Vedi PAESTUM dell'anno: 1963 - 1973 - 1996
PAESTUM (Παιστός, Ποσειδωνία, Ποσειδωνιάς, Παῖστον; Posidonia, Paestum)
Oggi frazione del comune di Capaccio, in provincia di Salerno, sui resti della città antica chiamata dai Greci Posidonia e dai Romani Paestum, che si trovava prima nell'Enotria, poi nella Lucania e infine nella III Regione augustea.
Sorge su di un banco roccioso, irregolare e discontinuo, alto al massimo una ventina di metri sul mare, da cui dista circa settecento metri; ma in antico la differenza di quota era un po' maggiore e molto minore la distanza dal mare, prima che per i sedimenti dei numerosi corsi d'acqua e forse anche per bradisismo la piana s'interrasse e la linea di costa progredisse. Questa modesta formazione calcarea, lambita a S dal fiumicello Salso, ha avuto una provvidenziale funzione antisismica, proteggendo dai moti tellurici di venticinque secoli i tre templi, costruiti dai Greci sui punti più solidi ed eminenti della roccia e alla cui suggestiva magnificenza P. deve la sua fama odierna. Nel suo aspetto definitivo la città antica ha assunto in pianta la forma di un pentagono irregolare, allungato da O ad E e cinto da possenti mura, che furono tutte costruite con blocchi di calcare squadrati, ma in età diverse e rimaneggiate a più riprese: il perimetro ha uno sviluppo di m 4750 con una porta in ciascuna delle quattro direzioni principali allo sbocco delle due maggiori strade intersecantisi un po' a S del centro; solo nel tratto verso il mare è visibile la breve parete di roccia, su cui si elevano le mura con le torri e si apre in forte pendio la Porta Marina.
Storia e topografia. I vantaggi della posizione dominante il mare e la piana furono sfruttati dall'uomo fin dalla preistoria, ben prima che arrivassero i coloni in cerca di una patria d'elezione, come dimostrano piccoli strumenti di selce affiorati dagli strati profondi ad oriente della cosiddetta Basilica ed in qualche altro punto. I più antichi sembrano risalire all'Età Neolitica, altri ritrovamenti dimostrano che il luogo era ancora abitato nell'Età del Bronzo ed è perciò probabile che nel periodo eneolitico vi dimorasse la medesima gente, che seppellì i suoi morti in contrada Gaudo un paio di chilometri a N (v. gaudo, civiltà del).
Manufatti d'età paleolitica sono stati riconosciuti ad oriente della città sulle pendici del Monte Soprano, accanto alla strada verso Capaccio Vecchio, mentre nella vasta pianura altre necropoli finora solo saggiate o avanzi messi in luce e danneggiati dai lavori agricoli sulle due rive del Sele (Gromola, Volta del Forno, S. Cecilia, Arenosola) documentano la cultura successiva durante la tarda Età del Bronzo e quella del Ferro fino ai primi contatti con gli immigrati greci.
Non è certo donde provenissero né di che ceppo fossero i fondatori della colonia greca, poiché le notizie vaghe od oscure degli scrittori antichi mal s'accordano fra loro e con le testimonianze dei monumenti, ed inoltre si conciliano a stento con le caratteristiche del luogo e con la storia degli altri stati della Magna Grecia.
Si è generalmente attribuita ai Sibariti la fondazione di Posidonia, interpretando in tal senso i passi tutt'altro che espliciti di Strabone (v, 251) e di una periegesi in versi (Ps. - Scymn., 244 ss.) e, per non smentire il grammatico Solino (ii, 10) che definisce Dori i primi coloni, si è accolto senza riserve il suggerimento del Raoul-Rochette d'identificarli più precisamente con la minoranza trezenia della popolazione di Sibari, espulsa dai preponderanti e prepotenti Achei (Aristot., Pol., v, 2, 10). A favore di questa ipotesi si è addotto il nome di Posidonia (corrispondente a quello primitivo di Trezene), che gli esuli avrebbero imposto alla loro terza sede in memoria della patria d'origine e per fedeltà al culto del loro dio tutelare; e si è inoltre richiamata la menzione in qualche testo tardo di una Trezene in Italia. Pochi anni fa è stata proposta una variante di questa vecchia tesi, facendo derivare da Trezene il toponimo Tresino (monte e punta della costa poco oltre Agropoli), mettendolo in relazione con resti antichi nella stessa area (un muro di terrazzamento di apparecchio isodomico e fosse incavate nella roccia) e così ammettendo che la minoranza espulsa da Sibari si sia rifugiata nel territorio posidoniate, lontano però dalla città, che sarebbe di origine enotria (P. C. Sestieri). Certo la Posidonia greca preesisteva all'eventuale arrivo dei Trezeni-Sibariti, che non può datarsi prima della metà del secolo, poiché Aristotele riferisce il sopruso commesso dagli Achei per presentarlo, moralisticamente, come causa della rovina nel 510 e con ciò prova che i due fatti erano vicini e non separati da un secolare intervallo di gloria e d'espansione.
