PAESAGGIO
Il Vocabolario delle Arti del Disegno di F. Baldinucci (1681), definiva il p. nell'arte nel modo seguente: "Paesi, appresso i Pittori sono quella sorta di pitture, che rappresentano campagne aperte, con alberi, fiumi, ponti e piani ed altre cose da campagna e villaggio". La rappresentazione del p. appare dunque sùbito essenzialmente pittorica. Essa, inoltre, non è presente in qualsivoglia momento entro il ciclo di una qualsivoglia civiltà artistica; la sua presenza o assenza appare legata a determinati momenti, cioè al sussistere o meno di certi presupposti culturali che orientano la produzione artistica. Elementi paesistici (alberi, edifici, accanto ad animali oppure a figure umane) si trovano raffigurati con mezzi lineari (disegno) anche nelle civiltà artistiche primitive. Una tale raffigurazione ha sempre un carattere meramente indicativo di un ambiente e acquista talora un valore simbolico. Altra cosa è quando il p. come tale viene rappresentato per l'interesse estetico ed emotivo suscitato dai valori formali ed espressivi che sono suoi proprî: prima di tutto la spazialità, poi il colore ed anche la varietà degli aspetti, che suggeriscono facilmente stati d'animo diversi, dall'idillico all'orrido. Soltanto a questo punto il p. acquista piena autonomia, valore e vita, proprî di una categoria dell'arte. Sono dunque due istanze diverse, da tenere distinte: una, la rappresentazione di elementi paesistici come complemento descrittivo di un ambiente; l'altra la rappresentazione del p. come precipuo elemento costitutivo, sia concettuale che formale, dell'espressione artistica, sia che ci si valga o meno del complemento di figure umane o di animali, che restano subordinate al p. anche se servono a caratterizzarlo. È chiaro che soltanto in questo secondo caso la rappresentazione paesistica assume l'autonomia artistica di una particolare categoria di "pittura di paesaggio". Nella scultura, il p. non trova espressione se non attraverso la mediazione della pittura; il suo apparire nel rilievo è condizionato dal suo diffondersi, precedentemente, in pittura e si ferma, più spesso, alla forma di p. complementare. (Il bassissimo rilievo egiziano rientra nella forma disegnativa e pittorica). Nella scultura a tutto tondo il p. non entra con valore estetico; vi entra solo in casi di rappresentazioni il cui fine è essenzialmente narrativo o dimostrativo (si pensi al caso dei moderni plastici architettonici, dei presepî, o simili).
Generalmente gli studiosi sono d'accordo nel riconoscere che nell'arte dell'antichità il p. si manifesta assai tardi, sia in pittura che in scultura; ma è tuttora aperta la discussione se il p. assoluto sia realizzazione dell'arte ellenistica o dell'arte di età romana. Nel presente articolo si passano in rassegna alcune delle rappresentazioni di p. più tipiche per le singole civiltà artistiche comprese nei limiti geografici e cronologici di questa Enciclopedia, con il fine di individuare il momento nel quale è avvenuto il passaggio dalla rappresentazione del p. come elemento accessorio a quello del p. come forma artistica autonoma e assoluta. Dati i limiti cronologici dell'opera, rimangono fuori da questa trattazione i momenti salienti della creazione di una pittura di p.: non solo quello che si è mosso dall'età del Rinascimento europeo, e poi in forma più assoluta nell'arte olandese e fiamminga del sec. XVII, ma anche il p. nell'arte dell'Estremo Oriente dove, nelle epoche comprese nella presente trattazione, si pongono solamente le premesse di quello straordinario sviluppo che, iniziato nell'VIII sec., raggiungerà perfette espressioni di forma e contenuto poetico nella civiltà cinese già nel X e XI sec. (dinastie T'ang e Sung) continuando su quelle premesse a svolgersi sino ai nostri tempi.
1. - Egitto. Elementi paesaggistici, cioè rami d'albero infissi sul fianco di una nave, insieme a cicogne ed a struzzi, decorano già talune ceramiche predinastiche di Naqādah (v.) che trovano echi precisi sulle pareti di una tomba di Kōm el-Aḥmar del IV millennio a. C., ultimo periodo predinastico di Gerzeh, o nei templi arcaici di Hierakonpolis. Si tratta di elementi singoli, sparsi sopra un fondo non oggettivato, frutto di una osservazione altrettanto viva di quella che testimoniano le incisioni rupestri preistoriche, ma altrettanto priva di coordinamento sintattico e di varianti. Già in queste prime manifestazioni, tuttavia, si affaccia vivace il gusto fabulistico, la osservazione e narrazione che condurranno l'arte egiziana nella V dinastia (2480-2350 a. C.) a composizioni come la scena di caccia del tempio a piramide del faraone Saḥurē, dove il terreno è indicato da linee ondulate sulle quali sorgono ciuffi di erba e piante fiorite di varia forma o come raffigurazioni di animali tra grandi piante acquatiche (v. mastaba, vol. iv, fig. 1105). A Saqqārah, del resto, nel primo tempio a piramide che Userkaf aveva eretto al margine del deserto occidentale, già precedentemente era stata composta una scena di frutteto, dai cui frammenti superstiti è possibile ricomporre alberi con rami pieni di uccelli, mentre numerosi altri uccelli aleggiano al di sopra, composizione che anticipa la pittura della tomba n. 3 di Benī Ḥasan con uccelli sull'acacia appartenente al Medio Regno (1991-1778 a. C.). In questa composizione può dirsi già raggiunta l'espressione definitiva della rappresentazione paesaggistica dell'arte egiziana, che si arricchirà solo di una più fresca e diretta osservazione naturalistica nella XVIII dinastia (1570-1318 a. C.) senza rinnovarsi nello schema strutturale. Le composizioni, allora, sono spesso complesse e, nel bassissimo rilievo colorato come nella pittura, si giunge, specialmente nelle tombe tebane di privati, a un tipo di rappresentazione del p. oltre il quale l'arte egiziana non è mai andata. Gli elementi del p. sono sempre visti analiticamente e con funzione di complemento narrativo come, sempre a Tebe, nelle scene di raccolta nella tomba di Menana (n. 69), nelle scene di caccia della tomba di Ineni (n. 81) ed in altre. Ma c'è anche qualche cosa che va oltre alla giustapposizione analitica ed alla descrizione: si realizza talora una vera e propria suggestione di ciò che forma l'essenza di un p.: la squallida solitudine di un terreno popolato da magre piante in mezzo al quale l'uomo si trova dinanzi a un animale selvaggio (Amenemheb e la iena, Tebe, tomba n. 85); il folto, chiuso e al tempo stesso aereo, di uno stagno fittamente coperto dagli steli diritti delle canne dei papiri e dei lotos, le canne con i loro piumacci mossi dal vento, i papiri che si incurvano qua e là ondeggiando sotto il peso di un nido o di un piccolo roditore, e in quel folto racchiuso, o l'ippopotamo che sorge improvviso con la testa fuori dalle acque (tomba n. 82) o il pescatore che scivola via sul filo della corrente con la sua barca piatta mentre in alto volano in cerchio gli uccelli. Tutte queste composizioni riprendono, ma con una intimità particolare, motivi iconografici già trovati fin dal tempo più antico (tomba di Tyi, metà della V dinastia). Si raggiunge qui l'espressione di un'intimità di sentimento della natura, cui piace abbandonarsi, quale, con mezzi espressivi diversi, soltanto la pittura cinese e poi quella fiamminga riusciranno ad esprimere prima che venisse di nuovo riscoperto nel mondo moderno dai Romantici e dagli Impressionisti.
