana-S. Sofia; Rinaldi-S. Margherita, Zabarella-Eremitani). Invece il settore fra il Museo e la prefettura presenta alcune vie arcuate in senso opposto al precedente (riv. Ruzzante, vie Locatelli, Cappelli): evidentemente ripetono la curva descritta dalla fossa che cingeva la città verso NO.
Ma, nonostante l'apparente disposizione rispetto a un punto centrale, i caratteri di questa pianta sembra non dipendano se non dal fatto che le direzioni fondamentali delle strade, in questa che è la parte della Padova medievale e moderna formatasi più tardi della precedente sia pure sopra i ruderi di una parte della città più antica, erano determinate dall'esistenza di ponti romani: il Pontecorvo su cui passava la via diretta ad Adria e il ponte Altinate con la via omonima.
Oltre i limiti segnati dai canali ancora attivi o interrati, la città si è sviluppata includendo i borghi a stradale, formatisi prevalentemente fuori delle porte urbane, specialmente grossi oltre quelle dalle quali usciva una via importante per il traffico, e ciò tanto esteriormente alla prima cinta quanto oltre le successive. Questi caseggiati allineati lungo la strada lasciavano molte volte sui lati ampî spazî alla coltivazione, nei quali solo più tardi sorsero nuove case e si tracciarono nuove vie. Si può dire che in simile guisa sia proceduto anche l'ingrandimento recentissimo della città, superante di gran lunga le poderose mura costruitevi nel sec. XVI principalmente per merito dell'Alviano. Tale era il caso del corso Vittorio Emanuele II e della via Belzoni, uscenti un tempo rispettivamente dalle porte di S. Sofia e del Prato della Valle.
In questo stesso periodo Padova si è anche abbellita, specialmente nella parte centrale, con la demolizione, tuttora in via di esecuzione, di vecchi quartieri insalubri, con l'apertura di nuove vie, tra le quali l'arteria verso la stazione ferroviaria, con l'abbattimento delle fortificazioni del sec. XVI, con l'apertura di nuove porte, e infine con lo sviluppo edilizio alla periferia oltre le mura. Quivi prevalgono le abitazioni disgiunte, i villini, ciascuno dei quali ha il suo giardino: risulta una fisionomia profondamente diversa dalla parte vecchia della città che ha le vie per la maggior parte strette fra lunghe file di portici.
Non deve essere taciuta l'importante opera idraulica recentissima per la quale saranno eliminati i pericoli e le molestie derivanti dalle piene del fiume. È un ampliamento e perfezionamento del canale scaricatore che già dal 1863 funziona al Bassanello per sottrarre acque al Bacchiglione e impedirgli d'inondare la città durante le piene.
Gli abitanti di Padova erano già 15 mila nel sec. XII e le mura, costruite tra il 1195 e il 1210, abbracciavano una superficie di circa un chilometro quadrato. Nel secolo successivo gli abitanti, quasi raddoppiati, non trovando posto nell'interno della città cominciarono a costruire le loro case lungo le vie dirette ai centri vicini, specie Venezia, Cittadella ed Este, formando borghi che furono poi inclusi nel secolo XIV entro le mura, che compresero nel loro perimetro triangolare circa 3,5 kmq. di territorio, non ancora tutti coperti da caseggiati. Gli abitanti, in corrispondenza dell'estendersi del dominio politico della città, aumentarono a 41 mila nel 1320, cui segue un lento periodo di decadenza, che si accentua con i primi tempi del periodo veneziano, tanto che nel 1430 Padova era diminuita a soli 17 mila abitanti. Il lento incremento fa poi aumentare piuttosto il comune che la città, la quale contava, nel 1871, 45 mila abitanti. L'espansione maggiore si è verificata dalla parte del vecchio sobborgo del Bassanello e verso la stazione ferroviaria e nei dintorni di questa, come pure con file di case fuori Barriera Pontecorvo fino a Voltabarozzo e lungo il rettifilo di Porta Euganea fino alla Brentella. Gli abitanti del comune (che abbraccia ora una superficie di 93,1 kmq.) sono poi aumentati nel modo seguente: 1881, 72.174; 1901, 82.281; 1911, 96.230; 1921, 112.021; 1931, 131.066 (di cui 83 mila nel centro). Molto rilevante è la comunità ebraica.
Gran parte del comune è ricoperto da campi seminati (77,7 kmq., pari al 95,5% della superficie agraria e forestale), con prevalenza dei cereali (frumento e mais) e di foraggere, spesso limitate da filari di viti. Circa 5500 persone hanno come professione principale, e oltre 13 mila come oecupazione secondaria, l'agricoltura: indice questo dell'importanza agricola della città, nella quale abitano anche molti possidenti di altri comuni, commercianti e banchieri. Per lungo tempo Padova visse della campagna e per la campagna circostante. Industrie tradizionali erano quelle che lavoravano la lana e la seta, poi decadute; solo a pochi decennî addietro risale l'introduzione delle industrie moderne, che, col favore dei nuovi mezzi di comunicazione (nodo ferroviario; facilità di autotrasporti col vicino porto di Marghera; possibilità di usare vie di navigazione interna), presero notevole sviluppo e contribuirono all'ingrandimento dell'area urbana, dando lavoro a circa un decimo della popolazione del comune. Sono da ricordare in primo luogo le industrie che utilizzano prodotti dell'agricoltura (pastifici, fabbriche di biscotti e dolciumi, di rosolî, liquori e aperitivi, di birra), poi l'industria dei mobili e quella della seta artificiale, che dà lavoro a 1800 persone. Seguono le industrie meccaniche (trafilature di ferro per la fabbrica di fili e reti metalliche, officina per la riparazione del materiale ferro-tramviario, fabbrica di giocattoli automatici, che impiega 450 operai, tintorie, fabbriche d'inchiostri e di saponi). La maggior parte delle officine ha trovato posto fuori delle barriere Codalunga e Vittorio Emanuele. I principali prodotti di scambio sono quelli agricoli. I rapporti col contado sono facilitati da numerose tramvie che irradiano in diverse direzioni (Piove di Sacco, Conselve, Stra con proseguimento per Venezia, Ponte Vigodarzere, Teolo).
Padova assunse nel Medioevo il suo attuale aspetto di città porticata (12 km. di portici), dalle strade serpeggianti, strette spesso, ma ricche di prospettive: andamento coerente, che il rettifilo di Corso del Popolo, fatto senza tener conto, non solo del colore prospettico sempre a visuali spezzate e ricorrenti della città tutta, ma nemmeno di quei porticati tradizionali, tagliò e sconnesse, con tale danno, che gli stessi piani regolatori in corso di effettuazione, richiesti dallo sviluppo intenso e dalla difesa della sanità pubblica, potranno difficilmente risarcire.
