PADOVA
(lat. Patavium)
Città del Veneto, capoluogo di provincia, P. è sita in bassa pianura alluvionale, compresa entro un'ansa fluviale, il cui alveo - oggi occupato dalle acque del Bacchiglione-Evrone - era interessato in tempi antichi (età preromana e romana) da un ramo del Medoacus (od. Brenta).Storia e urbanistica.- Una verifica della situazione urbanistica della città di P. in età altomedievale e medievale non può prescindere dalla conoscenza di quella che doveva o poteva essere la struttura urbana nella fase tardoantica. Studi recenti sulla struttura insediativa del centro di P. in età romana consentono di stabilire che le precedenti ipotesi sull'organizzazione urbanistica, preordinata secondo uno schema viario impostato su strade parallele e fra loro perpendicolari, delimitanti isolati regolari, devono essere abbandonate. I tratti viari in basolato rinvenuti non conducono certo all'orientamento di una forma urbis regolare, con cui di norma la città romana si esprimeva, e inoltre le sovrapposizioni medievali sul tessuto antico si devono ritenere la più diretta conferma di uno sviluppo insediativo di tipo 'spontaneo'. È stata poi dimostrata (Bosio, 1981) la continuità dei principali fusi viari, esistente tra l'età paleoveneta e quella medievale, attraverso la fase romana.Con l'occupazione longobarda del 602, secondo Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 23), la città romana di Patavium venne distrutta: forse non si trattò di una distruzione totale, bensì parziale, limitata cioè a talune case e palazzi, ma non vennero certo demoliti i ponti romani e tanto meno cancellate le utili strade antiche, la cui sussistenza è significativa per stabilire l'inesistenza di uno scarto tra momento tardoantico e momento longobardo (Lorenzoni, 1984). Il persistere dei più importanti ponti romani della cittadella fluviale, ancor oggi in parte visibili, palesa inoltre il perdurare di un sistema viario sostanzialmente costante e a lungo immutato. Il sec. 7° segnò comunque per P. una fase di grande disagio, politico ed economico: il declino della città era iniziato a partire dal 568-569, momento in cui i Longobardi, a ondate successive, iniziarono ad accerchiare P., isolandola quasi totalmente e costringendola a rinunciare allo svolgersi delle attività commerciali. Pertanto già prima del 602 P. perdette i contatti con tutto o quasi il territorio, iniziando a decadere economicamente. Con il 602 diminuì anche la sua rilevanza politica, giacché le autorità militare e amministrativa passarono a Monselice, sede della iudicaria; quella religiosa invece, rappresentata dal vescovo, secondo una tradizione riportata nel sec. 11° dal Chronicon Altinate e dal Chronicon Gradense, sarebbe migrata altrove per rifugiarsi a Malamocco, nella laguna veneziana. Tuttavia la menzione tarda della migrazione padovana nell'isola di Malamocco non è suffragata da alcuna testimonianza verosimile (Cessi, 1957) e tantomeno si connette con la 'parziale' distruzione cittadina: Patavium era un nodo di strade e di vie fluviali oltremodo rilevante e la sua totale scomparsa non avrebbe avuto alcun senso.Ai fini di una concreta storia urbanistica, la presenza in sede del presule consente di capire il processo di crescita della città, in quanto la mancanza di un'autorità di qualche rilievo, quale poteva essere quella vescovile, avrebbe portato conseguentemente al disfacimento della stessa struttura urbana (Lorenzoni, 1973). La presenza vescovile in città ridiventò comunque sicura a partire dal sec. 9°, data l'abbondanza di fonti scritte disponibili in questo momento, in cui le menzioni relative ai vescovi sono più frequenti. A eccezione delle scarne informazioni sul complesso di S. Giustina e della chiesa di S. Martino, sfuggono del tutto o quasi le vicende urbanistiche tra Tardo Antico e Alto Medioevo, dal punto di vista sia archeologico sia documentario. Il volto complessivo della città nei secc. 5°-6° non è noto, come non ben definibili sono l'entità e le conseguenze della devastazione del 602; pure dell'età carolingia si sa molto poco e solamente dopo le distruzioni ungariche (899-900) il quadro urbanistico inizia ad assumere caratteri più chiari. Nel Medioevo il centro cittadino era delimitato all'interno dell'ansa fluviale del Medoacus e le aree a E del flumesello risultavano essere pertanto suburbane.Nel 774 P. cadde in mano ai Franchi: in questo momento pare chiaro un processo d'incremento urbano che comportò sia un'inversione centripeta della città, verso l'insula fluviale, sia un discreto sviluppo demografico (Puppi, Universo, 1982).Nel 970 il vescovo Gauslino, avendo trovato abbandonato il complesso extramuraneo di S. Giustina, precedentemente devastato dagli Ungari, fece erigere in quel luogo un monastero, che divenne in seguito sede dei Benedettini, dotandolo di molti possedimenti. Il documento che informa sulla presenza dei monaci benedettini in città (Codice diplomatico padovano, 1877, doc. 55, pp. 80-82) è significativo soprattutto perché consente di riconoscere nella figura del presule quella di un grande feudatario, la cui autonomia e i cui mezzi economici rendono conto della sua potenza. All'autorità del vescovo corrispondeva anche urbanisticamente un'impostazione di carattere feudale, con il castello padronale, quello del vescovo, circondato da campi e poche case. A favorire uno sviluppo di questo tipo erano anche mere esigenze di difesa: a causa delle scorrerie ungariche del 911 e del 917 il re Berengario I infatti consentì che il vescovo di P. organizzasse un sistema difensivo sia all'interno della città sia all'esterno, nel territorio, con un sistema di castelli dotati di mura, fosse, bertesche e vie sotterranee (Codice diplomatico padovano, 1877, docc. 27, 30, pp. 40, 48). In P., oltre al castello vescovile, venne innalzato un ulteriore nucleo fortificato non ben individuabile tipologicamente, ma dotato di un'alta torre, la Torlonga, successivamente perno della fortezza prima ezzeliniana e poi carrarese. La struttura urbana di P. nel sec. 10° doveva quindi ruotare intorno a due monumenti rilevanti, la cattedrale-castello, politicamente notevole e autentico perno cittadino, e la Torlonga, con funzione di salvaguardia e punto di avvistamento.Il contesto abitativo di P. nel sec. 10° e in parte nel seguente fu senza dubbio pseudo-urbano, con il castello posto al centro di un'area alquanto dispersa, tra campi coltivabili, fattorie e qualche chiesa. Solo alla fine del sec. 11° si assistette a uno stacco qualitativo e quantitativo, che divenne ancor più evidente nel 12° secolo. A quanto emerge dallo studio delle fonti (Codice diplomatico padovano, 1877), nel sec. 11° la città doveva essere contraddistinta da numerose aree agricole: tra questo secolo e quello successivo P. dovette subire una trasformazione, poiché le citazioni documentarie riferibili a terreni coltivabili vengono ad attenuarsi; a tutta evidenza, a seguito di un processo di ripopolamento considerevole, le zone edificabili dovevano essersi estese. Intorno alla metà del sec. 12° i cittadini padovani sarebbero stati pari a un numero compreso tra i diecimila e i quindicimila. La reale consistenza numerica delle abitazioni nella seconda metà di questo secolo è resa nota dalla notizia di un gravoso incendio scoppiato a P. nel 1174, che portò alla distruzione di ben duemilaseicentoquattordici case: è possibile che prima dell'incendio almeno quattromila edifici fossero presenti in città. Una simile entità, se equiparata a quella relativa ai campi e alle fattorie esistenti un secolo prima, è indicativa nella dimostrazione dello sviluppo subìto da P., la quale, a partire dalla seconda metà del sec. 11°, evolvette da semplice villaggio agricolo a centro urbano quantitativamente rilevante. Uno stacco qualitativo si segnala in senso politico a partire dai primi decenni del 12° secolo. Già dal sec. 10° l'autorità vescovile pare detenesse il predominio assoluto in città e una conferma in questo senso giunge da una serie di benefici imperiali della seconda metà del sec. 11°: tra il 1079 e il decennio seguente il vescovo Ulderico e il suo successore Milone (m. nel 1095) divennero infatti i beneficiari di importanti privilegi imperiali e, in particolare a Milone, Enrico IV concesse la signoria della città, anche se formalmente non ne detenne il predominio (Codice diplomatico padovano, 1877, doc. 304, pp. 328-329). All'indomani della morte di Milone, vennero eletti due vescovi locali: l'uno, Sinibaldo, direttamente dal papa Urbano II, l'altro, Pietro, dall'antipapa Clemente III. La sede vescovile rimase incerta per un ventennio, ma alla fine Sinibaldo venne riconosciuto unico presule di Padova. La contesa tra i due vescovi poté aver influito non poco nella trasformazione della struttura amministrativa di P., con l'evidente significato politico che individuava in Pietro e nei suoi seguaci il partito filoimperiale, mentre in Sinibaldo e nei suoi i difensori d'una autonomia locale. Se la presenza dei consoli