Questa espressione di intimità sentimentale raggiunta con delicati mezzi dall'arte egiziana, non si troverà mai nelle composizioni celebrative delle civiltà mesopotamiche e rimarrà esclusa dal fondamentale razionalismo dell'arte greca arcaica e classica. Se gli accenni fuggevoli che ne ritroveremo nell'arte ellenistica possano o meno aver trovato un ambiente favorevole al loro sorgere proprio nell'Egitto alessandrino, è questione che implicherebbe troppo vaste discussioni, per poter essere qui affrontata.
Altre raffigurazioni egiziane, inscrivendo i singoli alberi ed arbusti di un giardino e le scene che vi si svolgono in una mappa rettangolare attorno ad una piscina centrale, come in una pianta topografica, non oltrepassano lo stadio descrittivo e complementare della raffigurazione paesistica (Tebe, tomba n. 100). Le scene di caccia, anche le più vivaci come quella di Tutankhamon, con i branchi di gazzelle e di onagri, di struzzi fuggenti dinanzi al carro del faraone, con episodî di animali feriti e afferrati dai cani, il tutto distribuito tra fogliami terrestri e infiorescenze in serie sovrapposte e abbastanza variate per riuscire a dare una apparenza di spazio aperto, restano pur sempre essenzialmente descrittive e non escono da una concezione lineare e paratattica della composizione. Tale rimane, in sostanza, anche la rappresentazione delle cacce di Ramesses III a Medīnet Habu (XX dinastia, 1200-1085 a. C.) dove l'effetto d'insieme è distrutto dal variare delle proporzioni gerarchiche (grandissimo il cocchio del faraone, grandi gli animali da esso uccisi, piccoli i cacciatori), anche se le singole raffigurazioni dei tori selvaggi uccisi, feriti o fuggenti, che si intravedono attraverso i cespugli, costituiscono una valida notazione naturalistica e paesaggistica, alla quale non manca che di essere inserita in uno spazio concepito in modo naturalistico e reso mediante la prospettiva. Concezione questa che rimarrà sempre estranea alla civiltà artistica egiziana. È da queste premesse che si svolgono talune rappresentazioni di età saitica (663-525 a. C.) dove si esprimono con mezzi non molto diversi situazioni idilliche, che si pongono dal punto di vista del contenuto quali unici precedenti alle scene idilliche della pittura (e scultura) di età ellenistica: per esempio, la donna seduta fra due alberi con bambino al collo, in un frammento del museo di Brooklyn. La tomba di Petosiris a Hermopolis occidentale, circa del 325 a. C., appartiene al periodo nel quale l'Egitto, per un sessantennio, riconquistò la propria indipendenza liberandosi dal dominio persiano, prima di soggiacere (332 a. C.) a quello dei Macedoni di Alessandro Magno: essa presenta scene di raccolta del grano costruite e concepite non diversamente da quelle della tomba tebana di Menena, così lontana nel tempo, anche se le figure sono caratterizzate fisicamente in modo individuale e si muovono nello spazio con un naturalismo che ha risentito l'insegnamento ellenico.
2. - Vicino Oriente. Il senso d'intimità del p. che si è notato nell'arte privata egiziana della metà del II millennio a. C. non fu mai cercato dall'arte delle civiltà mesopotamiche, dove il p. entra unicamente come elemento accessorio delle composizioni di narrativa storica che esaltano le imprese del sovrano. Questa narrativa storica troverà le sue più grandiose manifestazioni nell'Assiria dal IX sec. al VII a. C. Anche se essa può ritenersi indirettamente influenzata dall'arte egiziana del Nuovo Regno (dinastie XVIII-XX, 1570-1085 a. C.) la narrativa storica trova in Assiria un maggiore svolgimento in conseguenza di una concezione più "laica" della regalità; questa appare esaltata nelle sue azioni terrene e non relegata nella infallibilità eterna della sua accezione divina, alla quale basta mostrarsi per manifestarsi, come in Egitto. Già nel periodo accàdico, la stele della vittoria di Narām Sin (v. vol. i, fig. 23), dà una scena di p. come supporto alla esaltazione del re vittorioso, raffigurato in armi ai piedi del cono liscio della montagna dal quale un nemico è precipitato e lui sta solo, il re, col piede sul petto del nemico ucciso e in alto i simboli stellari delle grandi divinità mentre, più in basso, tra i contrafforti rocciosi, salgono i suoi soldati. Qui un albero tradisce con la sua peculiare forma una conoscenza dell'arte egiziana della V dinastia. Ma poi bisogna scendere sino alle rappresentazioni di guerra di Assurnasirpal II (883-859 a. C.) nelle strisce di rilievo del palazzo di Nimrud, per trovare altri accenni paesistici quali accessorî che servono a precisare la narrazione: gli alberi sulla riva rocciosa del fiume, nelle acque del quale nuotano verso la città fortificata, aiutandosi con otri rigonfi, i nemici fuggitivi inseguiti dalle frecce degli arcieri sulla riva. Il p. rimane subordinato pienamente al fine precipuo di mostrare, accumulando gli episodî di fuga del nemico, di uccisione, di tortura, di incendio, di conquista, come irresistibile sia la potenza del re assiro. La sproporzione tra figure ed elementi paesistici mostra che nessun effetto di ambiente è ricercato, ma solo la narrazione. Nelle strette e lunghe zone delle lamine di bronzo delle porte di Balawāt del tempo di Salmanassar III (858-824 a. C.) il rapporto tra figura e paesaggio è, qua e là, più naturalistico, soprattutto nelle scene secondarie (per esempio schiere di portatori tra alberi), il che indica l'esistenza di una certa freschezza di percezione quando la composizione non è vincolata a soggetti aulici e celebrativi. Non diverse nella sostanza le rappresentazioni di caccia a Khorsābād o a Ninive, quelle di una battaglia di Sennacherib (704-681 a. C.) nella palude, dove traspaiono ancora una volta influenze iconografiche egiziane, o quelle delle spedizioni di Assurbanipal (668-626 a. C.) contro gli Elamiti e in Arabia, vera cronaca minuziosa e "topografia" nel senso etimologico del termine, di luoghi ed avvenimenti, il cui fine si rivela, in fondo, assai più narrativo che celebrativo. Questa narrativa storica assira raggiunge qui la sua massima espressione e la serie di uguali strisce parallele, entro le quali era tradizionalmente racchiusa la composizione, adesso viene infranta e le figure si dispongono in tutti i sensi, sfruttando il ricordo della divisione in zone quale elemento di un accenno spaziale nella distribuzione degli episodî. Artisticamente, però, restano inferiori, queste gesta minuziosamente raccontate, alle celebri raffigurazioni del re alla caccia dei leoni (v. mesopotamica, arte, vol. iv, fig. 1272), dei cavalli, delle gazzelle, dove, pur sussistendo la distribuzione delle figure su piani diversi, l'accenno esplicito all'elemento paesistico è quasi del tutto abolito (tranne che nel mirabile frammento dei leoni tra le piante del parco reale) perché l'artista concentra tutte le sue capacità di espressione sugli animali osservati e resi con un potente e sorvegliatissimo realismo. L'arte del Vicino Oriente antico non supererà mai il punto di sviluppo raggiunto in quel tempo.