Quel certo aspetto bolognese, che subito si nota a Padova, non fosse altro nella grande distesa dei portici, esclusi da Venezia, e scarsi anche altrove nel Veneto, si deve forse all'influenza formatrice che vi ebbe l'università, figlia diretta di Bologna (v. appresso). Poiché, con la dottrina e i maestri di essa, è naturale venissero da Bologna libri, miniature, costumi, e che si riflettessero vivamente sulla vita cittadina e le sue forme. Ancora oggi l'istituto dà alla città una sua vivace impronta studentesca, con i quattromila alunni - parecchi dei quali venuti dall'estero, e in prevalenza dal vicino Oriente - che lo frequentano, con una così intensa e crescente vitalità, che non è superata se non da Roma e da Napoli. Ma la relativa piccolezza di Padova in confronto a questi centri, fa sì che, più assai che in essi, qui tutta l'alta cultura sia sorretta e attratta dall'ateneo. Il problema dell'università è quindi per Padova, più che per altre sedi, problema squisitamente cittadino, che ha i suoi riflessi determinanti sulla edilizia e sull'urbanistica. Esso ebbe un geniale progetto di soluzione, poi non realizzato, nel sec. XIX, per opera dell'architetto Jappelli. Dopo lunghe resistenze retrograde, per diretto intervento del governo nazionale l'università di Padova sta per avere la sua sede degna, che ristabilirà anche dal lato edilizio - includendo gl'istituti sussidiarî - l'equilibrio tra l'università e gli altri enti pubblici. Padova, oltre che città universitaria, è notevolissimo centro agrario e industriale del Veneto: è stato perciò costruito un grande mercato coperto o borsa di contrattazione, con annessi grandi magazzini frigoriferi. Le necessità industriali sono affrontate e avviate alle soluzioni migliori dall'annuale grande fiera, sorretta dal comune e dalle provvidenze del governo, e fornita di vasta sede (a sud-est della stazione ferroviaria), meta, oltre che di commercianti e d'industriali, di numerosi pellegrini che accorrono in occasione della fiera del Santo (13 giugno). Anche le esigenze sportive della popolazione e della studentesca hanno soddisfazione piena in attrezzati campi sportivi, nello stadio, nel velodromo, nell'ippodromo di Ponte di Brenta, nelle società canottieri e Rari Nantes, che hanno sede sul Bacchiglione, nel campo d'aviazione, ecc. Tutte codeste benefiche istituzioni sono state anche a Padova potenziate dal fascismo, che ha dato impulso pure a un'organica sistemazione stradale della città e del contado (di recente inaugurazione è l'autostrada Padova-Venezia), specialmente, per ciò che riguarda la città stessa, demolendo il malsano quartiere di S. Lucia, sulla cui area ora sorgono edifici, spesso di gusto discutibile, ma almeno perfettamente rispondenti alle norme del decoro e dell'igiene.
Monumenti. - Dei monumenti d'epoca romana c'è conservato pochissimo. Ponti larghi e robusti (San Lorenzo, Molino, Altinate, Corvo); ruderi dell'anfiteatro, che doveva essere grandioso, ma del quale rimane solo un breve tratto d'un muraglione ellittico intermedio, con alcune arcate dei vomitolî e qualche fondamento di altre arcate e di altri muraglioni; ruderi del Foro, colonne e trabeazioni; numerosi monumenti sepolcrali, di cui bellissimo quello della famiglia Volumnia; e numerose iscrizioni.
Relativamente scarsi anche i resti risalenti all'alto Medioevo: tra questi l'oratorio di S. Prosdocimo sotto Santa Giustina, di derivazione italo-bizantina, che per varie ragioni non è possibile riportare innanzi al sec. VIII. Più antica (sec. VII) dovette essere la basilica detta longobarda, di cui apparvero residui durante lo scavo per il fabbricato municipale. Di non molto posteriore a San Prosdocimo la prima chiesa di S. Sofia, ricostruita nella forma attuale nel sec. XII, ma conservante della prima fondazione l'abside esterna di sapore chiaramente bizantino, sebbene di fattura romanica. Al sec. XII si deve la fondazione del battistero, rimaneggiato però nel XIV; esso rimane uno dei pochi vestigi che Padova serbi del tempo romanico, insieme con la citata S. Sofia, una parte del fianco dei Carmini e due campanili. La basilica di S. Antonio fu iniziata nel sec. XIII sul luogo di un'antica chiesa dedicata a S. Maria Mater Domini. L'architettura romanico-gotica di essa, di tipo francescano, è variata da elementi orientaleggianti, quali le cupole, i campanili a foggia di minareti, gli archi ciechi della fronte. Tra gli edifici civili, da notarsi principalmente il palazzo degli Anziani, di cui oggi restano ruderi in un fabbricato che incorpora anche vestigi (capitelli, colonne bizantine) di un più antico palazzo comunale. Ai primi del sec. XIII risale la fondazione della Sala della Ragione, che deve però la sua forma attuale essenzialmente a fra Giovanni degli Eremitani, il quale ne iniziò il rimaneggiamento nel 1306; ai sec. XIII-XIV ciò che resta delle case ogivali di Ezzelino a S. Lucia, del Bonafari in via Soncin, ecc. Ai primi anni del '300 risale la costruzione della cappella funebre di Enrico Scrovegno all'Arena; tra le altre costruzioni di questo tempo notare gli Eremitani (1360?), la chiesa dei Servi, la chiesa di S. Nicolò, la cappella di S. Michele, negletta ma contenente affreschi altichiereschi di Iacopo da Verona (1398), la reggia carrarese, di cui esistono avanzi di loggia (1343), ecc. Il primo Rinascimento si afferma timidamente con le costruzioni ritardatarie del veneziano Pietro Lombardo (casa Olzignani alle Torricelle, casa Roselli in via Tadi, ecc.) e dei suoi seguaci quattrocenteschi, principalmente G. Minello Bardi; il Cinquecento s'inizia con la Loggia del Consiglio (Gran Guardia) in Piazza dei Signori, del bassanese Annibale Maggi, il cui figlio Antonio architetta la Casa degli Specchi presso il ponte San Giovanni; ma il maggior costruttore del tempo è il veronese Giov. Maria Falconetto, autore delle porte S. Giovanni e Savonarola, del Padiglione e della Loggia Cornaro (1824), dell'arco della Torre dell'Orologio, ecc. (v. XIV, p. 741). La basilica di Santa Giustina fu terminata nel '500 da Andrea da Valle, che seguì il Falconetto nella Certosa, poi nella città e rimaneggiò pure il duomo, per il quale forse vi fu anche un disegno michelangiolesco. Il palazzo Mantova Benavides, dietro gli Eremitani, fu architettato invece dal fiorentino Bartolomeo Ammannati, a cui si deve, nel cortile, la colossale statua di Ercole e il bell'arco di accesso al giardino. Malgrado