è documentata nel 1138, il processo di strutturazione del Comune risale verosimilmente a parecchio tempo prima (Lorenzoni, 1973). La vittoria di Sinibaldo capovolse di fatto l'antica struttura feudale e permise il sorgere di un'autentica città comunale. Così il Comune padovano alla fine del sec. 12°, poi con il podestà nel 13°, divenne una vera entità politica.Insieme alla ricostruzione di importantissimi complessi religiosi, violentemente danneggiati dal terremoto che nel 1117 sconvolse tutta la regione padana, si assistette al virage 'sconcertante' con cui i Padovani reagirono nella riedificazione edilizia della città: dai documenti pubblicati (Codice diplomatico padovano, 1879-1881) non sembrano esservi dubbi che i vacui dell'insula fluviale siano stati colmati, proprio tra la prima e la seconda metà del sec. 12°, da un fitto tessuto edilizio. È infatti del 1117 la prima menzione di un borgo costituitosi a ridosso di uno dei ponti di accesso alla città; inoltre in questo secolo le informazioni documentarie che testimoniano la presenza di borghi apud, foris o prope civitatem, sono numerose (Bortolami, 1985), grazie alla crescente corrente d'inurbamento innescata dal lancio politico del Comune e dal potenziamento dell'economia cittadina.Risale sempre al sec. 12° la costruzione del primo palazzo comunale, nella zona est della cittadella, nelle immediate vicinanze dei mercati, le cui stationes, per la vendita di pellame, panni e frutta, vennero erette nel 1191; l'insediamento del centro comunale in questa zona è suffragato dalla presenza di taluni palazzi, dei quali è pressoché impossibile verificare la funzione nel contesto urbanistico. La loro esistenza, comunque certa tra la fine del sec. 12° e gli inizi del 13°, prova che l'area intorno ai mercati e al palazzo comunale aveva già assunto una rilevanza tale da continuare, immutata, con quella fisionomia di base fino al Duecento, quando essa prese un aspetto ben definito. Ancora nel sec. 12° venne intrapresa la costruzione di alcuni tratti di mura cittadine che da N (od. ponte Molino) seguivano il perimetro della cittadella prima verso E, poi verso S e O, per giungere sino all'area del castello. Un chiaro indizio di sviluppo urbano e demografico è dato dall'espansione dei borghi oltre i confini settentrionali, orientali e meridionali della cittadella: documentata a partire dalla prima metà del sec. 12° - con la menzione dei borghi di ponte Molino, ponte Altinate, S. Sofia e delle Torricelle - tale 'apertura' riflette una vera e propria proiezione verso l'esterno del nucleo cittadino. Se la direttrice privilegiata di questa espansione fu quella verso E (ponte Altinate, S. Sofia, Ognissanti), quella più limitata risultò invece verso O: in tale settore urbano il solo insediamento degno di nota per questo periodo è il monastero di S. Benedetto, fondato da Giordano Forzatè verso il 1195: non si trattava certo di un borgo, bensì di una fondazione religiosa in luogo poco abitato, in mezzo alla campanea cittadina, attorno alla quale, già dai primi anni del secolo successivo, si verificò una forte crescita edilizia, di carattere prevalentemente religioso. Una posizione di indiscusso primato nel controllo e nell'indirizzo delle spinte espansive di P. medievale fu detenuto dal clero regolare durante tutto il Duecento, epoca in cui si assistette alla creazione di vere e proprie 'isole' suburbane, saldate tutt'intorno all'anello centrale della civitas (Bortolami, 1985). Mentre l'insediamento francescano (1225 ca.) venne a trovarsi al centro del quadrante sud-est della città, la grande chiesa domenicana, dedicata a s. Agostino, fu fondata (1226) proprio in quel corridoio ovest suburbano, poco o punto abitato; a N-E, nei pressi dell'antica arena, si inserirono dopo la metà del secolo gli Eremiti di s. Agostino, mentre sull'asse nord (ponte Molino) trovarono sede i Carmelitani tra la fine del sec. 13° e gli inizi del seguente.A partire dal 1195, il circuito delle mura cittadine, con numerose porte turrite, venne completato; al medesimo contesto cronologico risalgono anche la costruzione o ricostruzione di ponti e la risistemazione delle maggiori vie extraurbane, che però non determinarono il generarsi di una più precisa impostazione urbanistica, attuata in seguito, con la costruzione (prima metà del sec. 13°) del palazzo della Ragione, detto anche Salone. Questo sorse come palazzo preposto all'amministrazione della giustizia, in una struttura sociale precostituita: tale palazzo divenne simbolo e perno per nuovi rapporti sociali e la sua collocazione, nel mezzo delle stationes, non fu certo una scelta casuale. Spesso nell'urbanistica medievale il palazzo di giustizia, come anche quello comunale, sorgeva accanto alla cattedrale. A P. la struttura comunale è lontana da quella vescovile, situazione interpretabile quale atteggiamento e scelta da parte del potere centrale di disconoscere ogni privilegio di tipo feudale, civile o religioso, per poter affermare la propria autonomia giuridica.Nella temperie di fervore politico ed edilizio dei primi decenni del sec. 13°, l'ambito culturale risentì notevolmente dello stato di crescente progresso: la trasmigrazione di maestri e scolari da Bologna a P. segnò, nel 1222, un momento di gloria per lo Studio patavino, destinato a rimanere fino a oggi motivo singolare di onore e fama per la città. Con l'avvento di Ezzelino III da Romano (1237) P. soggiacque a dolorose distruzioni dei palazzi di quei magnati che ostacolavano la sua politica; tuttavia, a discapito delle fosche tinte con cui le fonti descrivono il suo governo, un impulso notevole fu dato dal dominus nel campo dell'architettura militare. A P. e nel circostante territorio (Monselice, Montagnana) il sorgere di strutture militari di un certo rilievo strategico induce a ritenere quasi certa la presenza di maestranze preposte alla costruzione di edifici fortificati (castelli, torrioni): a P. il nucleo difensivo nei pressi dell'antica Torlonga, parzialmente riutilizzata da Ezzelino, nonché l'erezione di un possente torrione nel settore settentrionale della città sono evidenti testimonianze del continuo sviluppo edilizio perseguito da Ezzelino. Dopo il suo dominio la città raggiunse un momento di floridezza economica e prestigio politico, difficilmente spiegabili con un periodo di dura oppressione e distruzione, e per questo si deve credere che la struttura urbanistica di P., come anche quella socio-economica, non avessero subìto alterazioni consistenti, ma anzi fossero probabilmente rimaste pressoché immutate.Nella seconda metà del sec. 13° e agli inizi del seguente P. era al culmine della sua potenza: dal punto di vista della conformazione urbanistica si deve tenere conto dell'intervento di saldatura del tratto ovest delle mura, tra l'od. porta Saracinesca e porta Codalunga, iniziato nel 1256 e concluso entro il 1270, tratto che lega in qualche modo la zona di Contrà con il borgo di ponte Molino, mediante la zona di ponte S. Leonardo e il monastero di S. Giovanni di Verdara.Risale agli inizi del Trecento la definitiva sistemazione del palazzo della Ragione, attuata da Giovanni degli Eremitani, ideatore della grande copertura a carena di nave. L'innalzamento dei muri perimetrali comportò una dilatazione del nucleo mediante l'inserimento di un loggiato, sia sul lato nord sia su quello sud; grazie alla libera e immediata circolazione da una piazza all'altra, dove si affacciano gli edifici pubblici di rilievo - il palazzo del Podestà (1281), quello degli Anziani (1285 ca.) e il palazzo del Consiglio (1285 ca.; Zuliani, 1977, pp. 11-12) -, le logge del Salone, quali elementi di passaggio, costituiscono una soluzione urbanistica di spazi aperti, con vie di scorrimento continue e con un unico polo agglutinante, il Salone stesso.Nella prima metà del sec. 14°, dopo lotte intestine e guerre con i vicini, P. cadde in un primo momento (1328) in mano agli Scaligeri, mentre solo a partire dal 1337 venne assoggettata al governo dei Carraresi, che detennero il potere sino all'avvento della Serenissima (1405). Con i Carraresi si attuò il passaggio da comune a signoria: si devono a Ubertino da Carrara il completamento del circuito delle mura cittadine, nonché l'erezione della Reggia, in un luogo posto nei pressi del centro del potere, un tempo comunale, delimitato a S dalla cattedrale, a N dalla chiesa di S. Nicolò e a E da Strà maggiore (od. via Dante). Il palazzo, con funzione di residenza, si accostava, per il loggiato, alla struttura dominante l'intera città, pur non riproponendo più quella ariosa circolazione spaziale offerta dai principali monumenti pubblici: le mura infatti chiudevano e isolavano esternamente l'edificio, ma proprio quelle stesse mura erano anche 'vettore' tramite cui il signore poteva comodamente accedere, senza attraversare la città, all'esterno del contesto urbano. Un corridoio pensile su ventotto arcate (m 3,04-186,20) metteva in diretta comunicazione la Reggia carrarese con le mura interne della città, a O dell'edificio, collegandola al nucleo fortificato sudoccidentale di P., ovvero al castello.Architettura e scultura.