Una nuova ipotesi (P. Zancani Montuoro) è che i Sibariti abbiano occupato Posidonia solo dopo il 510, offuscando con la celebrità del loro nome quello dei primi coloni, da ravvisarsi nei navigatori, che approdarono alla foce del Sele almeno nella prima metà del VII sec. e che la tradizione chiama Argonauti. Gente forse di lontana origine tessalo-beota, che dopo aver toccato terra per volontà di Hera, alla dea consacrò il luogo dello sbarco da lei prescelto (v. sele, heraion alla foce del) e si scelse poi per dimorare il sito più adatto una decina di chilometri a S del fiume. Di ciò sarebbero indizi la maggiore antichità del santuario come la sua distanza dall'abitato e la diffusione in questo del culto di Hera, ma specialmente le fasi di sviluppo della città e i caratteri della sua monetazione. Anzi che subire dopo il 510 un contraccolpo per la scomparsa di Sibari, come sarebbe stato da aspettarsi in una colonia subordinata alle sorti della metropoli, Posidonia fiorisce e si rinnova con opere che dimostrano l'afflusso di ricchezze e di uno spirito animatore. Anzi che seguire nella coniazione il tipo e il sistema ponderale in uso a Sibari, sia pure per abbandonarli con l'acquisto dell'autonomia, fa esattamente il contrario: all'inizio del V sec. sostituisce ai vecchi incusi con la sola figura di Posidone i due conî a rilievo col toro sibaritico contrapposto all'emblema parlante suo proprio, mentre aumenta il peso dello statere e lo fraziona secondo il sistema acheo. Un'altra prova del trasferimento in massa dei Sibariti dopo il 510 sarebbe da riconoscere nell'ipogeo scoperto nel 1954 e spesso definito tempietto, ma ch'è piuttosto il cenotafio di un eroe e per il suo posto nella città, la cronologia e la ricchezza del corredo potrebbe essere precisamente lo heròon dell'ecista di Sibari, ricostruito dai profughi nella nuova sede per richiamare lo spirito del mitico progenitore ed averlo ancora propizio nel futuro.
Del resto tutti concordano nell'attribuire ai Posidoniati una parte nella fondazione della seconda Sibari cinquantott'anni dopo la rovina. Ma il problema delle origini è di particolare interesse per risalire alle fonti delle forme d'arte, che appaiono nella Posidonia del VI sec., mentre sono ancora ignote così Sibari come la ionica Siri e non si hanno che vaghe nozioni di Taranto e Metaponto nell'età più antica.
I documenti archeologici trovati finora a P. non risalgono oltre il 6oo a. C., ma la città si sviluppò rapidamente in grazia della sua posizione privilegiata sulla costa al punto d'incontro delle principali arterie di comunicazione fra i paesi meridionali, la Campania e l'Italia centrale, e favorita inoltre dalla vicinanza del santuario sul Sele, che attirò molto presto architetti, scultori ed artigiani. Già nella prima metà del VI sec. comprendeva almeno due piccoli templi, di cui si sono trovati i resti (capitelli dorici molto schiacciati e una serie completa di terrecotte architettoniche, notevoli per la struttura, la decorazione ed i segni numerali iscritti sul rovescio) rispettivamente al N ed al S delle due principali aree sacre con i templi maggiori; verso il 550 si arricchisce del grandioso enneastilo e manifesta una crescente vitalità sullo scorcio del VI e durante il V sec. con la costruzione dell'Athenaion (cosiddetto Tempio di Cerere) poco prima del 500 e del tempio di Hera (detto di Nettuno) cinquant'anni dopo, con l'attività sempre più intensa in varî campi della produzione artistica, come risulta specialmente dalla coroplastica, e nel commercio, come bastano a provare le numerosissime emissioni di monete fin dall'inizio della coniazione (550-540 a. C.) e l'importazione di terrecotte e di vasi prima da Corinto e poi dal bacino orientale del Mediterraneo, sia pure per la trafila di altre colonie sulla costa ionica.