le successive aggiunte e importazioni, Padova conservò sempre nel secolo un carattere architettonico assai modesto ma originale, nel quale si rispecchia un germe di derivazione bolognese. L'età barocca non diede alla città monumenti particolarmente notevoli; ove si eccettuino il lato minore del Monte di Pietà dell'Albanese (il maggiore è del Falconetto, 1587), il palazzo Selvatico e la chiesa del Torresino del Frigimelica, il palazzo Zigno di B. Maccarucci. Per la scultura più che per le altre arti Padova fu tributaria. Alla cappella Scrovegna la Madonna tra due angeli è di Giovanni Pisano, al quale si attribuisce la statua di Enrico Scrovegno nella sagrestia. Il monumento sepolcrale dello stesso spetta invece ad Andriolo de Sanctis veneziano a cui si devono pure le tombe di Iacopo e Ubertino da Carrara (1357) agli Eremitani, sculture della cappella S. Felice al Santo, ecc. Nel duomo, l'arca pensile di Pileo da Prata, del 1400, è dei veneziani Dalle Masegne: più tardi verranno da Venezia scultori dalla bottega dei Buon (S. Pietro). Un austriaco, Egidio da Wiener-Neustadt lasciò una Pietà in S. Sofia agl'inizî del secolo e un S. Michele arcivescovo in S. Leandro, oggi a Montemerlo. Gli scultori fiorentini, Niccolò Baroncelli (frammento al museo e agli Eremitani; portale sud ibid., ecc.), che educò il padovano Domenico di Paris, col quale passò a Ferrara, e Pietro Lamberti (sul cui disegno fu eseguita la tomba Fulgosio al Santo) prepararono l'avvento del Rinascimento; che ebbe luogo solo dietro l'impulso decisivo dei grandi Toscani qui convenuti: Paolo Uccello, Filippo Lippi, Donatello. Se nulla rimane dei due primi, di Donato, che vi soggiornò dal 1443 al 1453, restano i mirabili frammenti dello smembrato altare del Santo, e, nel sagrato della basilica, il monumento equestre a Erasmo Gattamelata, una delle opere più alte della statuaria d'ogni tempo (v. II, tav. CXXXI; III, tavv. CXXIX-CXXX; XIII, tavv. XXXIII-XXXVI; XVI, p. 448). A tali esempî crebbe la scultura padovana, dapprima con Nicolò Pizzolo, che addolcì Donato in senso lippesco (pala di terracotta nella cappella Ovetari agli Eremitani, 1449-53; Madonna dell'Antisagrestia, ibid.), poi specialmente con Bartolomeo Bellano, autore del fregio marmoreo dell'armadio delle reliquie nella sagrestia del Santo, di dieci bassorilievi bronzei per il tornacoro della stessa basilica, del monumento Roccabonella a S. Francesco, ecc.: opere tra le più vive della plastica padovana sebbene, in generale, non adeguatamente apprezzate. In parte suo seguace fu Andrea Briosco detto il Riccio, che, tra l'altro, aggiunse due formelle alle bellanesche del Santo, dove lasciò anche il famoso candelabro di giusto gretto e precocemente neoclassico, oltre a tre statue più piacevoli a San Canciano. Pure bellaneschi furono Giov. Monelli, a cui spetta il monumento di Cristoforo da Recanati per S. Bernardino, oggi frammentario al Museo (non l'altare di terracotta agli Eremitani, che si è dimostrato di maestro Giuliano), e, almeno nel suo periodo padovano, Pietro Lombardo (mausoleo Roselli al Santo) nonché Agostino de' Fonduti, padovano, che operò in Lombardia, mescolando al gusto patrio il bramantesco. Dell'Ammannati scultore rimane tra l'altro il monumento Benavides agli Eremitani. Nella cappella del Santo nella basilica omonima lavorarono i veneziani Antonio e Tullio Lombardi e i toscani Iacopo Sansovino (1563) e Silvio Cosini (1536-7): ivi anche, in seguito, Iacopo Stella, Danese Cattaneo, Girolamo Campagna, G.M. Mosca, passato poi in Polonia, che lasciarono altre opere altrove. Nella chiesa, accanto a due busti del Cattaneo (seguito dal Segala nel monumento al Deciano agli Eremitani), Alessandro Vittoria partecipò all'esecuzione del monumento Contarini. Alla fine del secolo il padovano Tiziano Aspetti, disceso stilisticamente in parte dall'Ammannati, eseguì i rilievi di bronzo per l'altare di S. Daniele nella cripta del duomo e altri lavori. A S. Rocco esisteva la pala plastica, oggi al Museo, di Tiziano Minio che architettò il palazzo municipale e forse il famoso cortile dell'università, e a S. Giustina si notano i rilievi di Giovanni Francesco de' Sordi, seguace del Sansovino; al Santo le sculture dei settecenteschi Allio e Parodi (discepolo del Bernini, genovese; cfr. altare in S. Giustina).
Anche la pittura a Padova fu da principio importata. La cappella Scrovegna fu affrescata quasi interamente da Giotto (1305-06): storie di Maria e del Salvatore; Giudizio universale; figure simboliche, con aiuti, specialmente per i medaglioni del soffitto; nel coro e nell'abside, pitture di un maestro romagnolo. Giotto aveva anche dipinto, verso il 1307, le allegorie della Sala della Ragione, distrutte interamente da incendio nel 1420 e rinnovate da Niccolò Miretto con l'aiuto di un ferrarese, intorno al '30. La cappella San Felice in S. Antonio (1372-1377) fu affrescata dai pittori Altichiero e Avanzo, forse con un terzo aiuto: a codesti pittori si deve anche la decorazione della cappella di S. Giorgio nel sagrato del Santo; al solo Altichiero il dipinto sulla tomba Dotto agli Eremitani, ecc. (v. II, tavole CXXXVII-CXXXVIII). Quivi sono anche le prime pitture padovane del fiorentino Giusto de' Menabuoi (frammenti di figure in due cappelle), il quale decorò tutto l'interno del Battistero e la cappella Belludi al Santo, e dipinse due Madonne nell'abside della cappella Scrovegna. Guariento (1338-1368 o 1370) lasciò agli Eremitani, oltre a un'Incoronazione (già in S. Agostino), il grandioso ciclo di affreschi del coro, per il quale fu forse aiutato dal veneziano Semitecolo (di cui frammenti alla biblioteca capitolare del duomo, dove si trova anche una Madonna di Giusto de' Menabuoi). Gli esempî dei grandi Toscani, specialmente del Lippi, allora nel suo momento più vigoroso, che lavorò nel palazzo del podestà tra il 1434 e il 1437, suscitarono la fioritura improvvisa della pittura padovana, che il pedagogo imprenditore Squarcione non aveva saputo nutrire. Già nel 1436 il lippismo è chiaro nel veneziano G. Storlato, pittore della cappella di S. Luca (oggi Sala capitolare) in S. Giustina. Ma il vero genio di Padova fu Andrea Mantegna (1431-1506): associatosi al Pizzolo per la pittura parietale della cappella Ovetari agli Eremitani prevalse sul compagno maggiore e ne eseguì dal 1448 quasi tutta la decorazione. Cosicché soltanto il soffitto fu dipinto dai competitori A. da Murano e