- Sono assai rarefatte le tracce di strutture architettoniche altomedievali in P., giacché le invasioni ungariche e alcuni eventi naturali catastrofici hanno pesantemente contribuito alla distruzione delle più preziose testimonianze monumentali dell'epoca, soprattutto di carattere religioso.Il sito in cui sorge l'od. basilica rinascimentale di S. Giustina è quello prossimo al teatro romano e collegato con le principali strade che raggiungevano P. da S; secondo la tradizione in questo luogo fu sepolto il corpo della santa martire Giustina (sec. 3°-4°) e intorno alla tomba sarebbe sorta una cella memoriae per celebrarne il ricordo e favorirne il culto. Sull'esistenza di un manufatto architettonico del sec. 4° non rimane alcuna testimonianza certa: dati più concreti si annoverano invece in una fase posteriore, degli inizi del 6° secolo.Alcune ipotesi (Bresciani Alvarez, 1970; Micheletto, 1980) avanzate sulla tipologia planimetrica della basilica paleocristiana propendono per una costruzione absidata a tre navate su colonne, collegata a S-E con il sacello di S. Prosdocimo, mentre in corrispondenza della testata della navatella meridionale un ambulacro avrebbe consentito il transito dalla basilica a un edificio a pianta circolare, probabile mausoleo di Opilione (Pepi, 1966), fondatore del complesso. Intorno al 573 Venanzio Fortunato (Vita s. Martini) ricordava la basilica di S. Giustina decorata con storie della Vita di s. Martino; nel sec. 12° la Leggenda di s. Daniele esaltava la decorazione della chiesa, che appariva "marmoreis suffulta columpnis et ex magna parte marmoreis tabulis ornata et deaurata celestium interius syderum radiabat ad instar" (Dondi Dall'Orologio, 1807, p. 50). Scarse sono le testimonianze rimaste di quell'antico splendore: pochi frammenti musivi di tradizione romana e resti di plutei a motivi zoomorfi e tralci vitinei.Al periodo paleocristiano appartiene la chiesa abbaziale di S. Pietro in Palazzo, anche se di essa non sono stati rinvenuti elementi architettonici o epigrafici in loco; origini molto antiche vantava la chiesa di S. Eufemia, del sec. 6° (Bellinati, 1975a), posta al margine della città, sulla strada per Altino-Aquileia. Meglio documentata è la chiesa di S. Martino, nota a partire dal 1048 ed eretta nel sito di una più antica domus ecclesiae del sec. 4°-5° (Bosio, 1981), di cui si è recuperata parte della pavimentazione musiva con iscrizioni dedicatorio-votive. La prima testimonianza sulla diffusione del culto di s. Martino in città risale al sec. 6° e l'ipotesi che la chiesa abbia assunto tale dedicazione nella sua ricostruzione altomedievale, e probabilmente nel sec. 8°, non è poi così azzardata. In un documento dell'8 febbraio 855 il vescovo Rorigo ottiene da Ludovico II imperatore la conferma dei privilegi riconosciuti ai suoi predecessori, tra i quali si ricordano Tricidio, di cui è conservata nella cattedrale l'iscrizione funeraria, e Domenico, presente al sinodo di Mantova dell'827. Nel diploma Rorigo si definisce vescovo "ex ecclesie sancte Iustine patavensis", e cioè di una chiesa dedicata a s. Giustina che in quel momento non esisteva più (Bellinati, 1975a); certamente non si trattava della basilica paleocristiana posta extra moenia, ancora esistente nell'855, bensì di una prima e antichissima chiesa urbana episcopale, intitolata alla stessa santa. A partire dalla seconda metà del sec. 9°, la chiesa cattedrale è ricordata con un titolo doppio, S. Maria e S. Giustina (Codice diplomatico padovano, 1877, docc. 18, 31, 36, 48, pp. 34-35, 48-49, 56, 72-73): l'accostamento della Vergine a una santa locale, quale era Giustina, deve essere riferito ad altri casi consimili di chiese paleocristiane, ove l'esistenza di una duplice dedicazione rispecchia sovente la presenza di una basilica doppia. Vi è infatti la possibilità che in epoca paleocristiana la basilica-cattedrale di P. fosse costituita da due fabbriche, separate tra loro dal battistero: la prima e maggiore sarebbe sorta a N dell'od. duomo e dedicata a s. Giustina; la seconda a S, dedicata a Maria e con funzione di aula per la celebrazione dei riti eucaristici (Bellinati, 1975a). Il più antico documento che attesta la presenza nell'area oggi occupata dalla cattedrale di una ecclesia maior intramuranea è rappresentato dalla citata iscrizione funeraria del vescovo Tricidio, degli inizi del sec. 9° (Barzon, 1955); insieme all'iscrizione altre testimonianze cristiane sono state rinvenute nella medesima area: si tratta di un frammento di lastra d'altare, del sec. 6°, con timpano triangolare su colonnine con due uccelli affrontati ai lati di una croce, e di un frammento di iconostasi, databile al sec. 8°-9°, con motivo a cani ricorrenti (Padova, Mus. Diocesano di Arte Sacra). Non rimangono ulteriori tracce della fondazione paleocristiana della cattedrale: dopo i danni a essa arrecati dagli Ungari, che causarono la distruzione del palazzo vescovile e di notevolissime pergamene conservate nell'archivio capitolare, si intraprese il restauro dell'edificio, perfettamente sistemato nel 964 (Bresciani Alvarez, 1970, p. 80). Tra il governo di Gauslino e quello di Watolfo (968-1064) fu invece operata una radicale trasformazione del complesso episcopale, con la fortificazione della chiesa, inserita in un vero e proprio castrum, ancora esistente nel 1031; al vescovo Olderico si deve invece la sistemazione romanica del 1075, anno della consacrazione della nuova cattedrale. Questa, insieme alla basilica di S. Giustina e ad altri edifici di pregio, scomparve nel terremoto del 1117.L'opera di ricostruzione del duomo ebbe inizio subito dopo il sisma, nel luogo ove si trova l'od. fabbrica cinquecentesca: dopo soli sette anni era già ultimato e perfettamente agibile nel 1125. L'impianto della cattedrale romanica doveva presentarsi a croce latina, con naós suddiviso in tre navate, transetto sporgente, presbiterio sopraelevato e cripta. Tre portali davano accesso all'interno della chiesa, uno principale a O, altri due a S e a N. Si ignorano del tutto le tipologie precise del coro e delle cappelle absidali, anche se è ipotizzabile un'abside maggiore ad andamento semicircolare, affiancata da due cappelle. Il battistero, dedicato a s. Giovanni Battista, era originariamente isolato rispetto al nucleo della cattedrale: sulla base di un'iscrizione sull'architrave del portale d'ingresso al battistero, recante la data 1281, si può con certezza ritenere che tutto il manufatto attuale appartenga alla fine del sec. 13° e a quella fase direttamente connessa con l'edizione due-trecentesca della basilica di S. Antonio (Lorenzoni, 1989; 1990).Scomparsa nel sisma del 1117, la basilica paleocristiana di S. Giustina venne immediatamente riedificata, utilizzando parti consistenti delle murature superstiti e gran parte del materiale del vicino teatro romano, lo Zairo. La fabbrica romanica si ricostruì probabilmente sulle precedenti fondazioni, ricalcando il più antico orientamento e affiancandosi al sacello di S. Prosdocimo, poco danneggiato. Nel fondo del c.d. pozzo dei martiri sono state rinvenute tracce pavimentali musive con decorazioni geometriche, risalenti alla fase paleocristiana (sec. 6°). Il brano mosaicato doveva far parte della decorazione pavimentale del precedente naós, in corrispondenza dell'od. coro vecchio. È probabile che lo schema icnografico della chiesa romanica insistesse su quello antecedente, con navate concluse da un presbiterio il cui spazio era vincolato dalla presenza dell'attiguo sacello di S. Prosdocimo, mantenendo all'incirca una profondità corrispondente all'altezza della prima crociera del coro vecchio. Dell'edificio romanico si conservano testimonianze di carattere prevalentemente scultoreo: i pezzi di maggior valore sono i frammenti dell'imponente portale maggiore (altezza m 6 ca.), il cui livello qualitativo è veramente notevole. I pochi pezzi rimasti si trovano in vari luoghi del complesso abbaziale e la loro ricomposizione è stata condotta in via del tutto ipotetica, data la perdita di molti dettagli in occasione della ricostruzione cinquecentesca. Il portale consta di porzioni di pilastrini, ghiere e piedritti; una lunetta rappresenta il pezzo forse più suggestivo di tutto il ciclo. Il tema raffigurato, del tutto privo di confronti (Zuliani, 1980), mostra una certa peculiarità nella raffigurazione della Chiesa che dispensa il vino eucaristico ai fedeli. La personificazione della Chiesa figura in alcune miniature benedettine contenute negli Exultet realizzati in Italia meridionale tra il sec. 11° e il 12°, ma in questi casi la Mater Ecclesia, fiancheggiata dal clero e dal popolo, non propone l'iconografia dell'esempio padovano, in cui i due fedeli inginocchiati ricevono le patere di vino. Più diffuso è invece il ciclo della Natività, che nel portale padovano si trova allogato sull'architrave, accompagnato da un'iscrizione in