L'invasione lucana poco prima del 400 a. C. altera il volto e lo spirito di Posidonia, ma non la soffoca sotto la barbarie, riducendo gli abitanti a querule larve del passato, come poteva far credere il quadro tracciato da Aristosseno di Taranto (ap. Athen., xiv, 31; 632). Dopo l'urto iniziale gli elementi eterogenei si fusero rapidamente, suscitando nuova vitalità nell'organismo della vecchia colonia in declino: nel IV sec. la città fu popolosa ed animata, produsse, esportò ed importò merci ed oggetti d'arte. A questo periodo è da assegnare anche qualche costruzione di grande impegno, quale l'edificio circolare con gradinate (ekklesiastèrion, bouleutèrion o altro) più tardi tagliato dal podio del tempio italico. Fiorisce la ceramica intorno ai nomi di Assteas e Python, mentre si diffonde l'uso degli intonaci dipinti nelle tombe e, se le pitture funerarie rivelano un uso ed un indirizzo d'arte italici non scevri da influssi greci, la ceramografia dimostra la continuità della tradizione classica con una graduale infiltrazione del gusto e dei costumi lucani. Continuano la produzione dei coroplasti e le emissioni della zecca di denominazione greca, l'una e le altre con caratteri di uno stile decisamente conservatore. Né si avvertono gli effetti dello sbarco di Alessandro il Molosso sulle vicine coste e del suo effimero successo sulla coalizione italica (Liv., viii, 17, 9).
Con la deduzione di una colonia di diritto latino nel 273 a. C. i Romani occuparono la città (Liv., Ep., xiv; Vell., i, 14, 7), ne mutarono il nome in Paestum (il più antico documento è la leggenda monetale Paistano, simile a quella di altre monete cosiddette romano-campane della stessa età), forse richiamando il toponimo preellenico analogo a Phaistos. Mutarono, ciò che più conta, l'aspetto non soltanto con singoli edifici, dei quali il tempio su podio presso il Foro rimane oggi l'esempio più vistoso, ma con un generale assetto urbanistico impostato su di un fitto reticolato di strade perpendicolari fra loro, che delimitano insulae rettangolari allungate.
Le fotografie aeree e gli scavi condotti su larga scala nell'ultimo decennio permettono di apprezzare la regolarità della pianta nel suo insieme ed il suo orientamento un po' diverso da quello dei templi e di qualche complesso edilizio, ma lasciano anche vedere parecchie anomalie, che potranno essere spiegate solo con lo studio delle singole strutture e della relativa cronologia. Nelle condizioni attuali è ancora dubbio se la principale arteria longitudinale da Porta Sirena a Porta Marina attraverso il lato meridionale del Foro sia stata tracciata come decumano maggiore o sia stata adattata a fungere da tale e se il cardine massimo (interrotto proprio all'altezza del Foro e che mantenne fino ad età tarda il carattere di Via Sacra) abbia seguìto o meno la vecchia strada delle processioni fra i santuarî interni e verso quello extraurbano sul Sele. Non si può insomma distinguere con certezza quanto della pianta, che oggi appare in luce o traspare nell'aerofotografia, risalga all'età greca e quanto sia da attribuirsi allo schema imposto dai Romani con inevitabili compromessi per riguardo alle opere preesistenti. Né si potranno risolvere molti problemi senza tener conto della cinta murale nel suo insieme, dei suoi diversi tratti e dei suoi rifacimenti, considerando le porte, le posterle e le torri in rapporto con la rete stradale. Mentre si aspetta la pubblicazione sistematica delle mura per stabilirne fondatamente la cronologia, vi è chi afferma che nessuna parte ora visibile sia anteriore al III sec.: ai Romani quindi sarebbe da attribuirsi in massima l'ordinamento e la recinzione del complesso urbano; ma, poiché la parte orientale della cinta priva di torri circolari risulta più tarda del resto, bisognerebbe ammettere che la città si sia molto estesa in questa direzione negli ultimi tempi della Repubblica o sotto l'Impero. Altri ritengono, al contrario, di poter attribuire addirittura al V sec. varî tratti delle mura e riconoscere resti di una cinta ancora più antica.
Certo al momento della deduzione della colonia fu aperta l'ampia distesa del Foro, anche se vi fu inclusa l'agorà: fu costruito il tempio italico, tagliando l'edificio circolare (per adattarlo secondo alcuni a Comitium con l'aggiunta a N della Curia); fu distrutta l'ara originaria del grande esastilo per guadagnare spazio ove essa sorgeva e fu sostituita con un altare più piccolo e più vicino alla facciata. Fu abbassato inoltre il piano di terra nell'area dei due templi maggiori così da scoprirne parte dello stereobàtes e da richiedere l'aggiunta di rampe per l'accesso davanti alle facciate.