G. d'Alemagna; mentre al Pizzolo si devono il Dio Padre nel catino dell'abside e alcuni particolari decorativi; il resto è del Mantegna, salvo i riquadri, bene distinguibili, e del resto firmati, dovuti a Bono da Ferrara e ad Ansuino da Forlì (v. III, tavole CXIII-CXIV). Al Mantegna appartiene inoltre, a Padova, la lunetta (1452, ridip.) sopra la porta maggiore del Santo. Il suo esempio fu fecondo. Tra i seguaci padovani notare Iacopo da Montagnana (palazzo vescovile), e Bernardo Parenzano (chiostro di S. Giustina: 1489-1494) e l'epigono Giulio Campagnola con i primi accenni a Giorgione nella chiesa del Carmine (1505-1506). Torna a essere prevalentemente importata la pittura nel '500: alla scuola del Santo sono i tre mirabili freschi giovanili di Tiziano, iniziati nel 1511, sull'esempio dei quali si formarono in parte i pittori Girolamo del Santo e Domenico Campagnola, sensibili del resto, specie il primo, ai più facili suggerimenti di Gerolamo Romanino, che dipinse in Padova la bella Madonna con Santi per il vecchio coro di S. Giustina (ora al Museo). In codesta chiesa, sull'altar maggiore, si trova la pala col Martirio della Santa, di Paolo Veronese. Restano inoltre nelle varie chiese della città numerose opere degli ultimi cinquecentisti veneti: Pietro Damini (Santo), Palma il Giovane (duomo, S. Giustina), ecc. Nel Seicento Padova ebbe una breve fioritura indigena col Padovanino, il Liberi e il Forabosco, dopo la quale, nel successivo grande secolo della pittura veneziana, essa tornò a ospitare lavori prodotti dalla capitale. Basti citare i maggiori: di Giambattista Piazzetta, la Cena di Emmaus, già in palazzo comunale, e la Decollazione di S. Giovanni al Santo; del Tiepolo la S. Agata della stessa basilica, le tre pale di S. Massimo, l'Evangelista di S. Lucia, ecc. Pare sia stata però la patria di Gianantonio Pellegrini, uno dei più sregolati ma felici pittori del primo Settecento (dipinti al duomo, Eremitani, Dimesse) e preparò con le opere di A. Selva (Palazzo Dotto, 1796 circa), discepolo di T. Temanza (S. Margherita), la fioritura neoclassica di Giuseppe Jappelli (1783-1852), che ne fu scolaro e aiuto (Caffè Pedrocchi [v. VIII, tavole L-LI], Macello Vecchio, Giardino Treves, ecc.).
V. tavv. CXXXV-CXL.
Istituti di cultura e biblioteche. - L'università. - Se già prima esistevano in Padova scuole ecclesiastiche e laiche di grammatica e di diritto, il primo nucleo dell'università si ebbe nel 1222 per l'esodo, dovuto a cause politiche, di scolari e maestri da Bologna. Presto fiorita per le cure del comune - dopo la parentesi ezzeliniana - dei Carraresi e della repubblica veneta, a cui fu particolarmente cara, essa raggiunse il suo massimo splendore nei secoli XV e XVI, ma vanta anche nei seguenti i grandi nomi del Galilei e di G. B. Morgagni.
Nel 1399, durante la dominazione carrarese, si divideva nei due rami dei "legisti" e degli "artisti" (filosofi, medici e, più tardi, teologi), entrambi presieduti da rettori, scelti dagli scolari fra gli scolari, divisi in "nazioni" 22 per i legisti, 7 per gli artisti. Nel 1517 la repubblica, veneta creava il magistrato dei tre "Rif0rmatori dello Studio", in cui si accentrò a poco a poco il governo di tutta l'università, ma solo nel 1738 ne fu tolta agli scolari la reggenza, affidata a due "protettori" o "sindaci", poi nel 1806 a un solo, col titolo di "reggente", tramutato nel 1815 in quello di "rettore magnifico".
Le scuole, disperse fino al Quattrocento in varî luoghi della città furono poi raccolte in un nuovo edificio, costruito in parte sul preesistente famoso Albergo del Bo (donde il nome che attualmente si conserva), ridotto e ampliato dal 1542 al 1601 intorno allo splendido cortile di stile sansovinesco, e con altre aggiunte fino al sec. XX. Nell'aula magna e nei porticati si conservano, vero museo araldico, gli stemmi degli studenti che furono rettori, sindaci, consiglieri dal 1542 al 1687; nel Museo la cattedra di Galileo e la quinta vertebra lombare del grande scienziato; accanto ad esso è il celebre teatro anatomico, fatto costruire - primo in Europa - da Girolamo Fabrizio d'Acquapendente nel 1594, su disegno, si dice, di Paolo Sarpi, e che fu usato fino al 1872.
Fanno parte dell'università i nuovi istituti scientifici, fra cui la R. Scuola di applicazione per gl'ingegneri e l'Istituto geologico, con l'importante museo geologico, il cui primo nucleo è costituito dalle raccolte del Vallisnieri (1733).
Merita speciale ricordo l'orto botanico, il più antico d'Europa, fondato nel 1545 per decreto del senato e per iniziativa di Francesco Bonafede, che aveva cominciato nel 1533 nello Studio la "lettura dei semplici", costruito su disegno di Andrea Moroni da Bergamo. L'osservatorio astronomico, fondato per decreto del senato nel 1761, trovò sede nella torre dell'antico castello di Ezzelino III; l'abate Toaldo v'iniziò le sue lezioni di astronomia nel 1769-70.
Reale Accademia di scienze, lettere ed arti. - Delle molte accademie fiorite a Padova rimase più famosa quella dei "Ricovrati", fondata per cura dell'abate Federico Carnaro nel 1599, che ebbe tra i suoi soci anche il Galilei. Con ducale 18 marzo 1779 la repubblica veneta la fondeva con l'Accademia di arte agraria (1768), costituendo così l'attuale, che pubblica dalla fondazione, sotto varî nomi, i suoi Atti e Memorie.
Biblioteca universitaria. - Ideata da Felice Osio, milanese, lettore di umanità greca e latina, che con il cardinale Federico Borromeo aveva cooperato alla fondazione dell'Ambrosiana, fu decretata dal senato veneto il 5 luglio 1629, prima biblioteca istituita "a servizio e decoro" di un'università. Il nucleo iniziale fu costituito dalla libreria dei Selvatico; si accrebbe poi con le biblioteche delle soppresse corporazioni religiose, specialmente con quelle di S. Giustina, di S. Francesco (fondata nel 1758 da Michelangelo Carmeli), dei benedettini di Praglia, e con altri importanti legati. Ebbe sede, fino al 1730, nell'antico Collegio gesuitico, poi nella Sala dei Giganti della reggia carrarese, finché passò nel 1912 ín un proprio edificio. Vi è annesso l'Archivio antico universitario.
Biblioteca civica. - Aggregata al museo. Sorse nell'anno 1839 con il fondo del legato Polcastro, ma il merito maggiore della sua costituzione spetta ad Andrea Gloria (1821-1911), paleografo e storico, il quale vi aggiunse e vi ordinò gli antichi archivî del comune nonché delle corporazioni relígiose.