Da quanto abbiamo detto sinora, risulta evidente una connessione assai stretta fra composizione celebrativa o, meglio, narrativa storica e rappresentazione paesistica. Ma tutto questo non è ancora paesaggio come genere artistico a sé stante, quale lo intende o lo ha inteso la pittura europea e la terminologia critica che ne è derivata; è sempre p. subordinato alla narrazione, non protagonista esso stesso.
3. - Antichità classica. La ricerca di una rappresentazione del p. si muove anche nell'arte minoico-micenea dallo stesso àmbito delle civiltà orientali più antiche: non vi è sostanzialmente nessuna problematica diversa, anche se diversi sono i mezzi espressivi. Negli affreschi di Cnosso, di Haghìa Triada (v. vol. iii, figg. 1392, 1393) o di Tirinto (v. vol. v, fig. 106) il p. rimane come elemento accessorio descrittivo o ornamentale che accompagna la figura umana protagonista. Anche la composizione sulle tazze d'oro di Vaphiò (v. vol. v, figg. 113, 114) con i tori, liberi o catturati, che si muovono fra gli alberi, di iconografia apparentemente eccezionale, non proviene da un rapporto diverso, rispetto al p., di quello che si trovava già prima nell'arte egiziana o assai più tardi in quella assira: di nuovo, vi è soltanto una maggiore libertà spaziale ed è da notarsi questa perché un tempo negata all'arte classica, essa si è rivelata, con lo approfondirsi delle osservazioni, uno degli elementi più costanti di tutta l'arte greca. Ma nell'arte greca, maturatasi attraverso la severa disciplina dei geometrismo tra il X e l'VIII sec., anche quando essa poi cederà alla suggestione di quelle forme più varie, più ilari, sinuose, sempre pervase da un rapporto vitale con elementi vegetali ed animali, che provengono dai contatti con l'artigianato orientalizzante, rimane costante un particolare impegno alla rappresentazione dell'ambiente paesistico oggettivato, che viene di preferenza limitato, nell'epoca arcaica, a una scelta di elementi singoli indicativi e simbolici con una vivacissima sintesi che ne pone in risalto la fresca ispirazione da elementi di realtà osservata. Basta, per esempio, il cespuglio dinanzi al quale ristà il cane incitato dal battitore della brocca Chigi (v. vol. v, p. 668) per creare una indicazione precisa di ambiente. (Nella stessa brocca, sul registro superiore con il corteo dei cavalieri, elementi astratti di riempimento sparsi nel fondo riconducono la rappresentazione al suo ritmo ed al suo valore decorativo).
Con il frontone dell'Olivo (v. vol. i, fig. 984) appartenente ad un piccolo edificio arcaico dell'acropoli di Atene, l'elemento paesistico giunge anche alla decorazione architettonica in rilievo colorato. Senza poter qui allineare esempî, si può dire che per tutto il periodo arcaico (fino al 480 a. C.) l'elemento paesistico è, di solito, usato come accessorio, ma sempre sentito con straordinaria vivezza. Solo isolatamente si hanno scene, che potremmo dire "di genere" (v. genere, pittura di), nelle quali il p. non è soltanto un accessorio, ma partecipa in modo indissolubile a costituire l'immagine artistica. Nel modo più sorprendente una di tali composizioni ci è conservata nella Tomba della Caccia e Pesca a Tarquinia (v. vol. iii, tav. a colori a pag. 482), dove la redazione etrusca non esclude, ma anzi richiama, opere consimili che dovettero essere state create nella corrente greca ionica, ma riprese anche in Attica (le rocce a strati ritornano su una lèkythos attica a figure nere nello scoglio sul quale siedono pescando Posidone, Eracle, Hermes).
Questa concezione non è diversa per sostanza dalla scena di bagnanti sopra un'anfora a figure nere con donne al bagno tra alberi di salice (circa 530-520 a. C.) al Museo di Villa Giulia a Roma, da Cerveteri (Monte Abatone, di recente scoperta). Già in un vaso più antico, un contemporaneo di Exekias (550-540 a. C.) aveva usato alberi per caratterizzare meglio una scena patetica, il "compianto del caduto nel bosco". Può dirsi che il fresco sentimento realistico dell'arte arcaica si estendesse spontaneamente anche alla caratterizzazione dell'ambiente paesistico, pur senza uscire dalla concezione bidimensionale. Erodoto (iv, 88) ricorda la pittura di Mandrokles (v.) samio col passaggio dell'esercito persiano attraverso il Bosforo nel 524 a. C., sopra un ponte di barche costruito dallo stesso Mandrokles. Con l'inizio dello "stile severo", dopo il 480, l'ingenua freschezza arcaica non appare più soddisfacente. Si cerca un approfondimento più essenziale della natura dell'uomo e di ciò che lo circonda.
La ricerca rivolta verso una forma pura e conchiusa, che già faceva isolare la statua e tentare raramente il gruppo, che faceva concepire l'edificio del tutto a sé, senza porlo in relazione con altri edifici che gli stanno vicini, conduce al rarefarsi dell'elemento ambientale durante il periodo tra la fine dell'arcaismo e i secoli dell'arte classica, V e IV a. C. L'elemento ambientale rimane soltanto come un accessorio, quasi con valore di attributo indicativo e simbolico. Ciò lo vediamo riflesso nella pittura vascolare, dove l'albero isolato, inserito come elemento stabile nel repertorio con le imprese di Eracle (da Psiax a Andokides) o presente nella scena di Ilioupèrsis sulla idria del Pittore di Kleophrades (v. vol. iv, fig. 443), non doveva esser diverso nella grande pittura e non soltanto fino attorno al 480, ma anche nei grandi pittori della prima metà del secolo. Anche se appaiono allora come abituali le quinte rocciose della pittura polignotea e le indicazioni del terreno ricco di erbe e di fiori, sul quale si svolgono le scene (per esempio nella amazzonomachia, sui due crateri di New York: v. vol. i, fig. 1133; iv, fig. 76), queste quinte rocciose sono sempre un elemento nuovo, che serve soprattutto alla notazione spaziale pur senza incamminarsi ancora sulla via della prospettiva. Questa via, invece, aperta da Apollodoros verso la fine del sec. V, non fu percorsa senza influenza della scenografia teatrale, la quale si suppone abbia potuto introdurre anche elementi di sfondo paesaggistico, sempre come elemento accessorio (v. pittura), ma tuttavia già con un valore emotivo. (Si veda, per esempio, la lèkythos a fondo bianco con il giovane seduto fra le tombe, che si volge all'apparire di una lepre tra gli anfratti di una quinta rocciosa). Se nella composizione della scena di Io e Argo, inserita in una parete di IV stile del Macellum di Pompei, si ha un'eco iconograficamente genuina della composizione, ai suoi tempi famosa, del quadro di Nikias (v.) di uguale soggetto, vediamo appunto il paesaggio tuttora fermo alla soluzione di quinte di roccia che servono di complemento e di supporto alle figure umane. E il nucleo più antico della composizione con Perseo e Andromeda, quale ci è conservato meglio che altrove nella pittura della Casa dei Dioscuri, conferma tale osservazione. Ancora nella Battaglia di Alessandro (mosaico, Napoli, Museo Nazionale) l'albero secco è l'unica notazione paesistica, pur non restando più soltanto un accessorio, ma caricandosi di un significato drammatico intenso, che contribuisce fortemente a caratterizzare la scena del campo di battaglia. Se, come tutto porta a credere, il mosaico riproduce, sia pure con qualche adattamento, il famoso quadro di Philoxenos (v.), abbiamo qui una preziosa indicazione per il modo di concepire il p. nella pittura della fine del IV sec. a. C. Di fronte a una così autorevole testimonianza si rimane perplessi ad attribuire anche alla composizione originale lo sfondo di rocce e alberi e l'ampio spazio atmosferico che si ha nel mosaico della caccia, da piazza Vittoria a Palermo (v.), che peraltro strette affinità stilistiche nel disegno delle figure e nella forma pittorica avvicinano al medesimo tempo e alla stessa cerchia artistica.