I Pestani si mostrarono devoti alla causa di Roma, contribuendo con l'invio di oro, di truppe e di navi a sostenere la capitale nei suoi momenti più critici alla fine del III sec. (Liv., xxii, 36, 9; xxvi, 39, 5; xxxvi, 10, 8; Sil. It., viii, 577 ss.) ed ottennero in cambio speciali vantaggi: una relativa autonomia (nel 90 a. C., P. era ancora prefettura, né sappiamo esattamente quando fu assorbita o divenne municipio) e l'eccezionale privilegio di battere moneta fino all'età di Tiberio.
Gli scavi ancora inediti dell'ultimo decennio hanno rivelato l'importanza superiore ad ogni aspettativa di P. fino alla tarda ctà imperiale, mettendo in luce nei quartieri sud-occidentali edifici pubblici e privati con sale, piscine e porticati, rivestimenti marmorei e in qualche caso i resti di un piano rialzato e persino il riscaldamento celato nello spessore dei muri. Costruzioni in generale più modeste si sono andate moltiplicando anche nelle zone più basse a N e N-O del Foro, talora sovrapponendosi a lastricati stradali. Una notevole caratteristica è la quota bassa a cui sono impostati gli edifici più tardi e ch'è dovuta ai forti dislivelli del banco calcareo: dapprima si sfruttarono i punti più elevati e solo quando fu necessario si costruì anche negli avvallamenti, dove l'acqua tendeva a ristagnare, e si ricorse a complicati sistemi di canalizzazione in profondità, di fogne e di pozzi per renderli abitabili.
Nella chiesa parrocchiale di Paestum, posta a breve distanza di fronte al cosiddetto tempio di Cerere, con lavori recentemente iniziati (febbraio 1962) e tuttora in corso, si stanno mettendo in luce le strutture pressocché intatte di una chiesa paleocristiana nascosta da totali rifacimenti settecenteschi. La forma architettonica dell'edificio si rivela già di un particolarissimo interesse per evidenti richiami a forme orientali, ma se gli ulteriori lavori confermeranno la datazione non più recente della metà del V sec. che sinora sembra doversi assegnare alla basilica paleocristiana pestana, avremmo il documento del primo insediamento cristiano a P., quando il paganesimo, così ricco qui di tradizioni, non doveva essere ancora del tutto spento.
La chiesa è suddivisa in tre navate da colonne sormontate da un fugato d'archi e presenta nel transetto rialzato tracce del primitivo altare: le colonne ed i capitelli della navata e quelli più piccoli del presbiterio sono relativamente omogenei. Saggi di scavo al di sotto del pavimento della primitiva basilica hanno dato materiale arcaico forse appartenente ad una stipe votiva.
L'abbondanza d'acqua insieme col clima mite per le brezze marine d'estate ed i monti a schermo dei rigori invernali rese straordinariamente feconda e amena questa terra: i poeti antichi ne hanno esaltato le piante e i fiori, in ispecie i roseti rifiorenti due volte all'anno. Ma, quando il corso dei fiumi e dei torrentelli non poté più raggiungere liberamente il mare, la pianura, un tempo ricca perché irrigua, divenne una palude malsana e la gente cercò scampo sul monte di Capaccio alla malaria e più tardi all'invasione dei Saraceni. Divenuta presto cristiana, P. fu già nel V sec. sede vescovile: il cosiddetto Tempio di Cerere fu trasformato in chiesa e intorno ad essa si strinse l'abitato fatto a spese degli edifici classici, che furono poi saccheggiati anche dai Normanni a favore di Salerno. È stata tuttavia sfatata (D. Mustilli) la leggenda che P. sia scomparsa e sia stata riscoperta nel XVIII sec.: ridotta a misera borgata nella boscaglia acquitrinosa, in realtà fu dimenticata finché i lavori stradali di Carlo III non richiamarono l'attenzione dei viaggiatori e degli studiosi sui templi miracolosamente sopravvissuti alle ingiurie degli anni e degli elementi.