I fondi principali sono costituiti dalla biblioteca padovana di A. Piazza (1857), con manoscritti e documenti preziosi di storia locale, dalla biblioteca femminile donata dal conte P. L. Ferri (1871), dalle collezioni dantesca, petrarchesca e cominiana di A. Palesa (1873), dalla raccolta di testi di lingua di Roberto De Visiani e dalla collezione degli autografi.
Biblioteca del seminario. - Deve la sua origine, come anche quella della celebre tipografia, al fondatore del seminario, il cardinale Gregorio Barbarigo (1671).
Ricca di codici e d'incunabuli, vi si conservano, tra l'altro, la lettera autografa del Petrarca a Giovanni Dondi, un esemplare del Dialogo dei massimi sistemi postillato dal Galilei, e i manoscritti degli abati Brunacci e Gennari, storici ed eruditi del Settecento.
Biblioteca Capitolare (antica Vescovile). - Sorta nel 1482 per un ricco dono di manoscritti fatto dal cardinale Pietro Foscari, possiede preziosi codici dei secoli IX-XIV, fra cui l'Evangeliario d'Isidoro del 1170 e l'Epistolario miniato da Giovanni da Gaibana nel 1259, le opere autografe di Sperone Speroni e lettere di T. Tasso. Si accrebbe per i fondi dei vescovi Jacopo Zeno e N. Barozzi.
Vi è unito l'archivio della curia, con documenti i quali risalgono al secolo IX.
Biblioteca Antoniana. - Annessa al museo omonimo. Ricca di preziosi codici, alcuni dei quali risalenti al sec. VIII, di rari incunabuli, di corali e messali miniati, fu costituita nella prima metà del sec. XIII col primo nucleo dei manoscritti di S. Antonio di Padova, di cui possiede un codice dei Sermom con postille autografe, e del beato Luca Belludi.
Ricca di preziosi incunabuli e di rarità bibliografiche è, in provincia, la Biblioteca Camerini a Piazzola sul Brenta.
Società di cultura e incoraggiamento. - L'istituto sorse nel 1844 per iniziativa della camera di commercio sotto la presidenza del conte Andrea Cittadella-Vigodarzere e fu volto dapprima al progresso agrario della proiuncia. Più tardi, con le rendite del legato Pezzini-Cavalletto, furono istituiti premî "a quegli Italiani che nelle scienze, nelle industrie e nelle arti promuoveranno più efficacemente con l'íngegno e con l'opera la prosperità nazionale". Possiede Un'importante biblioteca. Dal 1873 v'è annesso un gabinetto di lettura.
Vita musicale. - Già in epoca romana Padova è ricordata per famosi concorsi poetici e rappresentazioni che formavano parte dei giuochi "Isclastici". In essi si distinse Trasea Peto, di antica e nobile stirpe padovana, che Nerone condannò poi a morte. La tradizione di tali feste continua nel primo Medioevo: esse si svolgevano accompagnate sicuramente dalla musica, all'aperto nel Prato della Valle. Nel 1243, a Padova, si trova notizia della prima rappresentazione sacra italiana di cui si abbia memoria. A questa seguì una lunga serie di sacre rappresentazioni, che ci porta ad epoca ben più tarda fino nel secolo XV ed è presumibile che, in manifestazioni di questo genere, non secondarie dovessero essere la funzione e l'importanza della musica.
Intorno al 1300 visse Marchetto da Padova, le opere teoriche del quale fanno pensare all'esistenza in Padova, in questo secolo, di un centro di studî della teoria musicale. Centro di studî particolarmente importante, in quanto esso è in pieno rigoglio proprio nel momento in cui declina e si assopisce quella che poi è stata chiamata Ars antiqua, e sboccia la fioritura magnifica dell'Ars nova, che è quanto dire della prima rinascita musicale italiana.
Nel Trecento sono da ricordarsi i nomi di taluni compositori padovani quali Bartolino, Grazioso (verosimilmente Antonio) e Dattalo. forse quel Domenico Datalo, dal 1369 al 1375 organista della cappella di S. Marco.
Ad ogni modo, se la teoria musicale italiana, e particolarmente la notazione italiana del Trecento, in Padova avevano preso le mosse per il loro svolgimento, dal Pomerium ivi composto da Marchetto, pure in Padova si conchiudono nel Tractatus prattice cantus mensurabilis ad modum Italicorum composto nel 1412 dal padovano Prosdocimo de Beldemandis. Contemporaneamente a Prosdocimo vive anche a Padova Iohannes Ciconia, di Liegi, che a Padova provvede alla redazione dei suoi trattati e in questa città trova ispirazioni per le sue musiche, nelle quali già si presenta lo stile più evoluto di J. Dunstaple.
Gli scolari italiani e stranieri, che nel Quattrocento si accentrano numerosi in Padova, dȧnno l'opera loro a rappresentazioni sceniche di notevole importanza anche per la storia del teatro. Dalle rappresentazioni di questo tipo si passa, a grado a grado, a forme più consistenti e si giunge alle prime costituzioni di vere e proprie compagnie ecomiche, a capo delle quali al fine emerge l'autoreattore Angelo Beolco, il Ruzzante. E in tutte queste rappresentazioni la musica ha la sua parte, talvolta in connessione stretta con l'azione, altra volta negl'intermezzi fra atto e atto. E, nel contempo, sempre maggiore diverrà via via l'importanza della musica nelle rappresentazioni cinquecentesche delle varie accademie (degl'Infiammati, dei Costumati, degli Elevati, dei Rinascenti) sorte in Padova, e alla fondazione delle quali spinsero e giovarono in modo specialissimo i bisogni musicali dell'epoca. Esse si prodigano in esecuzioni di madrigali, di villotte, canti carnascialeschi, ballate, cantate e intermezzi. Fra i nomi che si possono fare, quello del liutista Antonio Rota o Rotta è legato alla forma di danza detta Paduana o Padovana. Centro di questa attività musicale era quel Francesco Portenari, fondatore (1556) dell'Accademia dei Costanti, che imperava allora a Padova con la sua scuola, che dovette essere numerosa. Nel '500 la scuola veneziana è in piena efficienza, e rapisce alla soggetta Padova gli artisti migliori, inquadrandone l'attività nel suo proprio ambito. Così avviene di Annibale Padovano (1527-75), organista, madrigalista, autore di ricercari e toccate.
Tornando a Padova, vediamo che gli spettacoli delle accademie e le recite studentesche continuano, ma nel Seicento volgono ormai a decadenza: ai dilettanti si preferiscono le compagnie dei comici vaganti. Nel 1623 furono a Padova i "Fedeli". Dopo una breve pausa, per le feste del 1630 riprendono gli Spettacoli e, nel 1636, si rappresenta l'Ermione di Pio Enea degli Obizzii con musica di Giovanni Felice Sances (Roma 1600 − Vienna 1679). È questa una delle numerose introduzioni ai tornei degli Obizzi, favole mitologiche nelle quali prevalgono canti, danze e concerti musicali. Del 1643 è l'Amor pudico, sempre dell'Obizzi, con musica del padre Antonio dalla Tavola, maestro di cappella dell'"Arca del Santo". Ma la mancanza di un teatro per tali spettacoli, che si allestivano all'aperto e in case private, è vivamente sentita e gli accademici "Disuniti" istituiscono allora lo "Stallone".