Di quanto questo problema dello spazio atmosferico si fosse sviluppato in seguito, e per un'età prossima alla metà del II sec. a. C., un indizio ci viene fornito dagli avanzi, purtroppo scarsi, del fregio minore dell'Ara di Pergamo, dedicato a narrare i fatti della leggenda di Telefo. Qui, per la prima volta, in un grande monumento di scultura ufficiale, le figure umane occupano soltanto i due terzi dello spazio disponibile in altezza, lasciando il terzo superiore libero per raffigurare alberi, rocce, sfondi di mare o di cielo, che accompagnano, inquadrano, talora determinano figurativamente le romanzesche vicende del protagonista, narrate in una successione di scene improntate a un accento più idilliaco che drammatico. Non crediamo che questa diretta partecipazione del p. alla narrazione fosse avvenuta per la prima volta qui e, per di più, in un'opera di scultura; ma non possiamo affermarlo, perché la documentazione per il III sec. a. C. è oltremodo scarsa e confusa. Gli accenni paesistici che troviamo nelle modeste sculture artigianali delle urne cinerarie etrusche, specialmente volterrane, indicano derivazioni da composizioni ellenistiche risalenti con probabilità anche al III sec., certamente al II e al I, ma non sappiamo se espresse in scultura o in pittura. Si tratta pur sempre, tuttavia, di un p. che serve di sfondo accessorio alla narrazione, anche se esso non si limita più ad un accenno quasi simbolico, ma occupa, con vivaci accenti naturalistici, spesso una parte non trascurabile della composizione.
Un secolo dopo (50-40 a. C.), si trova invece la serie delle pitture di p. con episodî della Odissea, conservata alla Biblioteca Vaticana, che provengono dalla decorazione murale di una casa romana scoperta nel 1848 nella zona dell'Esquilino (via Graziosa, prossima all'odierna via Cavour). Qui si ha un documento di vera e propria pittura di p.: la parete era decorata con elementi architettonici che lasciavano in alto finte aperture, sicché i p. erano raffigurati come fondi veduti attraverso un porticato. Anche se non vi si trovano quegli aspetti e quegli intenti che caratterizzano la pittura di p. dell'arte moderna, tuttavia qui il p. costituisce l'elemento figurativo ed espressivo primario, la figura umana quello accessorio: accessorio iconograficamente, anche se poi in realtà, è sempre ad esso che si deve la ragion d'essere, il motivo di fondo che ispira la composizione. Altre pitture di p. con scene mitologiche sono databili agli anni immediatamente successivi e lungo tutta la pittura pompeiana: basterà citare le scene marine con Polifemo e Galatea, una nella cosiddetta Casa di Livia sul Palatino (30-25 a. C.), l'altra a Pompei, nella Casa del sacerdos Amandus (Reg. 1, 7, 7, circa 50 d. C.) assieme ad altri soggetti mitologici inseriti in ampi spazi paesistici (Andromeda liberata, il volo di Icaro, soggetto questo che si ritrova in una piccola pittura pompeiana conservata al British Museum). Ma nello stesso tempo si hanno anche composizioni paesistiche d'invenzione animate da figure di genere, prive di argomento narrativo vero e proprio: nella stessa cosiddetta Casa di Livia, il lungo fregio a monocromo giallo (v. chiaroscuro, Tav. a colori) con scene di ambiente probabilmente siriaco è tuttora ancorato a una realtà concreta, anche se di invenzione; ma nella casa della Farnesina (Roma, Museo Nazionale Romano: v. Tav. a colori e voci pittura; monochromata) nel fregio su fondo bianco, le scene bucoliche, le scene di porti o di navi, che si immaginano viste attraverso un irreale loggiato dalle sottilissime colonnine, sono schizzate con una eccezionale freschezza di improvvisazione, ma ormai senza nessun intento naturalistisco, tutte di fantasia (tanto è vero che sono intercalate a maschere e nature morte). Queste pitture, senza dubbio originali, sono cosa ben diversa da quelle che decoravano, riempendole interamente, le pareti di un ambiente della villa di P. Fannius Sinistor a Boscoreale (v.), e che si manifestano sicuramente come appartenenti a un gusto pittorico più antico: la datazione tra 50-40 a. C. per la esecuzione delle pitture di Boscoreale deve essere riconfermata anche contro i più recenti tentativi di abbassarla. Ma ciò che vediamo a Boscoreale e che rivela nella sua qualità formale di non essere invenzione originale, non è semplicemente da valutarsi come pittura di p., bensì piuttosto come riproduzione di quelle scene teatrali (thyròmata) delle quali si hanno descrizioni per un tempo che ci riporta alla fine, se non addirittura alla prima metà del II sec. a. C. Infatti noi vediamo qui tre composizioni contigue corrispondenti senza sforzo alle scene della commedia (veduta di città con case, altane, ecc.) alle scene del dramma tragico (interno di un ampio cortile porticato con edificio circolare al centro) e del dramma satiresco (grotta con fontana sormontata da pergola. Per la discussione su tale interpretazione v. pittura). Sulle pareti delle case di Pompei e delle altre città campane, fra il 63 e il 79 d. C. troveremo poi una quantità di piccole composizioni di carattere idillico e sacrale con santuarî boscherecci situati in montagna (v. impressionismo, vol. iv, Tav. a colori a p. 122) o su isole entro un terreno allagato; oppure vedute di ville marittime o d'insenature marine o di porti, spesso visti dall'alto (v. pompei; pozzuoli; villa) in modo da scorgerne la più ricca varietà di prospettiva. Carattere idillico sacrale ha anche il p. del grande mosaico nilotico di Palestrina (v.) la cui datazione è discussa (fra l'età di Silla e gli inizî del III sec. d. C.); ma la datazione alla quale si può far risalire l'invenzione originale non sembra dubbio che si debba situare ancora entro l'età ellenistica. Con le pitture della Villa di Livia a Primaporta (Roma, Museo Nazionale Romano) forse di età claudia, si ha anche il p. "puro", privo di figure umane e di intento narrativo: tutte e quattro le pareti dell'ampia sala si aprono sulla veduta di un giardino delimitato sul davanti da un leggero traliccio di canne e, al di là di una zona erbosa con alberi isolati e cespi di foglie a distanze regolari, recinto da una serie di basse transenne, oltre le quali si ha un bosco folto di alberi che si stagliano con le vette sul cielo azzurro: allori, palmizi, cotogni carichi di frutti, giovani cipressi e pinastri popolati di uccelli; un vero e proprio trasognato paràdeisos come userà nell'Oriente persiano (v. giardino). Riassumendo, si possono distinguere dunque composizioni diverse: a) grandi p. come sfondo di narrazioni mitologiche o epiche; b) composizioni di tipo teatrale con vedute di città, di santuarî, di grotte in attesa di essere popolate da personaggi umani, o giardini privi di figure umane; c) p. d'invenzione a composizione episodica con scene agresti o portuali animati da vivaci figurette; d) p. idillico-sacrali con vedute di tempietti e di greggi; e) vedute panoramiche (dall'alto) di porti o di ville marittime.