Culti. Uno dei risultati più sconcertanti degli scavi è la mancanza finora di ogni traccia del culto di Posidone divinità eponima, anche se, com'è stato proposto (P. Zancani Montuoro), un suo santuario sorgeva in funzione di faro per i naviganti sulla sporgenza, dov'è ora Agropoli. La principale area sacra della città greca comprendente i due templi maggiori (detti Basilica e Tempio di Nettuno fin dal '700) e una dozzina di tempietti ed edifici religiosi era dedicata a Hera, come provano gli oggetti delle varie stipi votive ed il nome della dea iscritto su parecchi vasi; da questo recinto proviene anche il blocchetto rotondo d'argento con incisa, in lettere arcaiche, la dedica a Hera protettrice delle armi; un cippo arcaico col nome di Chirone ed altri due simili con poche lettere superstiti attestano tuttavia che vi si praticavano anche altri culti minori. Inversamente le statuette votive della dea con elmo, egida e scudo (V e IV sec. a. C.) e la dedica a Minerva sull'orlo d'un vaso (II sec. a. C.) dimostrano che il presunto tempio di Cerere era un Athenaion, ma alcune altre terrecotte rivelano che Hera si era insinuata anche nell'area sacra settentrionale. Secondo ogni probabilità è ancora lei acclamata come dea bambina (Παῖς) su di una lamina d'argento trovata in una tomba, ed è, anzi, questo l'unico suo epiteto, che ci sia noto (oltre a quello di Argiva, dalla città o dalla nave Argo, per il santuario sul Sele), mentre dalle rappresentazioni fittili e dagli oggetti votivi conosciamo i suoi molteplici aspetti di dea madre universale, rispondente a tutte le aspirazioni umane per la sua virtù di concedere con la fecondità degli uomini e degli animali e con la fertilità dei campi così la nascita come la rinascita nell'Aldilà, il cibo per la vita e persino il successo in battaglia e nelle gare. Sopra ogni altro prevalse il concetto della fecondità, che nell'età arcaica fu tradotto nell'immagine della dea in trono con un bimbo ed una melagrana e poi con phiàle e frutta; nel IV sec. fu idealizzato nella figura di Ilizia in atto di generare e per la Giunone romana si materializzò nell'offerta votiva di uteri, addomi e gambe femminili e di neonati in fasce in un tempio, oggi diruto, a S del Foro. Già dal VI sec. Zeus appare accanto a Hera e il culto della triade capitolina in età sillana è accertato da una iscrizione monumentale. Qualche bronzetto dimostra la venerazione per Eracle e l'Ercole italico, mentre un gruppo di terrecotte dall'area sacra settentrionale sembra documentare il culto di Venere in età romana; infine anche alla Bona Mens si dedicarono statue, ma ne rimangono soltanto le basi.
Architettura. Ciascuno dei tre templi ancora eretti rappresenta uno dei momenti più significativi nella storia dell'architettura greca e, nella sua relativa completezza, costituisce un caposaldo per l'apprezzamento delle strutture, delle forme e delle decorazioni di altri templi, dei quali non restano che singole parti. Sono tutti costruiti nel calcare locale, che solo nel "Tempio di Nettuno" ha preso una calda patina dorata, forse perché tratto da un'altra cava, mentre per le modanature ed i rilievi si è sfruttata l'arenaria, più tenera e compatta, che meglio si prestava ad essere scolpita e che le vecchie dune della pianura offrivano in abbondanza.
Il grandioso enneastilo (m 24,52 × 54,30 allo stilobate; 9 × 18 colonne nella peristasi; cella bipartita in lunghezza da un filare di 8 colonne, àdyton, e pronao tristilo in antis) con il numero dispari di colonne sulle facciate ed il filare mediano a sostegno del tetto, con la pronunziata èntasis dei fusti ed il corrispondente rigonfiamento degli echini schiacciati rivela a prima vista la sua venerabile età. È infatti un modello dell'architettura dorica occidentale intorno alla metà del VI sec., né si può abbassarne la data, com'è stato proposto, anche se la costruzione si prolungò per parecchi anni e il progetto subì qualche variante nel corso dell'esecuzione. I principî che regolano l'opera rispondono allo spirito dell'arte arcaica: accuratissime osservazioni parziali e relativa negligenza per il risultato d'insieme, così nelle strutture come nelle forme. Le membrature portanti sono rese nella pietra quasi materia viva o elastica, sensibile allo sforzo e che s'inturgidisce, s'inflette e s'inarca nel sopportare il peso; i capitelli hanno una caratteristica gola, che s'interna rispetto al diametro minimo del fusto, decorata da foglie, e anuli diversi scolpiti sugli echini; quasi tutti quelli sulla facciata occidentale sono inoltre arricchiti da antemi a rilievo (palmette, fiori di loto, rosette, foglie), che negli altri casi dovevano essere rappresentati con i colori. Alla modulata curva degli echini delle colonne corrisponde quella inversa dei tipici capitelli delle ante, che per gli esili rocchelli ai lati richiamano piuttosto l'ordine ionico. L'influsso ionico è anche più evidente nelle modanature, che coronano l'architrave e coronavano il fregio di metope e triglifi oggi perduto, e in generale nella profusione degli ornati anche minuti, che tuttavia non producono dissonanze nella imponente austerità delle strutture doriche. All'enneastilo si attribuiscono due successive sime di terracotta con ornati dipinti e piccole protomi leonine (in funzione di gronde solo nel tipo più tardo); inoltre frammenti di una grondaia ancora più antica con fiori di loto a rilievo e infine qualche pezzo di rivestimento fittile, troppo frammentario per essere ricostruito.