versi leonini. Nei pilastri sostenenti l'architrave talune raffigurazioni in nicchie sovrastate da un baldacchino architettonico rinviano a moduli francesi, per es. al portale centrale della facciata occidentale di Saint-Denis a Parigi. Altri brani scultorei concernenti il ciclo dei Mesi, con inserimento di animali fantastici e non, offuscano e rendono più difficilmente leggibile il resto del programma iconografico del portale. La più recente interpretazione dell'opera (Zuliani, 1980) tende a riferire l'esecuzione a un maestro di probabile origine francese, formatosi su esempi quali Mantes e Châlons-sur-Marne, che avrebbe lavorato nella basilica in un periodo compreso tra gli ultimi quindici anni del sec. 12° e, al più tardi, i primi del Duecento. Anche della fase gotica si conservano scarse testimonianze architettoniche: ancora esistente è la cappella del sec. 14° dedicata a s. Luca, patrocinata da Gualpertino Mussato, abate dal 1300 al 1337. Il piccolo vano, esternamente scandito da lesene concluse in alto da un coronamento ad archetti ciechi, è coperto da una volta a crociera costolonata in corrispondenza dell'aula, mentre nell'abside poligonale la volta è a ombrello.In età romana, una zona a carattere residenziale, altamente popolata per la sua posizione lungo una delle principali vie di accesso alla città (all'incrocio tra l'Annia e l'Altinate), al limite del pomerium, era quella nelle vicinanze dell'od. chiesa di S. Sofia, a E dell'antica cittadella urbana. Alcuni scavi condotti negli anni Cinquanta (Franco, 1957) al di sotto dell'abside di S. Sofia hanno messo in luce resti di muri romani (inizi sec. 1°-fine 2°), riferibili a un edificio di probabile carattere pubblico (Zanovello, 1982). Sulla continuità di frequentazione di un edificio situato in un'area precedentemente interessata da una grande domus romana vi sono state differenti ipotesi, tra le quali si ricorda quella di un successivo tempietto dedicato alla dea veneta Reitia (Bassignano, 1981), in seguito divenuto luogo di culto mitraico (Gasparotto, 1961b), soppiantato in epoca altomedievale dal culto della martire Sofia. Un documento datato 1123 (Codice diplomatico padovano, 1879-1881, I, doc. 134, pp. 109-110) è punto di partenza fondamentale per una prima lettura delle poco chiare vicende storico-artistiche dell'od. chiesa. Da tale fonte risulta che verso il 1106-1107 S. Sofia versava in un penoso degrado e che era stata iniziata in fabbrica di nuova mole, ma interrotta per mancanza di fondi. Pertanto, un primo problema viene posto da questo documento, che con molta chiarezza menziona una costruzione che doveva essere eretta nuovamente, riferendosi a una chiesa anteriore, parzialmente ricostruita e poi abbandonata. Di questa più antica edizione di S. Sofia non rimangono tracce, anche se in via del tutto ipotetica la tipologia della cripta attuale, interpretata come resti di un probabile edificio precedente (Lorenzoni, 1982), rimanderebbe a costruzioni a pianta a croce con bracci del transetto absidati, come il S. Salvatore di Brescia e la demolita chiesa di S. Caterina di Pola, pur con rapporti spaziali differenti. La cripta della chiesa è forse la parte che rivela i dettagli più interessanti, in quanto nella tessitura muraria della sua struttura di base sono state riconosciute tecniche del tutto affini a quelle impiegate nell'edizione contariniana (post 1063) della basilica di S. Marco a Venezia (Zuliani, 1975a) e per questo la cripta padovana va datata successivamente al 1063. L'ipotetica interpretazione di Dorigo (1983) sull'antica S. Marco, trasformata in cripta del nuovo edificio contariniano, consente di proporre anche per la preesistente S. Sofia una simile destinazione, ossia che sia stata trasformata nella cripta della chiesa eretta dopo il 1063. L'alterazione della precedente struttura iniziò con l'articolazione in nicchie che per le loro dimensioni si debbono ritenere appartenenti a una fabbrica piuttosto ribassata, proprio come una cripta. Interessante sarebbe conoscere in quale parte dell'od. chiesa è possibile individuare la nuova mole richiesta nel 1123: la chiesa che oggi si vede non è realizzazione unitaria, bensì risultato di molteplici sconnessioni e incoerenze, spiegabili solo con un progetto di base, poi abbandonato per realizzare altre soluzioni formali (Lorenzoni, 1982), poco adattabili al già esistente. Esternamente, la facciata a salienti propone la scansione interna in tre navate. La zona centrale si suddivide in due parti, tramite una cornice aggettante, al di sotto della quale un'ampia arcata - fiancheggiata da due nicchie dalla caratteristica tecnica muraria a spina di pesce nel semicatino - sormonta il portale maggiore. Un timpano, con cornice ad archetti a sesto pieno, chiude la zona superiore, contraddistinta da due semicolonne in cotto; le ali laterali sono ornate da tre arcate cieche con arco a doppia risega. L'abside consta di più ordini: il primo è formato da archeggiature a doppia risega, cadenzate da semicolonne con capitelli rozzamente decorati; una cornice divide quest'ordine da quello successivo, che presenta un andamento ritmato da coppie di nicchie a doppia ghiera, intervallate da una più bassa arcata. Il terzo livello è caratterizzato invece da una galleria praticabile con archi profondi e a quadruplice risega, sorretti da semipilastri in cotto. Le tre navate sono suddivise da una coppia di colonne e da pilastri ripresi nel presbiterio, concluso spazialmente nel giro interno dell'abside da colonne e pilastri. Alcune delle più evidenti sconnessioni presenti nella chiesa di S. Sofia si riferiscono ai due nuclei spaziali del naós e dell'abside fuori asse e alla stessa abside interna che confluisce in maniera atipica nel grande giro absidale: tali incongruenze sono sufficienti per ritenere che nel 1123 solo parte dell'edificio preesisteva e più precisamente il giro absidale; per accelerare i tempi, si decise di utilizzare ciò che era già in situ, connettendolo con la parte nuova. Quanto già in essere era appunto la mole del giro absidale, giacché se quest'ultima, l'abside interna e il naós fossero coevi si sarebbero trovate soluzioni più coerenti di quelle poi adottate (Lorenzoni, 1982). La fase del 1123 si concluse entro il 1170; successivi lavori risalgono all'incirca al 1296, con l'erezione del campanile che poggia sulla struttura meridionale; un secolo dopo, la nuova copertura, a volte a crociera costolonata, nascose nel sottotetto le capriate lignee e assieme la decorazione alta del naós e dell'arco di trionfo.Il Duecento padovano si apre con due importantissimi interventi architettonici di carattere religioso, che vedono la fondazione di due delle più prestigiose chiese della città da parte dei Francescani e dei Domenicani.La basilica di S. Antonio, detta comunemente il Santo, nacque come 'mausoleo' per la tomba del santo eponimo. Si tratta di una chiesa a tre navate, con doppio transetto, ampio deambulatorio a cappelle radiali. La caratteristica che ne fa un edificio estraneo alla tipologia tradizionale è data dal sistema di copertura a cupole su navata centrale, primo transetto, presbiterio e coro, mentre le navate laterali hanno volte a crociera costolonata. La facciata presenta ai lati del portale quattro arcature strombate, due per parte; due ballatoi si estendono per tutta la larghezza della fronte al di sopra delle arcature e della nicchia centrale. All'altezza del secondo ballatoio si imposta il fastigio a capanna con archetti pensili e lesene, al centro del quale campeggia un rosone affiancato da bifore. La navata centrale, il primo transetto e il coro sono voltati da cupole a doppia calotta; la terza cupola dell'asse centrale è coperta, esternamente, da un tronco di cono con lanterna. Alla quinta cupola esterna dell'asse centrale corrisponde, internamente, la calotta absidale. A O della prima cupola, in corrispondenza dell'apice della facciata, si innesta una guglia circolare con cappuccio conico; un'altra è posta tra la seconda e la terza cupola dell'asse centrale. Ai lati della cupola del presbiterio si ergono due campanili, con basi di struttura diversa da quella dei campanili stessi. Le navatelle e il deambulatorio sono coperti da tetti a spiovente, interrotti, quelli delle navatelle, da muri di spalla in corrispondenza dei grandi pilastri sorreggenti le cupole. L'interno è diviso in navate da grossi pilastri formanti la campata coperta da cupola e da pilastri intermedi che con i primi sostengono le volte a crociera delle navatelle. Il braccio nord del transetto è occupato dalla cappella dell'Arca del santo, a E della quale si apre la cappella della Madonna Mora, che si trova all'incirca nell'area di S. Maria Mater Domini, la primitiva chiesetta francescana, ove era stato sepolto il corpo di s. Antonio nel 1231. A N di essa, nella seconda metà del Trecento, venne eretta la cappella Conti, dedicata ai ss. Filippo e Giacomo Minore, più comunemente detta del beato Luca Belludi. Risale al 1372 la costruzione