Questo teatro durò dall'anno 1642 al 1777, anno in cui bruciò. Allo Stallone si rappresentò nel 1691 il primo melodramma: il Maurizio del Morselli, con musica di Domenico Gabrieli. Soltanto dieci anni dopo l'inaugurazione dello Stallone, nel 1652, si era costituito anche il teatro degli Obizzi, che si apriva all'epoca della fiera del Santo, con spettacoli di commedia e di pastorale con intermezzi e balletti. Nel. 1693 si hanno le prime notizie di spettacoli melodrammatici con l'Isifile, alla quale nel 1695 seguì l'Adone e poi il Ciclope, tragedia satirica per musica di Girolamo Frigimelica Roberti. Ma il Seicento, che con il Monteverdi, con il Cavalli e il Cesti in primo luogo, è stato il secolo dell'opera veneziana, e di Venezia aveva fatto il maggior centro del teatro musicale, non ha nella vicinissima Padova fortune particolarmente notevoli. Miglior sorte avrà il Settecento. Al Teatro degli Obizzi è di consuetudine la stagione dell'opera per il Santo, con spettacoli artisticamente allestiti, e che assurgono a qualche importanza. Poi, nel 1751 si inaugura il Teatro Nuovo con l'Artaserse di Baldassare Galuppi (Il Buranello), il quale scritterà negli anni seguenti per il Nuovo parecchie altre opere (Demofoonte 1758, Solimano 1760, Demetrio 1761, Muzio Scevola 1762, e Arianna e Teseo 1763). Questi due teatri mantengono contemporaneamente le loro attività ciascuno con due stagioni all'anno. A questi che sono stati i primi teatri d'opera, alla fine del Settecento, nel 1778, seguì un terzo teatro. Fu detto il "Teatro del Recinto" o "Teatrino del Prato della Valle". Era il momento dell'opera buffa napoletana e vi si rappresentarono soprattutto opere di questo genere. L'autore preferito fu il Paisiello. Ma questo teatrino nel 1792 fu chiuso. Intanto al Teatro Nuovo venivano eseguite opere di Francesco Antonio Callegari e di suo nipote Luigi Antonio, padovano e, per breve lasso di tempo, tra il 1792 e il 1794, si allestirono sontuosi spettacoli musicali anche nel teatro privato Pepoli con musiche dello Zingarelli, del Gardi, del Nasolini e del Bianchi.
Nell'Ottocento a Padova, come ovunque, trionfa naturalmente il Rossini.
Si susseguono poi, negli anni seguenti, opere di Meyerbeer, di Pacini, di Orlandi. E vengono poi Donizetti e Mercadante, per il quale ultimo il padovano Iacopo Crescini aveva scritto il libretto I Briganti. Ed eccoci al Verdi, al periodo patriottico della sua produzione. Il Teatro Nuovo finì col prendere il nome simbolico del grande maestro. Ricorderemo ancora che padovano di nascita h Arrigo Boito.
Ma, a parte l'importanza del teatro musicale, in altre direzioni può ancora essere vagliata l'importanza di Padova nella storia della musica. Nella seconda metà del Seicento dovette vivere per alcun tempo a Padova Carlo Pallavicini, il compositore d'opere nato a Salò e morto a Dresda. Padovano fu il famoso virtuoso di violino e compositore Francesco Montanari o Montanaro, e padovano di nascita fu G. B. Bassani, allievo del veneziano Castrovillari, che fu ritenuto un tempo maestro del Corelli, il quale però era di età maggiore di lui.
Risalto particolarissimo nella storia della musica ha la figura del padovano Bartolomeo Cristofori, che applicò i martelletti ai vecchi clavicembali, creando così il pianoforte.
L'istituzione, però, che fece di Padova un importante centro musicale è la cappella musicale del Sant'Antonio di Padova. Questo istituto seguì nei suoi primordî la purezza di linea della polifonia vocale della scuola romana, come fanno fede le opere di Costanzo Porta, del Pasquali, del Colombani; ma subì inevitabilmente, nella seconda metà del sec. XVI, le influenze delle grandiose stilistiche della scuola veneziana e dei Gabrieli. Lo scontro delle due grandi correnti, la corrente della musica polifonica cinquecentesca e quella della monodia accompagnata che s'ingrandiva nel Seicento, farà poi sentire i suoi effetti. Ad ogni modo lungo tutto il sec. XVII la musica strumentale, l'uso cioè degli strumenti insieme con il coro, nella basilica antoniana, non pare molto diffusa. Si è in diritto di credere, come asserisce G. Tebaldini, che da principio la musica strumentale non fosse considerata che quale accessorio, al medesimo modo che l'organo stesso non serviva che di amplemento alle cerimonie liturgiche. Nel sec. XVII non molti sono i maestri padovani della cappella del Santo che meritino di essere particolarmente ricordati. Peraltro dobbiamo menzionare il padre Bartolomeo Ratti che successe al cremonese Costanzo Porta e il padre Antonio dalla Tavola, che già prima abbiamo ricordato, e che alla cappella del Santo tenne il posto per quasi quarant'anni. Sia il Ratti sia il dalla Tavola sono padovani.
Il secolo XVIII invece, fino dai primi anni, presenta in Padova una vera e propria scuola non solo artistica, ma anche e soprattutto teorica e scientifica, che esce, per importanza e per la portata delle invenzioni e delle scoperte da quella che può essere stata semplice importanza locale. I nomi maggiori di questo periodo sono quelli di Francesco Callegari, che fu anche compositore; del Vallotti, vercellese, compositore e organista, forse il maggiore organista dell'epoca; del Sabbatini e quello del piranese Giuseppe Tartini. Il Vallotti scrisse anche un'opera teorica di singolare importanza Della scienza teorica e pratica della moderna musica (Padova 1779) dalla quale prese le mosse il suo allievo Sabbatini che riassunse le teorie del maestro nello scritto La vera idea delle musicali numeriche segnature (Venezia 1799).
Il Vallotti e il Sabbatini furono, in parte, oppositori delle teorie di Giuseppe Tartini, che considerò Padova quale sua seconda patria e quivi diede ragguaglio della sua scoperta del terzo suono, scrisse i suoi trattati e le sue maggiori composizioni e fondò quella scuola di violino che è stata chiamata Scuola delle Nazioni.
I fasti musicali di Padova n0n languirono; nel sec. XIX, la città fu sempre premurosa di fronte alle proprie istituzioni musicali, ai proprî teatri, alle proprie scuole. Al 1878 risale la fondazione dell'attuale Istituto musicale e la direzione fu allora affidata a Cesare Pollini. Oggi l'istituto è diretto da O. Ravanello, che è anche direttore della Cappella del Santo. Vivo è poi sempre l'attività della Società dei concerti che prese il nome dal glorioso inventore del pianoforte, Bartolomeo Cristofori.