L'Athenaion (m 14,54 × 32,88; 6 × 13 colonne nella peristasi; pronao tetrastilo prostilo molto allungato con una seconda colonna in profondità e una semicolonna d'anta, anteriormente allineata con la terza colonna della peristasi laterale), elegante nel suo insieme relativamente slanciato, è frutto dell'arcaismo maturo, ossia del periodo di transizione all'età classica (510-500 a. C.), quando la ricerca di rapporti più razionali fra gli elementi della pianta e dell'elevato produceva provvisorî risultati di compromesso. Le caratteristiche più appariscenti sono ancora quelle dell'enneastilo, attenuate e modificate dall'esperienza e dalla trasformazione del gusto di parecchi decennî: i capitelli "achei" molto meno schiacciati hanno nella gola poco incavata la decorazione di foglie scolpite con un tondino aggettante sopra e sotto; nel fusto le scanalature sono appena approfondite ed il rigonfiamento è ridotto al segno da raddolcire soltanto con una lieve curva la rastremazione. Più decisa è invece l'intrusione dell'ordine ionico nel dorico, poiché alle modanature d'arenaria con ornati scolpiti a coronamento dell'architrave e del fregio si aggiungono i grandiosi capitelli ionici del pronao. Notevoli anomalie sono così la struttura del fregio dorico, fatto di lunghi blocchi di calcare, che comprendono due metope ed incavi al centro ed alle estremità per l'inserzione di esili triglifi d'arenaria, come la mancanza di gèison orizzontale sotto al frontone. La cornice di calcare molto sporgente sui lati e sopra il timpano era decorata da cassettoni e sormontata da una splendida sima d'arenaria con teste leonine di gronda fra palmette e fiori di loto a basso rilievo.
Il grande esastilo, creduto sacro a Posidone e poi riconosciuto di Hera (m 24,31 × 59,89; peristasi di 6 × 14 colonne; cella con pronao ed opistodomo in antis ed all'interno due filari di 7 colonne con sovrapposto un second'ordine più piccolo), è un esempio della maturità dell'architettura dorica nella sua espressione migliore. Il monumento si eleva ancora sostanzialmente completo fra le verdi colline ed il mare, prestandosi al mutevole gioco della luce, quasi un prodigio per lo studioso assetato di conoscenza come per il viaggiatore alla ricerca d'impressioni di bellezza. Superati tutti i compromessi e le incertezze, l'edificio è ormai un complesso unitario, una sintesi organica di parti, a loro volta formate da elementi inscindibili e tutti concorrenti all'insieme. Fusto, echino ed abaco compongono senza fratture ogni singola colonna, tesa a sostenere con tutte le altre la trabeazione che, numericamente perfetta nei rapporti architrave-fregio-cornice, culmina senza discontinuità nel triangolo del frontone. Ma per ottenere l'armonia delle proporzioni e conseguire il risultato totale l'architetto è ricorso ai più sottili accorgimenti, alterando le misure e distorcendo i profili perché quelle apparissero eguali e questi regolari nonostante le deformazioni della prospettiva, la diversa entità ed incidenza della luce ed i diversi punti di vista. In altri termini si sono qui riconosciute (Fr. Krauss) le linee o curve di correzione prospettica verticali ed orizzontali non meno raffinate che nel Partenone, benché taluni particolari facciano considerare questo tempio anteriore di qualche anno (460 a. C.). Il conflitto angolare, cui si erano date anche a P. soluzioni di compromesso, è qui risolto, lasciando immutata la larghezza degli elementi del fregio anche agli angoli e riducendo fortemente gli ultimi due interassi sui lati e quello estremo sulle facciate. Nessun resto della sima-grondaia né alcuna traccia di decorazione scolpita: nella generale policromia dell'edificio le metope ed i timpani frontonali, certo colorati, potevano anche essere decorati con rappresentazioni dipinte.