della cappella di S. Giacomo, poi detta di S. Felice (braccio sud del transetto), realizzata da Andriolo de Santi (v.). Intorno al presbiterio corre il deambulatorio a nove cappelle radiali, la centrale delle quali è stata abbattuta alla fine del sec. 17° per la costruzione della cappella del Tesoro.Il momento esatto dell'inizio della costruzione della grande basilica non è noto, ma nel 1238 un cantiere è documentato e certamente era stato aperto non molti anni prima. Da un atto di compravendita del 1258 (Padova, Arch. di Stato, Corporazioni soppresse, Ss. Agata e Cecilia, b. 3, c. 70r) si viene a sapere che la chiesa è definita nova, ma in seguito le fonti tacciono del tutto o quasi sulle vicende costruttive dell'edificio. Nella nova ecclesia però non era ancora avvenuta la traslazione del corpo del santo, evento verificatosi l'8 aprile 1263. La tomba venne eretta nella navata centrale, nel luogo corrispondente oggi alla zona sottostante alla terza cupola dell'asse centrale. La chiesa del 1263 dovrebbe corrispondere all'od. basilica dalla facciata sino al secondo transetto, con copertura provvisoria (forse lignea). I grandi pilastri che oggi sostengono le cupole presentano colonnine alveolate negli spigoli, che possono indicare la previsione originaria di un sistema di copertura a crociere le cui costolonature sarebbero dovute ricadere appunto su quelle colonnine (Puppi, 1975b, p. 182). La translatio del corpo venne accompagnata dall'inventio, che contribuì a un ulteriore sviluppo della fama e del culto del frate francescano; di qui l'opportunità per la sua chiesa di un nuovo progetto di ingrandimento e di una maggiore caratterizzazione glorificante (costruzione del sistema a cupole). Nel 1265 un contributo annuo di lire quattromila è devoluto dal Comune per il completamento dei lavori. Si può dunque presumere l'esistenza di un progetto degli anni 1263-1265, che prevedeva l'ampliamento della chiesa verso E con la costruzione di un grande tornacoro a cappelle radiali e un nuovo sistema di copertura. Nel 1290 la realizzazione del progetto del deambulatorio poteva essere già a buon punto, se grazie a un lascito testamentario si innalzava un altare (Padova, Arch. di Stato, Archivio diplomatico, b. 26, part. 3480). La costruzione delle cupole venne avviata nel sec. 14° (Lorenzoni, 1981), come avvalora lo spostamento effettuato nel 1310 della tomba per l'erezione della terza cupola.In tale giro di anni, dunque, si completò la fabbrica del Santo, conclusa entro il 1350, allorché si compì la terza traslazione dell'arca nel braccio sinistro della croce, ove si trova attualmente.Il sarcofago di Rolando da Piazzola (m. nel 1325 ca.), posto sul sagrato della basilica, apre la lunga rassegna di opere trecentesche presenti nel complesso francescano. In quanto a stile esso fa parte di un ristretto gruppo di tombe, caratterizzate dal riuso di lastre provenienti da sepolture paleocristiane e romane, rimodellate nel corso del 14° secolo. La scelta di lastre antiche da adattare alla propria tomba rimane un riferimento che manca del tutto nel contesto figurativo dell'abbastanza omogenea produzione locale e veneziana contemporanea (Wolters, 1984). Il sarcofago di un anonimo membro della famiglia Rogati Negri, nella cappella della Madonna Mora, si avvicina invece a un tipo più diffuso in ambito veneziano, il cui prototipo è riscontrabile nei monumenti funebri romani e costantinopolitani (Coche de la Ferté, 1960). Altre e numerose sono le tombe presenti al Santo, ma ben più semplificate nell'ornamentazione scultorea. Tali tombe (arca di Bonifacio dei Lupi, marchese di Soragna, e della famiglia Rossi) si trovano all'interno della cappella di S. Felice, ove Andriolo de Santi realizzò "V figure di Santi di V piedi l'una" (Wolters, 1984) per la facciata del sacello, di cui solo quelle di S. Martino e di S. Pietro sono attribuibili direttamente alla sua mano; del tutto incerte rimangono invece la destinazione originale e l'attribuzione dei quattro santi del coronamento, appartenenti alla medesima corrente stilistica dei Ss. Prosdocimo e Giustina all'esterno della basilica, verso N. A partire dal 1379 i documenti padovani menzionano sovente la presenza di un secondo scultore, impegnato nel proseguimento dei lavori per la cappella di S. Felice, che lo stesso Andriolo (m. nel 1350 ca.) aveva lasciato incompiuti. Rainaldino di Francia, intervenne infatti presso la basilica con la realizzazione delle figure dell'altare di S. Felice, della cappella della Madonna Mora (1396), di un S. Antonio, in origine sul portale maggiore.L'oratorio di S. Giorgio (1377 ca.), prospiciente il sagrato della basilica antoniana, presenta un'architettura essenziale, a unico vano coperto da volta a botte. Nel sacello si conserva solo parte dell'arca del suo committente, Raimondino dei Lupi di Soragna, di cui rimangono il sarcofago e due torsi con corazza.La chiesa domenicana di S. Agostino, demolita nel 1819, venne fondata nel 1226: la presenza dei Predicatori in città ebbe come primo riferimento architettonico un oratorio dedicato a s. Maria di Valverde, poi inglobato nel convento. S. Agostino, com'è stato recentemente riproposto da Merotto Ghedini (1995), ricalcava planimetricamente schemi connessi con la primitiva fase dell'architettura cistercense, a tre navate, con transetto poco aggettante, concluso da absidi piatte. La derivazione di simili influssi in area veneta vanta chiare origini lombarde, le cui citazioni, presenti nelle più significative fabbriche cistercensi, sono fin troppo evidenti. L'elemento di maggior rilievo che riconduce all'unità spaziale cistercense e rende la chiesa domenicana un vero unicum in ambito veneto, è la tendenza a procedere in linea retta, piuttosto che circolare, nella zona del coro: tale particolare conformazione della testata consente di definire S. Agostino 'chiesa mendicante precoce'. L'edificio, consacrato nel 1303, era il pantheon della nobiltà padovana e segno manifesto di tale prestigio erano le tombe delle più influenti famiglie della città, tra le quali si distinguevano le due arche monumentali di Ubertino e Jacopo da Carrara, oggi nella chiesa degli Eremitani.Le tombe erano poste in pendant, l'una frontalmente all'altra, nella cappella maggiore della chiesa: realizzate entrambe da Andriolo de Santi, si presentano secondo un modello del tutto analogo nell'impianto, con sarcofago pensile su mensole, sovrastato da un grande arco ogivale, decorato con rilievi. Singolare è il modellino della città di P. in pietra di Nanto, cinta dalle mura duecentesche, probabilmente collocato ai piedi del cataletto di Ubertino, ove è ben visibile una base all'incirca delle dimensioni della piccola scultura, supporto assente invece in quello di Jacopo.L'od. chiesa degli Eremitani di Padova appartiene anch'essa alla temperie architettonica duecentesca. Presenti in città fin dal secondo decennio del secolo, gli Eremiti di s. Agostino, officianti in un oratorio dedicato ai ss. Filippo e Giacomo, eressero nel 1257 una cappella maggiore: questo primo edificio, conclusosi nel 1264, fu ampliato con delibera comunale del 1276. Nel 1306 frate Giovanni degli Eremitani intervenne con la costruzione della copertura a carena di nave e con la pseudo-loggia in pietra a cinque archi in facciata e tre nell'angolo sud. L'attuale struttura della fabbrica risale pertanto al 1276: di forma allungatissima, essa è a navata unica, confluente a E in tre absidi, la maggiore pentagonale, le minori rettangolari. La facciata è scompartita da cinque lesene equidistanti; la centrale è interrotta dal rosone, affiancato da quattro oculi più piccoli.Nel 1305 gli Eremiti di s. Agostino si lamentarono con Enrico Scrovegni perché non si era tenuto ai patti nell'edificare il suo oratorio: invece di "aedificare unam parvam ecclesiam" (Padova, Arch. di Stato, Corporazioni soppresse, Eremitani, b. 63, cc. 305r-305v) egli aveva portato a termine in quell'anno una vera e propria chiesa con annessa torre campanaria. Il piccolo edificio, detto anche cappella dell'Arena e noto per il ciclo giottesco, è un'aula suddivisa in due zone da due altari separati da iconostasi. L'altar maggiore, oggi al centro dell'abside, sotto la volta a crociera, in origine era collocato sul lato est, tra le due porticine che comunicavano con la piccola sagrestia. La statua di Enrico Scrovegni, forse del 1314 (Bellinati, 1975b), è riferita da Wolters (1974) a un anonimo scultore veneziano, lo stesso che realizzò il monumento sepolcrale del committente. La Madonna con il Bambino e gli angeli cerofori appartengono invece a Giovanni Pisano (v.).Con impianto del tutto simile alla chiesa degli Eremitani venne eretta, a partire dal primo decennio del sec. 14°, S. Maria del Carmine. Dell'edizione trecentesca poco si conosce, in quanto nel 1491 l'edificio soccombette quasi interamente a un crollo spaventoso, da cui uscì indenne l'abside pentagonale con lesene aggettanti e lunghe monofore. A navata unica, così com'è ora, era coperta da un