Tutto questo repertorio paesaggistico è cosa del tutto nuova nella civiltà artistica del mondo antico. Suo carattere costante è di essere sempre un p. di invenzione, composito, mai ripreso dal vero, anche se i singoli elementi ostentano realismo; il che contiene in sé il rischio della maniera, ma ne aumenta il valore decorativo. Il fatto che i suoi esempî sono stati trovati a Roma e in Campania ha fatto facilmente sorgere l'opinione che la pittura di p. fosse stata un apporto nuovo della cultura artistica romana. Tale opinione, avanzata e argomentata criticamente da F. Wickhoff (v.) nel suo famoso saggio sull'arte romana, è stata ripresa più volte anche recentemente, con più o meno conoscenza degli elementi critici e filologici necessarî. Ma questa opinione è da altri stata considerata almeno in gran parte errata, col rimprovero di non tenere sufficientemente conto della realtà storica che emerge da una più attenta considerazione, sia delle fonti letterarie che dallo svolgimento dell'arte, sia in età ellenistica, sia in età romana. Queste opposte interpretazioni hanno promosso nel campo specialistico una discussione, che ancora ogni tanto si riaccende e che ha avuto nuova occasione di manifestarsi a proposito della recente pubblicazione (da parte di A. Adriani) di una piccola coppa in bronzo del museo di Alessandria d'Egitto, decorata da rilievi paesistici a soggetto mitologico, attribuita al III sec. a. C., da altri invece ritenuta della prima età imperiale romana. Questa discussione ha ripetuto quella, sorta in passato, a proposito dei "rilievi Grimani" (già a Venezia, Collezione Grimani, poi a Vienna, Kunsthistorisches Museum) ornamenti di fontana con scene idilliche e di p., attorno ai quali rilievi altri analoghi si possono raggruppare, che hanno un ancor più accentuato carattere paesistico e un gusto, del tutto ellenistico, per la composizione di genere agreste osservata con raffinato manierismo realistico (rilievo con Polifemo; Contadino che va al mercato; Mandria di buoi e Priapo, a Monaco di Baviera; stucchi della Casa della Farnesina, paesaggio con Edicola di Diana, al Museo Nazionale Romano; due scene pastorali al Vaticano; sei degli otto rilievi mitologici a Palazzo Spada; ecc.). Anche il rilievo con Enea che sacrifica ai Penati, inserito nell'Ara Pacis (v.) di Augusto, partecipa di questo carattere ed anche qui si è discusso sull'apporto ellenistico o su quello romano. Nessuna delle opere d'arte che sinora si sono potute prendere in considerazione contiene in sé elementi di fatto così indiscutibili da dirimere ogni questione: essa va risolta considerando la situazione storica e culturale e la testimonianza delle fonti letterarie. Anche se nelle citate pitture con p. dell'Odissea le personificazioni dei luoghi, che sussistono accanto alla raffigurazione paesaggistica di essi, mostrano un legame con la tradizione classica; anche se i nomi sono in greco e certe acconciature sono sicuramente alessandrine, si può discutere ancora se si tratti di una creazione romana ispirata alla cultura greca, di una imitazione o copia di modello ellenistico, o della pittura originale di un pittore di lingua greca operante a Roma. Certo è che la enorme maggioranza (e tutte le pitture) delle composizioni paesistiche, è eseguita in età romana, ed è stata rinvenuta in ambiente italico. Sta il fatto, però, che in tutto il mondo ellenistico non si sono conservate pitture parietali di case, di ville, di palazzi, giacché il caso di preservazione verificatosi nelle città sommerse dal Vesuvio è unico. Scarsissimi frammenti di ornamentazione parietale in territorio greco (a Delo, in tombe della Russia meridionale) appartengono ancora all'epoca della decorazione a incrostazione di lastre marmoree multicolori imitate in pittura, che non comporta l'inserzione di quadri figurati. Le tombe ellenistiche danno (ma ciò vale ancor più per quelle di età romana in Italia) un riflesso estremamente impoverito rispetto a ciò che era la decorazione pittorica delle case. Acquistano perciò particolare interesse le due camere della tomba n. 5 della necropoli alessandrina di Anfushi decorate con alberi espressi in maniera naturalistica, anche se sommaria, visibili tra pilastri o stendentisi liberamente su tutta la parete come nella Villa di Livia, e se la datazione deve essere posta o poco prima o poco dopo il 30 a. C., anno della conquista romana. È evidente che se tali decorazioni si trovano nelle tombe, il corrispettivo in esecuzione meno corrente e affrettata non solo poteva, ma doveva, esserci nelle case.
Occorre non dimenticare, inoltre, ciò che Roma rappresentò nel giro di quel secolo che va dalle prime conquiste in Asia Minore alla sottomissione dell'Egitto: rappresentò il concentrarsi di tutta la ricchezza liquida delle città e dei regni del Mediterraneo orientale, con un salto enorme nella cultura del cittadino romano e nella sua smania di assimilarsi la cultura ellenistica, che gli fece accumulare opere originali d'arte greca di ogni tempo, copie di esse o imitazioni e che certamente fece affluire artisti a Roma da ogni parte del mondo ellenistico: di alcuni di essi conosciamo nomi e dati di fatto (v. demetrios, 6°; eudoros; serapion, pittori).
Ma è da considerare, soprattutto, che la invenzione della pittura di p. si inserisce senza sforzo nell'àmbito della cultura ellenistica, che ha in vario modo espresso la tendenza alla sempre più accentuata libertà spaziale, il gusto per l'osservazione naturalistica più minuta, e per il genere idillico-pastorale, che sono caratteri tipici per quasi tutti i paesaggi ‛‛pompeiani''. Si potrebbe seguire passo passo il processo di introduzione del p. nel quadro a soggetto mitologico e collegare questo processo e il prevalere, a un certo momento, dell'elemento paesistico anche col mutarsi della concezione religiosa, che durante l'ellenismo sostituisce l'esaltazione eroico-mitologica con un concetto panteistico della natura (badando però a non cadere nell'irrazionalismo culturale di qualche studioso che ha recentemente seguito questa via).