Arte della stampa. - Il più antico libro noto stampato a Padova è la Fiammetta del Boccaccio, qui apparsa per la prima volta il 21 marzo 1472 per opera di un cittadino padovano, Bartolommeo di Valdezoccho, associato col tedesco Martinus de Septem Arboribus. I due soci stamparono 9 volumi in tutto, e fra essi il Canzoniere del Petrarca (6 novembre 1472) e il Guerin Meschino (21 aprile 1473). Partito o morto il tedesco, Bartolommeo continuò la sua impresa e di lui sono note nove edizioni, dal 28 aprile 1473 fino al 1484: fra esse il Terenzio del 4 agosto 1474 (esemplare impresso su pergamena nella Bibl. Nazionale di Vienna). Seguì Lorenzo Canozi (v.) di Lendinara, piu noto come intarsiatore: egli pubblicò dal 22 novembre 1472 al 1477 quindici volumi, ed è celebre l'edizione da lui procurata per la prima volta di alcune opere di Aristotele col commento di Averroè (1472-74), in quattro volumi estremamente rari (in Italia alla Bibl. Naz. di Napoli e alla Vaticana) ed impressi con cura grandissima. Malgrado la fiorente università, a Padova l'arte della stampa non ebbe un grande sviluppo, certo a causa della vicinanza di Venezia, centro tipografico per eccellenza; vi stamparono fino all'anno 1500 Leonardo Achates di Basilea, Pierre Maufer di Rouen, Albrecht di Stendal, Matteo Cerdoni di Windischgraetz e pochi altri.
Storia. - Padova fu in età storica, quando fioriva la Roma repubblicana, la città più importante del Veneto. Ma prima di essere la romana Patavium, fu presumibilmente centro di non scarsa importanza durante il periodo neolitico, come attestano le armi rintracciate insieme con rozzi fittili negli scavi della mattonaia Cassis alla Mandriola. Fiorì poi nell'età del bronzo e partecipò alla civiltà euganea, che ebbe il suo centro in Este: di quel periodo rimangono infatti notevoli documenti in alcuni vasi decorati, e in stele scolpite e inscritte, scoperti con oggetti d'importazione dall'Etruria e altri del II periodo atestino in varî sondaggi e specialmente nello scavo della necropoli del vicolo Ognissanti.
La leggenda mitica ne poneva la fondazione all'anno 1184 a. C., e la attribuiva ad Antenore, l'eroe troiano che dalla Troade, attraverso la Tracia e l'Illiria, avrebbe guidato gli Eneti in quella regione che, dal nome loro, si chiama tuttora Veneto. L'indagine moderna, in base ai risultati degli scavi (che attestano l'esistenza di pagi separati ancora alla fine del sec. V), ne pone la data di nascita all'inizio del sec. IV. Alla fine di quel secolo si riferisce la più antica notizia storica su Padova, tramandata dal padovano Livio: l'anno 302 a. C. il re spartano Cleonimo, cacciato dalla Magna Grecia, e spintosi a pirateggiare sul litorale veneto, fu battuto dai Padovani, che ne sconfissero per terra le milizie, e ne distrussero le navi che s'erano internate risalendo il fiume Medoacus. È inoltre testimoniato che la familiarità con le armi veniva ai Padovani, e in genere ai Veneti, dall'assidua vigilanza contro gli assalti dei Galli. Poiché dei Galli furono sempre nemici; amici invece, e alleati, di Roma. Nel 49 a. C. Padova ottenne la cittadinanza romana, e fu iscritta nella tribù Fabia; divenne il Municipium Patavium e anch'esso, come gli altri municipî d'Italia, ebbe norma di organizzazione dalla lex Iulia municipalis. Della floridezza di Padova si ha negli autori antichi più d'un accenno: era l'unica città d'Italia, dopo Roma, che nel censimento di Augusto contasse non meno di 500 cittadini con fortune tali da poter essere ascritti all'ordine equestre (Strabone); città opulentissima, insieme con Gades seconda dell'impero (Strabone e Pomponio Mela). Ed era ricchezza dovuta alla fertilità del suolo, e all'attivo commercio di lane e di tessuti.
L'amministrazione della città nei primi secoli imperiali beneficiò di un ordinamento autarchico locale: dal tempo di Diocleziano e Massimiliano l'autonomia decurionale fu ristretta prima con l'istituzione del governo di un corrector, poi di un praefectus; e tale diminuzione di poteri avviò a una fatale decadenza, che il succedersi d'invasioni barbariche accentuò fino al tramonto dell'impero. Non si deve tuttavia esagerare la importanza delle presunte distruzioni barbariche, ed è assai dubbia quella, divenuta leggendaria, attribuita ad Attila (450-453). Pochi anni dopo, al tempo del governo di Teodorico, non sembra avere sofferto eccessivamente delle violenze delle invasioni; e se il dominio bizantino fu troppo breve per lasciare tracce di un'opera di robusto riassetto, la prima e vera grande distruzione risale al tempo della conquista del re longobardo Agilulfo (601). Il vecchio municipio fu dato alle fiamme, l'ordinamento amministrativo sconvolto, il vescovado smembrato. Pareva che Padova dovesse essere cancellata dal novero delle città. Ma le tinte di questo terrificante quadro descritto dai cronisti devono essere attenuate, se nel corso di un secolo il vescovado era ricostituito e se il tracciato della città romana passava inalterato nella ricostruzione della città medievale. È vero che dal sec. VII al IX il centro della vita municipale fu trasferito a Monselice, e soltanto con gli Ottoni (960) Padova ritornò ad essere sede del ricostituito comitato: ma il facile riorganizzarsi della vita, che in poco tempo riportò la città alla testa del dominio del territorio, non si spiega se non con il sopravvivere e il persistere degli elementi fondamentali dell'antica struttura italica, i quali servirono di naturale richiamo alle disperse forze temporaneamente disgregate. La vigoria e la rapidità di risorgimento del periodo precomunale e il luminoso sviluppo dell'età comunale, dal sec. X al XII, non sono sorti per miracolo né sono creazioni artificiose; esse traggono vita da quel nocciolo di antica tradizione, rimasto superstite traverso le vicende più dure. Il breve dominio comitale, instaurato dagli Ottoni dalla fine del sec. X alla fine del sec. XII, l'effimero governo vescovile sopra la città non introdussero ostacoli che ritardassero o deviassero lo sviluppo delle sane forze locali eredi delle tradizioni indigene mai spente. Nel 1138 siamo in presenza dei consoli del comune, i quali, se non hanno del tutto eliminata l'autorità comitale, l'hanno gia scavalcata, e hanno consolidato l'autonomia del governo locale, che i tentativi di Federico Barbarossa, per costringerla a rientrare nel quadro dell'amministrazione imperiale, non riusciranno a soffocare.