Vi sono resti più o meno abbondanti di molti altri templi e tempietti principalmente nell'area sacra meridionale ed anche in quella dell'Athenaion, quasi tutti scoperti di recente e quindi inediti. Essi dimostrano una continua attività edilizia - oltre che una religiosità superiore ad ogni aspettativa - dalla prima metà del VI sec. all'età romana e ci potranno dare un quadro straordinariamente ricco delle fasi costruttive in uno stesso ambiente sotto successivi influssi. Si è accennato alle terrecotte (gèison e sima) più arcaiche con ornamentazione incisa e policroma e con particolari eccezionali provenienti da un tempietto a S dell'Athenaion; altri pezzi meno completi sono interessanti per le loro caratteristiche inconsuete, in ispecie adattamenti diversi di figure umane alla decorazione fittile del tempio nella seconda metà del VI sec.: grandi busti femminili con collo e testa di riporto in funzione di antefisse, per tecnica pregevoli, di gusto certo italiota e forse più propriamente tarantino; pezzo angolare di una piccola sima, cui è applicata una figura femminile, forse Iride, in corsa o in volo; frammento di lastra di rivestimento con decorazione figurata plastica, simile a quelle ben note in Eolia ed in Etruria, ma finora estranee al repertorio della Grecia propria e della Magna Grecia. Ne risulta evidente l'influsso diretto o mediato di centri artistici del Mediterraneo orientale su Posidonia, che a sua volta assume l'aspetto di mediatrice verso l'Italia centrale.
Tralasciando tutti gli altri edifici d'ogni età ancora mal noti (teatro, anfiteatro, palestra, ginnasio, terme, erario ecc.), va ricordato il tempio italico sul lato settentrionale del Foro. La costruzione iniziata subito dopo il 273, non fu allora compiuta: ne resta il podio (m 14,59 × 26,78; altezza m 2,98) con l'altare a S e sembra che il progetto prevedesse 6 colonne sulla fronte. Solo in età sillana fu completata la cella con quattro colonne sul davanti ed otto sui lati, e fu aggiunta una gradinata di accesso con in mezzo l'ara. L'insieme ibrido e pretenzioso aveva colonne alte quasi nove metri con basi modanate, scanalature ioniche e capitelli figurati: da un cespo di acanto sopra un astragalo si svolgono le volute angolari fra le quali da ciascun lato è una protome femminile di forme severamente classicheggianti. Sull'architrave un fregio dorico di triglifi e metope, scolpiti a coppie in blocchi di calcare, era coronato da una complicata modanatura con foglie lesbiche e dentelli, su cui sporgeva la cornice con rosoni sormontata dalla sima-grondaia con teste leonine fra ornati floreali. Purtroppo i rilievi figurati delle 17 metope superstiti, quasi tutti con un solo personaggio in movimento vivace, sono spezzati e corrosi ed i loro soggetti per lo più indecifrabili; quanto rimane lascia tuttavia riconoscere schemi della tarda tradizione ellenistica, una estrema rielaborazione di forme predilette fin dal IV sec. nell'Italia meridionale, espresse nel linguaggio degli inizî del I.
Arte figurata. Alla stupenda conservazione dei monumenti architettonici fa riscontro una desolante penuria di sculture ed in genere di grandi opere dell'arte figurata: pochi resti documentano tuttavia l'attività di scultori oltre che di plasticatori a Posidonia fra il VI e il V sec. a. C. e l'importazione di statue di marmo, a quanto sembra, dalla Grecia propria. I due templi esastili non hanno metope scolpite sulla trabeazione esterna e non è probabile che ne avesse il tempio più antico, anche se un rilievo d'arenaria trovato fuori le mura, ed ora esposto nel Museo Nazionale di Napoli, corrisponde per le misure al fregio dell'enneastilo, cui potrebbe però appartenere solo se posto, per restauro, almeno quarant'anni dopo la costruzione. Cronologicamente converrebbe all'Athenaion, ma non possiamo attribuire al pronao ionico un fregio dorico. Vale meglio perciò considerare di pertinenza incerta questa metopa, che rappresenta Europa sul toro in moto verso sinistra, con la testa (come il busto) di prospetto, rigorosamente iscritta nella zona superiore della lastra fra rosette a rilievo. La frammentarietà e la corrosione possono dare la falsa impressione di un maggiore arcaismo, ma i particolari tecnici e stilistici (che rientrano nella corrente di gusto ionizzante largamente diffusa in Magna Grecia) affatto simili a quelli delle Nereidi dal tempio maggiore dello Heraion sul Sele (v.) la dimostrano prodotta dalla stessa bottega posidoniate nella stessa età. Un frammento, che comprende solo i fianchi d'un guerriero con corazza cintata e munita di lunghe falere in doppio ordine (museo di P.) potrebbe appartenere ad un'altra metopa della stessa serie.