Nei paesaggi pompeiani o romani (come anche nel mosaico di Palestrina) compaiono continuamente motivi che si richiamano alle caratteristiche della regione del Delta egiziano e non vale ribattere questa constatazione con un richiamo alle chinoiseries diffuse nell'artigianato del sec. XVIII (richiamo reso più facile da spesso singolari coincidenze nell'iconografia e nel gusto) in quanto nella decorazione del Settecento si partiva da un gusto già affermato, che assumeva motivi esotici per trasformarli a suo intento. Ma nell'ambiente artistico romano (e comunque italico) si cercherebbe invano una qualsiasi apertura culturale verso tali problemi, quali sono i presupposti alla creazione di una pittura di p. come quella che qui troviamo: ancora Cicerone sente il bisogno di scusarsi, se per agire contro Verre (70 a. C.) ha dovuto occuparsi di cose d'arte, queste frivolezze (v. romana, arte). È assai importante inoltre, il noto passo di Vitruvio (De architect., vii, v) nel quale si traccia in certo modo il percorso della pittura parietale, lodando ciò che facevano gli antiqui per meglio deplorare ciò che si faceva nunc, ai suoi tempi; quegli "antichi" non potevano non risalire almeno alla generazione precedente alla sua. Vitruvio scrive intorno al 30 a. C., perciò la sua polemica si svolge contro ciò che noi chiamiamo decorazione di secondo stile (v. pompeiani, Stili); quelli che egli chiama "antichi" devono avere operato in età non certo posteriore al tempo tra 100 e 6o a. C., probabilmente anche prima. Ed essi, secondo il suo testo: "nelle esedre, data l'ampiezza delle pareti, cominciarono a riprodurre fronti di scena di stile tragico comico o satirico; nelle gallerie invece, data la lunghezza dello spazio, fecero decorazioni paesistiche che riproducevano le caratteristiche di determinati tipi di luoghi" (varietatibus topiorum ornarent ab certis locorum proprietatibus imagines exprimentes), vi si dipingono infatti porti di mare, promontorî, coste, fiumi, sorgenti, stretti, santuarî, boschetti, montagne, greggi, pastori" (pinguntur enim portus, promunturia, litora, flumina, pontes, euripi, fana, luci, montes, pecora, pastores); "qualche ambiente ha anche megalografie (v.) riproducenti simulacri di divinità o illustrazioni di favole mitologiche, nonché delle guerre troiane o le peregrinazioni di Ulisse di paese in paese o altre cose che sono similmente esistenti in natura. Ma queste cose che si prendevano a imitare da cose reali, ora si disprezzano con gusto degenerato" (nonnulli loci item signorum megalographiam habent et deorum simulacra seu fabularum disposita explicationes, non minus troianas pugnas seu Ulixis errationes per topia, ceteraque quae sunt eorum similibus rationibus ab rerum natura procreata; sed haec quae ex veris rebus exempla sumebantur nunc iniquis moribus improbantur. Vitr., vii, v, [=172], ed. Krohn, Lipsia 1912). Si potrebbe quasi credere a un voluto richiamo, nel testo citato, a pitture come quelle della villa di Fannius Sinistor a Boscoreale o ai Paesaggi dell'Odissea. Sembra quindi certo che decorazioni parietali come quelle dei Paesaggi dell'Odissea o del cubicolo con le figurazioni sceniche della Villa di Boscoreale appartengono a quella tradizione artistica che Vitruvio colloca nel passato. E sembra lecito di poter ormai concludere che la pittura di p. rientrasse (e vi rientra di fatto senza sforzo) in quello svolgimento di nuovi temi e di nuovi problemi della forma artistica e del suo contenuto, che sono caratteristici dell'ellenismo vero e proprio (v. ellenismo; greca, arte), e cioè non solo dell'ellenismo romano: la ricerca di maggiore libertà spaziale, l'interesse per gli aspetti minori e caratteristici, talora anche grotteschi, ma più spesso idillici e fabulistici della vita quotidiana. Non diversamente dall'"invidia" di Tolomeo II, che dal suo palazzo guardava al lazzarone che si stendeva al sole nelle dune del porto, la pittura di p. con la sua notazione di aspetti minori della vita quotidiana serviva come "evasione" dall'alienazione della raffinata società ellenistica. Il fondo originario della cultura esistente a Roma era ben diverso.
Nell'ulteriore corso della cultura ellenistica, che continua poi a svolgersi anche in età romana (cioè dopo il 30 a. C.), debbono essersi diffusi i quadretti con paesaggi sacrali e poi quelli con vedute di ville, secondo una realtà dei primi tempi imperiali. Nulla vieta di ammettere che accanto a pittori di origine ellenistica (e ciò vorrà dire ateniesi, alessandrini o siriaci) anche pittori romani o comunque italici abbiano operato in questo genere e con variazioni proprie; ma il genere in sé era e restava di invenzione e di spirito ellenistico. Tra questi pittori romani è da pensare a quello Studius o Ludius (v.) unico nome romano menzionato dalle fonti letterarie in questo contesto accanto ai nomi greci. (Per Nealkes, che dipinse una battaglia presso il Nilo e vi aveva raffigurato un asino in atto di bere per far intendere che l'acqua raffigurata non era il mare, la cronologia è assai incerta. Sulle pareti dipinte della Casa della Farnesina è graffito il nome seleukos, che è stato interpretato come la firma di uno dei due pittori che debbono avervi operato). A Ludius si è pensato dinanzi alle citate scenette rapidamente schizzate sulla parete a fondo bianco della Casa della Farnesina, che hanno una freschezza di improvvisazione (degna di un Jacques Callot) tale da escludere ogni derivazione di seconda mano. Ma non perciò chiameremo romana questa pittura; piuttosto Ludius lo diremo un romano che aveva così perfettamente assorbito la cultura artistica ellenistica, da crearne proprie variazioni originali. Siamo ancora in un'epoca, infatti (30-25 a. C.), di pieno contatto con i centri vivi di cultura ellenistica. Più tardi, via via che questi centri inaridiscono sotto il dominio romano, il repertorio non si rinnova, diviene manierata ripetizione. Ma un elemento nuovo può essere additato nelle pitture della Farnesina: l'accresciuto valore degli elementi architettonici nel p. (qui abbiamo la prima rappresentazione di un porticato, per esempio), che saranno tipici per le vedute del IV stile pompeiano e che si conserveranno anche dopo, come lo dimostra uno degli esempî più tardi che ci siano rimasti: il p. della villa sotto S. Sebastiano a Roma, databile alla fine del II sec. d. C. (Tav. a colori).
Filostrato (v.) nel III sec. d. C. descrive paesaggi che debbono ancora intendersi come parietali ed è di questo tempo una delle composizioni di più alta qualità di tutta la pittura antica di p.: il mosaico di Cherchel con scene di aratura e di vendemmia. Qui siamo ben lontani dalle frivole e arcadiche composizioni di puro p. del I sec. a. C. Siamo ritornati al p. che accompagna come sfondo le azioni dell'uomo; ma con una tematica nuova, una forza nuova, tipica per la cultura artistica dell'Africa romana. Il vero e proprio quadretto di p. finisce, invece, con l'esaurirsi della tradizione culturale ellenistica nella quale era sorto. Ancora alla fine del V, inizio del VI sec. d. C., il miniatore della Iliade Ambrosiana continuerà a ripetere (Miniature xii, lii, liii) motivi di iconografia ellenistico-pompeiana e in un caso (Min. liii) ripeterà quasi una descrizione di Filostrato. Di questa continuità ellenistica fino in epoca tarda, ci fornirà ancora una testimonianza la scena del Diluvio nel manoscritto della Genesi di Vienna (fine VI sec. d. C.: v. illustrazione) che sarà ripresa nell'arte medievale. Ma nel corso del III sec. e poi ancor più nel IV, anche il p. segue il generale processo di disgregazione nella coesione dei suoi elementi compositivi.