ampio tetto, caratteristica pure della struttura attuale. Data l'imponenza del tetto, non si esclude che esso fosse a carena, sul tipo della chiesa degli Eremitani. Il verbale redatto nel 1491 (Padova, Arch. di Stato, Atti del Consiglio, VII, 1486-1491, b. 10, c. 58r) informa che nell'edificio trecentesco vi erano almeno sei cappelle e un portico-atrio con arcate a tutto sesto, forse sul modello della pseudo-loggia di frate Giovanni.Il preesistente modello degli Eremitani, chiaro esempio di chiesa da predicazione, fu ripreso anche in S. Maria dei Servi, fondata, nella seconda metà del Trecento, lungo uno degli assi principali della città (od. via Roma). Ad aula unica, essa ha il prospetto posto a N, ornato con archetti pensili e lesene, tra le quali si innesta il portale a sesto pieno con cornice a motivi rinascimentali, in pietra di Nanto. Tra le lesene un rosone è sormontato da un piccolo oculo. Il rigore dell'aula si rispecchia nell'assoluta mancanza di articolazione degli spazi interni, privi di movimento laterale, dotati solo di una 'spinta' ideale che dirige verso l'abside poligonale, affiancata da due minori a fondo piatto, coperte tutte da crociere costolonate; la copertura del naós ripropone nella travatura a capriate schemi non certo desueti per l'architettura religiosa della città.Il primo impianto della chiesetta di S. Nicolò, presso l'omonima piazzetta, nota a partire dal 1088, scomparve probabilmente nell'incendio del 1174; della fase successiva, documentata nel 1289, rimane ben poco, a causa delle consistenti modifiche e dei restauri subìti nel corso dei secoli. La parte più antica è l'avancorpo a sinistra del portale, costituito dalla cappella trecentesca dei Forzatè, che emerge dalla facciata, raggiungendo il campanile, la cui cella conservava fino al 1846 due bifore sovrapposte. L'ipotesi avanzata (Zuliani, 1975b) sulla prima struttura duecentesca è quella di un edificio a navata unica, con transetto e tetto a capriate, a cui nel Trecento furono addossate le cappelline laterali: tale impianto subì pesanti alterazioni nel corso del sec. 15°, con la realizzazione di tre navate e la sostituzione del tetto ligneo con volte a crociera costolonata.
La produzione pittorica a P. nel sec. 13°, per quel poco che si conserva, non mostra caratteri di rilievo nella storia della cultura iconografica, riflettendo un gusto legato alla produzione pittorica dell'ambiente veneziano: è questo il caso dei frammenti di un'Annunciazione conservata tra le capriate del tetto e le volte trecentesche della navata nella chiesa di S. Sofia. L'artista chiamato per tale decorazione murale rivela nello stile forti connessioni con la corrente marciana di gusto più tradizionalista e arcaico (Cozzi, 1982) dei primi anni del sec. 13°, dal cui contesto assorbì però singoli caratteri figurativi: il richiamo alla tecnica musiva veneziana è presente anche nell'Eleúsa visibile in una nicchia dell'emiciclo absidale della stessa chiesa, risalente alla seconda metà del 13° secolo.Nella chiesa di S. Benedetto si conservano resti di affreschi dell'ultimo quarto del Duecento che, come già i frammenti di S. Sofia, mostrano quanto la componente marciana si fosse ben radicata in terraferma, nella pittura padovana pregiottesca. Tuttavia, per quanto forte, altre voci interessanti non mancarono di stimolare, sulla fine del secolo, l'ambiente pittorico della città, come rivelano i frammenti della chiesetta di S. Massimo, ove le figure frontali delle due sante 'aderiscono' a un contesto meno aulico e più popolare, diretto a palesare una religiosità immediata (Flores d'Arcais, 1986). Il Trecento padovano si apre con la presenza di Giotto (v.), che rivoluzionò il linguaggio figurativo della tradizione locale: la decorazione della cappella di Enrico Scrovegni, realizzata tra il 1303 e il 1305, è uno dei testi fondamentali di tutta la pittura trecentesca, nonché uno dei cicli meglio conservati.Le fonti antiche ricordano un intervento di Giotto al Santo, nel sottarco del sacello degli Scrovegni (prima cappella del deambulatorio, lato sud); nella sala capitolare antoniana alcuni lacerti di un ciclo ad affresco sono legati alla presenza del pittore fiorentino, ma solo in quanto opera di suoi stretti collaboratori (Flores d'Arcais, 1984; 1986). Del vasto ciclo astrologico che Giotto eseguì per la sala della Ragione, dopo l'intervento alla cappella degli Scrovegni (Flores d'Arcais, 1986), non resta traccia alcuna. La lunga presenza del maestro in terra veneta divenne, per almeno un paio di decenni, il riferimento principale per la pittura del Trecento a P. e nei dintorni: le testimonianze più vicine al linguaggio giottesco si ritrovano in alcuni frammenti (Padova, Mus. Antoniano) provenienti dal Santo e dall'attiguo chiostro della Magnolia e molti altri si conservano presso la chiesa e il convento degli Eremitani. Nel coro della cappella degli Scrovegni, verso il 1320, venne portato a termine un ciclo ad affresco con episodi della Vita di Maria post mortem Christi, ove l'artista, di ascendenza giottesca, rivela però un tono più distaccato nella rappresentazione di architetture arcaizzanti e nei colori opachi, privi dei raffinati trapassi chiaroscurali del maestro.Il più alto episodio figurativo della cultura giottesca a P. è dato dalla presenza di Pietro e Giuliano da Rimini, che nel 1324 sono attestati alla cappella degli Scrovegni per eseguire un polittico oggi perduto: di questi due artisti sono anche talune raffigurazioni della Vita di Cristo, provenienti da una cappella del convento degli Eremitani (Padova, Mus. Civ.). Con l'avvento della signoria carrarese il ductus lineare e raffinato della pittura dei primi giotteschi venne ad assumere caratteri più ricercati, ispirati soprattutto dalla vita delle corti: aggiornato su moduli vistosamente più gotici, tale linguaggio è caratterizzato da una variazione di tematiche, che portò allo sviluppo di un'iconografia laica e profana, a cui gli artisti stessi attesero per la decorazione di chiese, ma anche di regge e palazzi.Proprio nell'ambito della corte dei Carraresi fiorì l'arte di Guariento di Arpo (v.), noto a partire dal 1338. Anche se è giunto lacunoso, di sua mano è l'affresco già in S. Agostino, oggi nella chiesa degli Eremitani, raffigurante l'Incoronazione della Vergine con offerenti. Il ciclo di S. Agostino venne realizzato tra il 1351 e il 1352 (Flores d'Arcais, 19742, p. 66), probabilmente su committenza di Jacopo da Carrara (m. nel 1350), rappresentato insieme a Ubertino e a Jacopino, del quale rimane solo la testa (Innsbruck, Tiroler Landesmus. Ferdinandeum; Merotto Ghedini, 1995, pp. 84-85). Dello stesso momento è la decorazione della cappella della Reggia carrarese; dopo il capolavoro della Reggia, verso gli anni settanta del Trecento, l'artista attese alla monumentale decorazione del presbiterio e dell'abside agli Eremitani, con un Paradiso nel catino e Storie dei ss. Filippo, Giacomo e Agostino sulle pareti. Tra gli esecutori di questo vasto ciclo appare quale aiuto di Guariento il veneziano Nicoletto Semitecolo (v.), a cui si deve la grande croce dell'abside (Flores d'Arcais, 1986).Altichiero (v.) e Jacopo Avanzi (v.) portarono a termine nel 1379 la decorazione della cappella di S. Felice al Santo; tra il 1379 e il 1384 Altichiero intervenne anche nel vicino oratorio di S. Giorgio. Il linguaggio più immediato e diretto di Altichiero informò la pittura padovana del tardo Trecento, interessata da un'attenzione per le soluzioni architettoniche articolate e per le esperienze quotidiane della vita: in tal senso l'evoluzione pittorica portò a esiti di grande valore, per le continue e incalzanti innovazioni sul piano della spazialità e della narratività realistica (Flores d'Arcais, 1986). Una posizione quasi isolata rispetto ai suoi contemporanei è quella del fiorentino Giusto de' Menabuoi (v.), attivo in città negli stessi anni di Altichiero. Documentato nella decorazione della cappella di Tebaldo Cortelliero (m. nel 1370), e in quella di Enrico Spisser agli Eremitani, Giusto predilesse la pittura fiorentina dei primi giotteschi, più arcaizzante, più attenta agli studi prospettici e spaziali. Superba rimane la prova presso il battistero della cattedrale, del 1375-1377, commissionatagli da Fina di Pataro Buzzaccarini, moglie di Francesco I da Carrara, il Vecchio. Dopo l'esperienza del battistero, Giusto passò a decorare al Santo la cappella del beato Luca Belludi. Databile al 1382, l'affresco, con Storie dei ss. Filippo e Giacomo, costituisce l'ultima testimonianza rimasta del pittore fiorentino.Sul finire del secolo furono attivi in città altri artisti meno noti, sovente ricordati dalle fonti. Il trittico con la Crocifissione e due santi nella chiesa di S. Nicolò appartiene al momento di maggiore vivacità pittorica degli ultimi decenni del Trecento, insieme ai resti della decorazione (1397) nella cappella di S. Maria, già nella chiesa di S. Michele, opera di Jacopo da Verona, epigono della tradizione altichieresca.