Dal governo consolare a quello podestarile è breve il passo: dal governo della città alla sottomissione del contado, sebbene più difficile e contrastata dall'interporsi di un complesso sviluppo di interessi, il processo è incessante. Il comune padovano dalla fine del sec. XII non è più soltanto una forza economica, ma è anche un vitale organo politico. Dal momento dell'istituzione del podestà, quale espressione del libero esercizio di un'autorità sovrana, e nei due secoli seguenti, XIII e XIV, il comune padovano si evolve e si perfeziona negli ordini interni, nell'irrequietudine tormentosa dei contrasti di fazioni; ma ha larga attività esterna, collaborando e promovendo sanguinose lotte contro i confratelli comuni vicini, per sottometterli, negoziando trattati di alleanza, di amicizia e di reciprocità, che hanno obiettivi politici, militari e commerciali. Allarga la sfera di dominio, unificando sotto il suo controllo la giurisdizione del contado, contesa dalle resistenze laiche ed ecclesiastiche, sottomettendo alla sua sovranità le città vicine (Vicenza, Bassano, Feltre) e preparandosi a sostenere le più aspre lotte contro formidabili avversarî, Venezia, Verona e gli Estensi.
Un'impensata parentesi tra gli aspri contrasti di fazione, nel 1232, d'un tratto richiamava sopra la città l'attenzione dei tempi. La voce faconda di frate Antonio da Lisbona trascinava la folla, e qui il santo compiva la sua breve e attiva vita, recando all'ordine francescano il contributo di una fede appassionata e profonda. Il tenace volere dei concittadini di adozione lo sollevò, in meno che un anno dalla morte, all'onore dell'altare; la pietà dei devoti compose il culto della sua memoria nella maestà di un tempio. L'uno e l'altro sparsero nel mondo la loro fama: e Padova divenne celebre anche per il suo Santo.
ll vertiginoso progresso non fu arrestato dal trentennio dell'interregno ezzeliniano, da cui il libero comune uscì più vigoroso che mai, affacciandosi nella pienezza delle sue forze alla soglia del sec. XIV per contrastare il passo a un imperatore, Enrico VII, e al suo fedele alleato e vicario, Cangrande della Scala. Ma le lotte intestine dilaniavano la città che si adattava a subire il dominio di una delle famiglie più potenti. La famiglia dei signori da Carrara instaura, verso il 1320, col pretesto di difendere la città dall'oppressione scaligera, il proprio principato, che si mantiene per quasi un secolo, tra congiure e assassinî e guerre brillanti; e di Padova fecero la capitale di uno stato, il quale pareva dovesse emulare e superare l'antica fortuna. Francesco il Vecchio e il figlio suo, Francesco Novello, allo scorcio del sec. XIV, avevano accarezzato l'ideale di una grande politica di conquista dal Po alle Alpi, dalla Laguna all'Adige: ma non fecero che eccitare le invidie, le gelosie e le ritorsioni dei potenti vicini, Veneziani, Scaligeri e Visconti. E rimasero sommersi, una prima volta sopraffatti da Gian Galeazzo (1389), una seconda volta dall'accorta politica di Venezia (1406), che inghiottiva definitivamente il territorio padovano e la sua signoria.
L'esistenza politica della città e la sua indipendenza erano finite, anche se ne poteva guadagnare l'incremento economico. L'amore di libertà e il naturale spirito d'indipendenza non furono tuttavia sradicati d'un subito. Gli eredi degli spodestati signori e i loro fedeli seguaci non trascurarono l'occasione di tentar vane rivincite: nel 1439 inscenando una miserabile congiura; nel 1509 associando le loro forze a una ribellione, posta ai servizî degli stranieri. Venezia con la sua resistenza tenace ebbe ragione dell'una e dell'altra: e la quiete per più secoli non fu più turbata. Se la nobiltà era tuttavia sempre insofferente, Venezia poteva contare sulla fedeltà del popolo minuto e delle genti di campagna. In parecchi secoli di dominio l'amore per il leone di S. Marco non venne mai meno. Ai nuovi libertarî che alla fine del sec. XVIII applaudivano agl'ideali di una futura democrazia d'oltralpe e di essa si facevano paladini (1797), gli spiriti fedeli alla nobile tradizione indigena opponevano il grido "Marco!, Marco!", quasi presaghi, che la promessa libertà di qualche mese sarebbe stata preludio di più dura schiavitù. E venne l'Austria a cementare l'unità degli spiriti intorno a un ideale di più vera e sana libertà della patria.
Nelle giornate gloriose del 9 febbraio 1848, popolo e studenti, con spontanea ribellione, mostravano quanto nel silenzio avessero coltivato l'ideale supremo della patria comune.
La provincia di Padova.
La provincia di Padova, che ha forma molto irregolare e confini del tutto artificiali, copre una parte (circa la ventesima) della pianura padana, che declina dolcemente da settentrione a mezzogiorno e da occidente a oriente (Cittadella, m. 70; Codevigo, m. 0,5) e dalla quale si elevano isolati i colli Euganei (m. 603, M. Venda). Una linea molto sinuosa la separa a N. dalle provincie di Treviso e Vicenza, a O. da Vicenza e, per breve tratto, da Verona; a S. l'Adige la separa dal Polesine; a E. raggiunge la Laguna e confina con la provincia di Venezia. La bagnano l'Adige, la Brenta, il Bacchiglione e alcuni canali navigabili e di bonifica. La superficie è di 2141,5 chilometri quadrati, in modo che è soltanto la 69ª provincia del regno. La superficie agraria e forestale copre il 93,5% e di questa la grandissima parte è coperta da terreni seminativi semplici o con piante legnose (89,2%), quindi da prati permanenti (4,2%) e da colture legnose specializzate (3,3%, specie viti e frutteti), mentre invece scarsi sono i boschi (appena il 2,5%), gl'incolti produttivi (0,5%) e i pascoli (0,3%). Tra le colture cerealicole hanno la prevalenza il frumento (515,8 kmq.; 1933, produzione 1675 mila quintali) e il mais (393,1 kmq.); tra le foraggere l'erba medica. Si possono distinguere nella provincia diverse zone agrarie; a mezzogiorno le regioni di bonifica dell'Estense-Montegnanese e del Piovese, al centro la regione collinosa euganea, la regione agricola dal Conselvano-Monselicese e la regione centrale asciutta, a settentrione una regione irrigua e una zona alta asciutta. Il numero delle aziende agricole è di 66.800. L'allevamento è diffuso: vi sono 143 mila bovini, 23 mila equini, 53 mila suini, 11 mila caprini, 5 mila ovini. Gli abitanti erano, nel 1931, 632.160 in modo che Padova è la provincia più popolata del Veneto e, con 295 ab. per kmq. (più che doppia di quella del regno), quella che ha la più alta densità. L'aumento rispetto al 1921 è stato del 7,5%, dovuto all'elevata natalità (29,5 per 10.000 nel 1932 contro 23,8 nel regno). La provincia è suddivisa in 105 comuni, di cui 50 fra 3 e 5000 abitanti, 28 tra 5 e 10 mila, 19 tra 2 e 3000. Si calcola che circa 4 decimi della popolazione vivano in centri, il resto in case sparse. Dopo Padova, i maggiori comuni sono Monselice (ab. 15.411), Este (ab. 13.836), Cittadella (abitanti 12.679) e Montagnana (ab. 12.078).
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