Nei mosaici pavimentali del IV sec. (numerosi particolarmente nella cultura artistica dell'Africa romano-punica quelli con scene di caccia) è dato seguire il progressivo isolamento dei gruppi di immagini e poi delle immagini singole, che si dispongono come sorrette da tratti di terreno, ma staccate l'una dall'altra, sopra un fondo neutro, come decalcomanie, con precipua preoccupazione per la simmetria. Tale processo può seguirsi dai mosaici di Piazza Armerina (v.) a una serie di mosaici africani del IV sec. (Tunisi, Museo del Bardo) e fino a quelli del Grande Palazzo di Costantinopoli (v.). Dove il naturalismo ellenistico sopravvive, là si trova anche la raffigurazione del p.; ma l'astrazione formale dell'arte bizantina finirà per eliminarlo interamente, fino a che i primi effetti di una ripresa coscienza umanistica nella vita e nella cultura lo ricondurrà, insieme al ritrovato gusto narrativo, sulla grande via dell'arte europea.
Anche in scultura o plastica, il bassorilievo paesaggistico scompare con il cessare della fase ultima dell'ellenismo: rimane il p. come sfondo nel rilievo storico, narrativo (e l'esempio maggiore si ha nei rilievi della Colonna Traiana nei quali un grande artista ha ripreso con una sua originalità la tradizione ellenistica trasfusa nel contenuto romano imperiale). Ma i quadretti idillico-bucolici in rilievo, come quelli citati più sopra, scompaiono del tutto per non mai più comparire, a riprova della loro appartenenza al gusto del tardo ellenismo. Allo stesso modo non compariranno più, pur in tanta accresciuta dovizia, e preziosità, i motivi paesaggistici nella toreutica, quali apparivano ancora sulle argenterie della Casa del Menandro a Pompei. Del tutto isolato, e ancora non sodisfacentemente inquadrato dalla critica storico-artistica rimane il rilievo con veduta di città, conservato ad Avezzano nella raccolta Torlonia, unico nel suo genere di vera topographia plastica.
Monumenti considerati. - 1. Egitto: dipinti da Komal-Aḥmar e Hierakonpolis: W. Stevenson Smith, op. cit. in bibl., p. 15, fig. 2; G. Farina, La Pittura Egiziana, Milano 1929, tavv. iv-vi. Caccia di Sahurē, da Abu Sir: W. Stevenson Smith, op. cit., tav. 48 (A). Rilievo dal tempio di Userkaf, da Saqqārah: W. Stevenson Smith, op. cit., tav. 47 e p. 70, fig. 31. Tomba 3 di Benī Ḥasan: G. Farina, op. cit., tavv. xliv-xlvi. Tomba n. 69, Tebe: W. Stevenson Smith, op. cit., tav. 109. Tomba n. 81, Tebe: id., op. cit., tav. 100 (B). Tomba n. 85, Tebe: id., op. cit., tav. 107 (A). Tomba n. 82, Tebe: G. Farina, op. cit., tav. lvii. Tomba n. 100, Tebe: W. Stevenson Smith, op. cit., tav. 106. Caccia di Tutankhamon: id., op. cit., tav. 142-3. Caccia di Ramesses III, a Medīnet Habu: id., op. cit., tav. 160. Frammento di rilievo del museo di Brooklyn: id., op. cit., tav. 180. Tomba di Petosiris: id., op. cit., tav. 187. 2. Vicino Oriente: rilievo del palazzo di Nimrud: H. Frankfort, op. cit. in bibl., tav. 85. Lamine di bronzo dalle porte di Balawāt: id., op. cit., tav. 92 (A). Rilievo da Khorsābād con scena di caccia: id., op. cit., tav. 98. Rilievo da Ninive con scena di caccia: id., op. cit., tav. 110. Rilievo con battaglia di Sennacherib: id., op. cit., tav. 100. Rilievi da Ninive, di Assurbanipal: id., op. cit., tavv. 105 e 106. Frammento di rilievo con leoni, da Ninive: id., op. cit., tav. 108 (A). 3. Antichità classica: tazze da Vaphiò: Sp. Marinatos-M. Hirmer, Creta e Micene, (tr. ital.), Firenze 1960, tavv. 178-185. Lèkythos a fig. nere con Posidone ecc. in atto di pescare: E. M. W. Tillyard, Hope Vases, n. 31, tav. 6; A. Rumpf, Malerei u. Zeichn., p. 70, n. 6. Coppa del Louvre (F. 68): P. E. Arias-M. Hirmer, Mille anni di ceramica greca, Firenze 1960, tav. 51. Compianto del caduto nel bosco: C. Albizzati, Vasi Vatic., tav. 44, 350; J. D. Beazley, Development, tav. 33; A. Rumpf, Malerei u. Zeichn., tav. 12, 12. Anfore di Psiax a Andokides: P. E. Arias-M. Hirmer, op. cit., tav. 68 e 88. Lèkythos: Furtwängler-Riezler, Weissgrund. Attische Lekythen, Monaco 1914, tav. 78. Pittura di Io e Argo dal Macellum di Pompei: G. E. Rizzo, op. cit. in bibl., tav. xlii. Mosaico di Alessandro: id., op. cit., tavv. xliv-xlv. Ala di Pergamo, fregio di Telefo: M. Bieber, The Sculpture of the Hellenistic Age, New York 1955, figg. 477-8. Pitture dell'Odissea: B. Nogara, Le Nozze Aldobrandine, ecc., Milano 1807, tavv. ix-xxxii. Pitture di Polifemo e Galatea: G. E. Rizzo, op. cit., tavv. clxiv e clxv. Pitture con Andromeda liberata: E. Pfuhl, op. cit. in bibl., fig. 723. Pitture col volo di Icaro: E. Pfuhl, op. cit., fig. 722 a; G. E. Rizzo, op. cit., tav. clxvii. Replica di Londra: R. P. Hinks, Catalogue British Museum, Londra 1933, n. 28, tav. xii. Pittura con Ulisse e le Sirene: R. P. Hinks, op. cit., n. 27, tav. xi. Pitture di Boscoreale: G. E. Rizzo, op. cit., tav. vii. Mosaico nilotico di Palestrina: id., op. cit., tav. clxxxviii. Pitture della Villa di Livia a Primaporta: id., op. cit., tavv. clxxxi-clxxxii. Coppa in bronzo da Alessandria: A. Adriani, op. cit. in bibl., tavv. ii-v. Rilievi Grimani: E. Strong, La scultura romana (tr. ital.), Firenze 1923, p. 75 ss. Rilievi paesistici: Th. Schreiber, op. cit. in bibl. Decorazioni parietali di Delo: M. Borda, La pittura romana, Milano 1958, pp. 8-9. Tomba di Anfushi: B. R. Brown, op. cit. in bibl. Argenterie della Casa del Menandro: A. Maiuri, La Casa del Menandro, Roma 1933, p. 241 ss.