Bibl.:
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La miniatura medievale a P. si apre con l'evangeliario della cattedrale (Padova, Bibl. Capitolare, E 1) sottoscritto nel 1170, al tempo del vescovo Corrado, dal calligrafo Isidoro, con un colofone che potrebbe riferire a lui anche l'illustrazione, la quale interpreta il modello ottoniano con ruvida concretezza e con marcato linearismo, assimilabili a certe manifestazioni della pittura post-ottoniana locale (portale dei Ss. Felice e Fortunato a Vicenza; abside di S. Michele a Pozzoveggiani presso P.) e della miniatura protoromanica padana (Piacenza, Bibl. Capitolare, Codex magnus, 65). Una svolta della miniatura padovana in senso italiano appare successivamente attestata, verso la fine del sec. 12°, dai lezionari del monastero benedettino femminile di S. Agata (Padova, Bibl. del Seminario Vescovile, 541; 545), con iniziali che riflettono lo stile tardogeometrico toscano e figurazioni di chiara impronta protoromanica.Fatto di altissimo livello europeo è nel Duecento l'Epistolario della cattedrale (Padova, Bibl. Capitolare), sottoscritto nel 1259 da Giovanni da Gaibana, canonico e mansionarius-cantor. Esso appare miniato da un maestro di altissima classe e di cultura assai complessa, il cui punto di riferimento principale è manifestamente la tradizione bizantina, probabilmente vista soprattutto su episodi provinciali circolanti a Venezia e comunque interpretata con una serrata monumentalità tutta italiana e con un nerbo lineare di tenuta ormai gotica. Ben precise soluzioni figurative e decorative mostrano d'altronde di ricondurre a Venezia. Si sono notate infatti cadenze analoghe a quelle dei mosaici del braccio settentrionale dell'atrio di S. Marco e stretti rapporti a monte con un antifonario marciano (coll. privata) e a valle con la Bibbia gigante della basilica (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. I, 1-4), ormai di chiarissima impronta gotica alla francese.Una delle manifestazioni più precoci, e l'unica sicuramente localizzabile, del 'secondo stile bolognese', di impianto fortemente ellenizzante, è un salterio (Bologna, Bibl. Univ., 347) recante calendario padovano. Non si può escludere pertanto che le origini della 'maniera greca' alla bolognese siano situabili tra Venezia e P., in un ambiente tradizionalmente imbevuto di bizantinismo e in un clima stilistico evoluto sulla stessa linea già paleologa dell'ultima cupola del braccio settentrionale dell'atrio marciano con le Storie di Mosè. Decisamente di gusto gotico, ma con immissioni di tipo ellenizzante, nell'accezione che si usa ricondurre a Bologna, la Bibbia scritta a P. (New York, Pierp. Morgan Lib., M.436), presumibilmente prima del 1295 e dopo il 1287, per il canonico della cattedrale Nicolò da Monterano e miniata da due artisti diversi, uno bolognese e l'altro probabilmente identificabile con il miniatore del Graduale delle Benedettine di S. Pietro (Padova, Bibl. Capitolare, B 16), esemplato nel 1290, e della Bibbia gigante in due volumi (Padova, Bibl. del Seminario Vescovile, 542, I-II), scritta nel 1297 dalla monaca Agnese Scarabelli, del monastero benedettino di S. Agata.Con l'avvento del Trecento, la miniatura locale sembra essersi allineata con straordinaria prontezza sulla lezione di Giotto nella cappella degli Scrovegni. Ne è testimonianza la serie degli antifonari notturni della cattedrale (Padova, Bibl. Capitolare, A 14-16; B 14-16), esemplati da certo Gherarducio e, secondo un documento del Capitolo, almeno apparentemente già iniziati a miniare nel 1306. Il 'maestro di Gherarducio' risulta attivo altresì in manoscritti quali un Roman de Troie (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 2571) e una miscellanea in volgare (Firenze, Bibl. Riccardiana, 1538), che nella tematica stanno ad attestare il precoce gusto padovano per la memoria dell'Antico.Probabilmente in ragione di rapporti con il convento di S. Francesco di Bologna si spiega l'avvento di un franco e variopinto linguaggio gotico, alla bolognese e sulla linea di Vitale da Bologna e dello pseudo-Jacopino, nella serie dei quattordici antifonari del convento del Santo (Padova, S. Antonio, Bibl. Antoniana, A-D, F-H, K-M, O-Q, S), probabilmente eseguiti tra gli anni trenta e quaranta, e dopo non molto seguiti dalla serie dei graduali di mano di Niccolò di Giacomo e seguaci (Padova, S. Antonio, Bibl. Antoniana, II, V-IX, XI-XIV).La splendida Tebaide di Stazio (Dublino, Chester Beatty Lib., W.76), la cui attribuzione è sempre ruotata intorno al nome di Jacopo Avanzi, con localizzazione oscillante tra P. e Bologna, va con molta probabilità inserita nel contesto di una raffinata miniatura cortese, di impronta umanistica e di impianto giottesco fortemente aggiornato in senso gotico, da supporsi fiorita a P. già negli anni sessanta, con la progressiva affermazione della signoria di Francesco I da Carrara e con la frequentazione padovana di Francesco Petrarca, nella cui biblioteca era il superbo Virgilio con il commento di Servio, miniato da Simone Martini (Milano, Bibl. Ambrosiana, A.49 inf.).La biblioteca di Francesco I, nel 1388 recata dai Visconti a Pavia, donde nel 1499 fu portata a Parigi dai Francesi (oggi in gran parte alla Bibliothèque Nationale), sembra comunque avere acquisito sostanza soprattutto dopo il lascito dei libri di Francesco Petrarca nel 1374. L'esemplare di presentazione del De viris illustribus (Parigi, BN, lat. 6069F), dedicato a Francesco I e scritto nel 1379 da Lombardo della Seta, che aveva terminato l'opera dopo la morte del poeta, reca in testa due disegni - con il ritratto di Petrarca e con il Trionfo della gloria carrarese, raffigurata in cocchio e in atto di distribuire umanistici serti di lauro agli uomini illustri - quasi unanimemente attribuiti ad Altichiero o a un suo vicinissimo seguace.Tipico prodotto encomiastico è il Currus Carrariensis moraliter descriptus (Parigi, BN, lat. 6468), composto dal francescano Francesco Caronelli per Francesco I verso il 1378 e illustrato con una raffigurazione allegorica del carro carrarese.L'avvento di Francesco II nel 1390, dopo la breve dominazione viscontea, propone nel campo del libro un gusto dell'illustrazione fattosi spiegatamente narrativo, ancora sulla traccia della pittura di storia del primo periodo carrarese, un nuovo amore per la cronaca e la celebrazione dinastica, nuovi interessi per la scienza. Si collocano in quest'ambito la ben nota Bibbia istoriata padovana (Rovigo, Accad. dei Concordi, 212; Londra, BL, Add. Ms 15277) e la serie degli antifonari della collegiata di Monselice (Padova, Bibl. Capitolare, E 18; E 20; E 22). Più sottile, ma sempre condotta sulla lezione della pittura, è la Chronica de Carrariensibus (Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. X, 381), scritta negli anni novanta e arricchita di quattro bellissime grandi vignette. Alla biblioteca di Francesco II spettavano, com'è ben noto, il De principibus Carrariensibus et gestis eorum liber di Pietro Paolo Vergerio, con i ritratti in monocromo verde dei principi carraresi (Padova, Bibl. Civ., B.P. 158), e il Liber cimeriorum Carrariensium (Padova, Bibl. Civ., B.P. 124/XXII), ambedue forse tratti da cicli pittorici della Reggia.Significativi di un nuovo modo di intendere la scienza come disciplina sperimentale e quindi basata sull'osservazione diretta del reale sono il Liber Agregà di Serapiom (Londra, BL, Egert. 2020), comunemente conosciuto come Erbario carrarese e pure appartenuto alla biblioteca di Francesco II, e il Trattato di cauterizzazione e di flebotomia di Bartolomeo Squarcialupi (Padova, Bibl. Medica Pinali, Fanzago 2.I.5.28), con grandi figure anatomiche, verosimilmente uscito dall'ambiente universitario. Una Novella super sexto Decretalium (Padova, Bibl. Capitolare, A 5*), scritta nel 1396, conclude la storia della miniatura medievale a P., attestando l'esistenza di un'illustrazione giuridica padovana ormai allineata su quelle piccanti esperienze di fine secolo, aperte all'influsso francese e boemo, che appaiono perseguite a Bologna dal Maestro delle Iniziali di Bruxelles. Lo stesso maestro, con sugosa frenesia lineare, interpreta la pittura di storia padovana nelle micropitture dei Quattro Evangeli congregati in uno (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.C.18), composti nel 1399 da Jacopo Gradenigo alla corte carrarese.
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Il Mus. Civ. iniziò ufficialmente la sua 'vita' nel 1858, presso il palazzo Comunale. Tra il 1870 e il 1880 una più ampia sede fu allestita nel quarto chiostro del Santo: tale sede museale ha trasferito solo nel 1985 le raccolte nei chiostri dell'ex convento degli Eremitani.Tra le collezioni del Mus. Civ., la più rilevante è certamente la Pinacoteca, che consta di numerosissimi pezzi provenienti da istituzioni religiose e da donazioni, tra le quali si distingue la Croce dipinta di Giotto, già nella cappella degli Scrovegni. Coevi ai frammenti dell'affresco staccato (1324) di Pietro e Giuliano da Rimini sono gli affreschi provenienti da una delle cappelle dei chiostri del convento degli Eremitani, ulteriore documento della diffusione del giottismo padovano. Oltre al busto del Redentore di Guariento (Padova, Mus. Civ., Mus. Bottacin) si conservano gran parte delle tavole con le Gerarchie angeliche e una Madonna con il Bambino che il pittore realizzò per la Reggia carrarese. Al Maestro dell'Incoronazione si deve la Madonna con il Bambino (1330 ca.), i cui spunti si ritrovano nella più tarda Madonna con il Bambino di Lorenzo Veneziano (v.), datata 1361. In buono stato conservativo è il S. Cristoforo, del 1377, di Giovanni da Bologna (v.). Della cultura giottesca padovana di fine Trecento sono poi alcuni lacerti di affresco, già nella cappella di S. Maria, facenti parte delle Storie della Vergine di Jacopo da Verona.La raccolta lapidaria medievale consta di numerosi frammenti di iscrizioni, oltre a vere da pozzo, capitelli romanici e gotici, stemmi e tre arche carraresi ritrovate nel castello della città. I pezzi più antichi sono: i frammenti del sec. 9° della chiesa di S. Martino e i due plutei bizantini dei secc. 10° e 11° (Zuliani, 1971; Forlati Tamaro, 1981; Nicoletti, 1987), un tempo nella chiesa di Codevigo, nel territorio padovano. Appartengono alla seconda metà del Duecento i due pilastristipiti del portale della chiesa di S. Agostino: le figure di S. Domenico e di S. Agostino rientrano in quella corrente duecentesca in cui si mescolano modi arcaici, mediati da forme artistiche antelamiche (Merotto Ghedini, 1995). Del secolo seguente sono invece due frammenti di arche sepolcrali con la Vergine annunciata, l'una della bottega di Andriolo de Santi, l'altra più vicina ai modi di Rainaldino di Francia; la Madonna con il Bambino della prima metà del sec. 14° appartiene a quest'ultimo artista e rappresenta forse il pezzo più importante di tutta la raccolta trecentesca. Chiudono la rassegna scultorea i due grifi e i due leoni stilofori opera di Andriolo, in marmo bianco, reggenti la perduta arca di Fina di Pataro Buzzaccarini, già nel battistero della cattedrale.Ricca è la collezione di numismatica del Mus. Civ., Mus. Bottacin: numerosissimi sono i pezzi rari, con esemplari particolarmente significativi, quali la serie 'bizantina' e quella di monete padovane carraresi (sec. 14°), la più completa esistente al mondo (Parise, Saccocci, 1992). A questa si aggiunge la collezione di medaglie, con pezzi trecenteschi.Il Mus. Antoniano, recentemente riordinato, comprende brani scultorei e pittorici di rilievo, tra cui le quattro sculture realizzate da Rainaldino di Francia per l'altare della cappella di S. Felice, prime opere sicure di questo artista, che mostra qualche legame con la cultura campionese di fine sec. 14° (Lorenzoni, 1995, p. 17; Valenzano, 1995, p. 218). Forse è di un diretto collaboratore di Andriolo de Santi un'altra immagine di S. Antonio, della seconda metà del Trecento, che rivela stringenti punti di contatto con le raffigurazioni del coronamento e della facciata della cappella di S. Felice. Poco più numerosi sono invece i frammenti pittorici del museo, databili tra la prima e la seconda metà del sec. 14°: tre frammenti di Crocifissione appartengono al primo giottismo padovano e forse all'artista attivo nel coro della cappella degli Scrovegni (Lucco, 1981; Baggio, 1995); il S. Ludovico di Tolosa e la testa di S. Giovanni Battista, provenienti dalla cappella di S. Stefano (già di S. Ludovico) al Santo, sono stati recentemente riferiti alla mano di un pittore padovano di primo Trecento (Baggio, 1995, p. 87), come pure altri due lacerti, un S. Ludovico e un S. Antonio, di un artista strettamente legato ai modi dei maestri giotteschi della sala capitolare antoniana e del coro della cappella degli Scrovegni (Lucco, 1977). Appartiene al convento francescano una testa di santo, forse S. Antonio, opera anonima della seconda metà del Trecento; certa è invece l'attribuzione a Jacopo da Verona (Lucco, 1977; 1981; Baggio, 1995) di una Madonna con il Bambino, staccata nel 1900 da uno dei contrafforti della basilica.Nel Tesoro del Duomo si conservano un prezioso calamaio d'argento dorato e sbalzato e una formella in steatite con l'immagine di Cristo benedicente, entrambe opere bizantine, la prima della seconda metà del sec. 10° (Grassi, 1995), la seconda di poco successiva (Grossato, 1977, p. 139); ispirata a chiari moduli bizantini è la più tarda croce processionale del 1228 in lamina d'argento sbalzata e dorata. Nella sagrestia dei Canonici è conservato il gruppo di sette tavolette (1367) di Nicoletto Semitecolo, dai colori vivaci e preziosi, marcatamente venezianeggianti.
Bibl.: F. Zuliani, I marmi di San Marco, Venezia 1971; L. Grossato, Pitture, sculture e opere di oreficeria. Il Duecento e il Trecento, in Il duomo di Padova e il suo battistero, Sarmeola di Rubano-Trieste 1977, pp. 139-165; M. Lucco, ''Me pinxit'': schede per un catalogo del Museo Antoniano, Il Santo, n.s., 17, 1977, 1-2, pp. 243-281; L. Grossato, Il portale maggiore della basilica romanica, in I Benedettini a Padova e nel territorio padovano attraverso i secoli, cat., Treviso 1980, pp. 35-44; B. Forlati Tamaro, Padova da Costantino ai Longobardi, in Padova antica. Da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Trieste 1981, pp. 285-299; M. Lucco, Opere d'arte dal Convento Antoniano. Due parole a mo' d'introduzione, in S. Antonio 1231-1981. Il suo tempo, il suo culto e la sua città, a cura di G. Gorini, cat., Padova 1981, pp. 18-19; A. Nicoletti, Marmi medievali del museo agli Eremitani di Padova, Bollettino del Museo Civico di Padova 76, 1987, pp. 83-98; R. Parise, A. Saccocci, Museo Bottacin, in I Musei Civici agli Eremitani a Padova, Milano 1992, pp. 81-105; G. Grassi, Il calamaio argenteo nel tesoro del duomo di Padova, in Arte profana e arte sacra a Bisanzio, "Atti del Convegno internazionale di studi, Roma 1990" (Milion, 3), Roma 1995, pp. 653-671; G. Lorenzoni, Le sculture e le tarsie lignee, in Basilica del Santo. Dipinti, sculture, tarsie, disegni e modelli, Padova 1995, pp. 17-18; L. Baggio, ivi, pp. 85-89; G. Valenzano, Rainaldino di Pietro di Francia, ivi, pp. 217-221; M. Merotto Ghedini, La chiesa di Sant'Agostino in Padova, Padova 1995.M. Merotto Ghedini