Bibl.: 1. Egitto: W. Wrezinski, Atlas z. altägyptischen Kulturgeschichte, 3 voll., Lipsia 1923-6; W. Stevenson Smith, The Art and Architecture of Ancient Egypt, Harmondsworth 1958. - 2. Vicino Oriente: H. A. Groenewegen-H. Frankfort, Arrest and Movement, Londra 1951; H. Frankfort, The Art and Architecture of the Ancient Orient, Harmondsworth 1954; C. H. Kraeling-, H. J. Kantor-A. Perkins-, H. G. Güterbock, Narration in Ancient Art, in Amer. Journ. Arch., LXI, 1957, p. 43 ss.; S. Moscati, Le origini della narrazione storica nell'arte del Vicino Oriente, in Mem. Acc. Lincei, S. VIII, v. X, 1961, p. 22. - 3. Antichità classica: in generale: J. Burckhardt, Civiltà del Rinascimento, Firenze 1921, II, cap. 3; E. Pfuhl, Malerei und Zeichnung bei d. Griechen, Monaco 1923; G. E. Rizzo, La Pittura ellenistico-romana, Milano 1929; L. Curtius, Wandmalerei Pompeijs, Lipsia 1929; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, in Handbuch, VI, Monaco 1953; M. Borda, La Pittura romana, Milano 1958; A. Frova, L'arte di Roma e del mondo romano, Torino 1961. In particolare: K. Woermann, Die Landschaft in d. Kunst der alten Völker, Monaco 1876; M. Rostovzev, Il paesaggio architettonico ellenistico-romano, Pietroburgo 1908 (in russo); id., Hellenistisch-röm. Architekturlandschaft, in Röm. Mitt., XXVI, 1911, p. 1 ss.; R. Pagenstecher, Die Landschaft in der Malerei des Altertums, in Neue Jahrbücher f. klassisch. Altertum, XLVII-XLVIII, 1921, p. 271 ss.; Ch. M. Dawson, Romano-Campanian Mythological Landscape Painting, Yale Classical Studies, IX, 1944; S. White, Perspective in Ancient Drawing and Painting, Londra 1956. Rilievi paesistici: Th. Schreiber, Die Hellenistische Reliefbilder, Lipsia 1889-93; id., in Jahrbuch, XI, 1896, p. 91 ss.; J. Sieveking, in Festschrift P. Arndt, Monaco 1925, p. 25 ss.; F. Matz, in Arch. Anz. Jahrbuch, 1932, c. 277 ss.; 1944-45, c. 89 ss.; 1945-46, c. 108; Mitteilungen d. Inst., 5, 1952, p. 105 ss.; Abhandl. Mainz, 1952, 8, p. 623 ss.; Festschrift Schweitzer, 1955, p. 319 ss.; Jahrbuch, 19. Ergänzungsheft, 1958, p. 169 ss., 185 ss.; Ch. Picard, Origine alexandrine des paysages portuaires, in Bull. Corr. Hell., 76, 1952, p. 74 ss.; K. Schefold, Griech. Kunst als religiöses Phänomen, Amburgo 1959 (traduz. ital., Milano 1962). Pittura alessandrina: B. R. Brown, Ptolemaic Paintings and Mosaics and the Alexandrian Style, Cambridge Mass. 1957; A. Adriani, Divagazioni intorno a una coppa paesistica del Museo di Alessandria, Roma 1959 (contrastato da F. Matz, in Gnomon, 1960, p. 289 ss. e Ch. Picard, in Revue Arch., 1960, 2, p. 63 ss.). Boscoreale e Casa della Farnesina: H. G. Beyen, Die Pompejanische Wandekoration, I, L'Aja 1938, p. 89 ss. e II, L'Aja 1960, p. 265 ss.; Ph. W. Lehmann, Roman Wall Paintings from Boscoreale in the Metropolitan Museum of Art, Cambridge, Mass. 1953.
(R. Bianchi Bandinelli)
4. India. - Nell'Asia orientale, fuorché in Cina e in Giappone, il p. è stato trattato raramente per se stesso come soggetto; servì piuttosto di inquadratura all'azione rappresentata. Sotto questa forma, il p. non appare in scala gigantesca rispetto all'uomo, ma in scala ridotta riassumendosi in pochi elementi fondamentali: montagne e rocce, alberi e motivi vegetali, corsi d'acqua e nubi, stilizzati secondo certe convenzioni decorative che bastano a evocare la foresta, un giardino ecc. Grande importanza fu inoltre data all'architettura, che costituisce spesso da sola la decorazione delle scene. E ciò con certe regole generali, che si possono osservare nei rilievi e nella pittura murale dell'India antica, nei bassorilievi Khmer e in quelli di Giava centrale.
Nell'India antica il p. è organizzato secondo una prospettiva verticale i cui diversi piani si sovrappongono, invece di mascherarsi in parte gli uni dietro agli altri come nella prospettiva occidentale. Inoltre le linee prospettiche convergono verso lo spettatore, invece di dirigersi, come nelle convenzioni occidentali, verso una linea d'orizzonte. Tali caratteristiche sono molto nette nelle scuole antiche, come quelle di Bharhut e di Sānchī (II sec. a. C. - I sec. d. C. circa); nelle scuole posteriori, a Mathurā e Amāravatī (II-IV sec. circa), i piani si dispongono secondo, una scienza più avanzata delle leggi della terza dimensione e le linee sfuggenti hanno deformazioni meno forti. Nelle pitture murali di Ajanta (V-VI sec.), il p. dell'India antica giunge al suo apogeo; servendo di sfondo alle scene rappresentate, esso costituisce un legame fra queste e consente ai pittori di riunire più scene su una stessa parete senza limitarle in un contorno rigoroso e rettilineo. Una prospettiva, detta di rotazione, più sottile che non precedentemente, regola le figurazioni di edifici ai quali sono intercalati qua e là delle rocce stilizzate ed elementi vegetali.
Bibl.: v. indiana, arte.
(† R. Grousset - J. Auboyer)
5. Cina. - Si può dire che la pittura cinese di p. sia cominciata durante la dinastia orientale Han (24-220), ma i primi scritti particolari ad essa dedicati risalgono alla fine del V sec. come per esempio il trattato di Tsung Ping. Tuttavia non esistono dipinti di questo periodo. I primi dipinti di p. conservati sono probabilmente dell'inizio del sec. VIII, cioè del periodo centrale dell'età T'ang.
I più famosi maestri che contribuirono allo stabilirsi di stili definiti nella pittura di p. cinese furono Li Sūshsün (651-720), Wu Tao-tzu (circa 700-760) e Wang Wei (698-759), tre maestri tutti molto ricordati nella storia cinese, ma le cui opere sono perdute, tranne forse uno o due dipinti minori di Wang Wei.
La gran fioritura della pittura di p., che seguì alla fine del periodo T'ang (nel sec. IX), si può anche notare in alcuni dipinti di pittori quali Ching Hao, Kuan T'ung, Li Ch'eng e Fan K'uan, Tung Yuan e Chü-jan. Le loro pitture non sono più rappresentazioni descrittive di uno scenario definito. Il loro ideale era piuttosto quello di creare come la natura stessa, o di esprimere le loro idee in forma di montagne, acque ed alberi. Essi trasferirono tutto nella sfera del pensiero creativo, dove i limiti della rappresentazione materiale non han più valore. Lo spazio divenne per essi qualcosa di più che la distanza fra due punti; esso divenne un elemento in cui si manifestavano le loro creazioni, o un simbolo del mondo infinito del pensiero. Essi per primi realizzarono perfettamente gli ideali della pittura cinese di paesaggio.
Bibl.: v. cinese, arte.
(O. Siren)