Certo da rilievi perduti di calcare o d'arenaria (forse metope da accostarsi per la tecnica a quelle del tempio E di Selinunte) provengono tre teste femminili di marmo insulare grandi metà del vero. Una è rovinatissima; un'altra, di profilo a sinistra, è tagliata in profondità poco oltre la metà del viso per essere inserita nella scultura d'altra pietra; apparteneva ad un'Atena con elmo di bronzo riportato; infine la terza, che si presentava di prospetto, serba intatta la freschezza della lavorazione e meglio rivela nel volto più vivace che idealizzato i caratteri dell'arte italiota già matura (secondo venticinquennio del V sec.): al modellato vigoroso, che delimitando le forme appesantisce i tratti della fisionomia larga e sorridente, si aggiunge la cura della superficie fino ai tenui risalti delle sopracciglia e alle sottili incisioni sulle palpebre.
Più largamente documentata è l'opera dei plasticatori nella seconda metà del VI sec.: ai menzionati busti-antefisse e ad altri pezzi di destinazione architettonica si aggiungono la statua di Zeus in trono (probabilmente da un gruppo con Hera) suggestiva anche per la superstite policromia, quella maschile stante, di minori dimensioni, anch'essa panneggiata ed inoltre calzata con le aderenti endromìdes dalla punta in sù, il gruppo purtroppo incompleto di Europa sul toro ed altri pezzi più frammentarî, che riflettono l'influsso della Ionia d'Asia, su di un terreno fecondato da germi d'origine diversa.
A meglio definire il centro coloniale greco aperto alle diverse correnti si aggiungono alcuni bronzetti, dei quali basterà menzionare i due più noti: entrambi figure femminili, oggi a Berlino, l'una applique d'un oggetto dei primi anni del VI sec., l'altro sostegno di specchio, dedicato da Phillo ad Atena più d'un secolo dopo e che, per la mescolanza di caratteri nella statuetta e l'iscrizione, si dimostra senza dubbio un prodotto locale. Per l'identificazione di un'officina di bronzisti a P. sono di speciale interesse gli otto grandi vasi, che furono trovati alcuni anni fa colmi di miele nell'ipogeo a S-O dell'Athenaion insieme con un'anfora attica a figure nere, 5 lunghi spiedi di ferro e resti di legno, di stoffa e d'una rete di cuoio. A parte il pio intento, che ispirò la costruzione della cella sotterranea e la deposizione del corredo (piuttosto funerario che votivo, come s'è accennato) interessano le forme e la decorazione delle sei idrie e delle due anfore, poiché ad alcuni esemplari più raffinati, che sembrano riferibili alla metallurgia tarantina anche pei particolari di derivazione laconica, se ne affiancano altri meno pregevoli, che potrebbero essere imitazioni locali non posteriori allo scorcio del VI secolo. Senza fermarsi su minuscoli e mediocri prodotti italici, bisogna scendere all'età romana per trovare l'unica statua relativamente grande di bronzo. È una goffa figura silenica, alta poco più d'un metro, che si rinvenne smembrata all'estremità occidentale del Foro e nella quale si è riconosciuto il tipo del Marsia del Foro Romano, noto dalle riproduzioni sui rilievi delle balaustrate traianee e su monete di L. Marcio Censorino (80 a. C. circa): si può perciò completarlo con la destra alzata e la sinistra sul petto a tenere un otre gonfio di vino, che gli gravava sulla spalla sinistra. Simbolo delle libertà cittadine e testimone dello ius italicum a P., è un prodotto altrettanto povero e paesano per tecnica e per arte: consta di cinque pezzi, fusi separatamente, poi sovrapposti e saldati, cui si aggiungevano le braccia e la coda; il corpo privo di struttura e quasi informe culmina coerentemente nel volto inespressivo, cui l'intento d'imprimere i tratti del tipo fissati dalla tradizione classica ha tolto gli accenti più crudi e più sinceri. Il confronto con i tardi busti campani, caratteristici per l'ingenua grossolanità ed il vacuo stupore, e qualche analogia nella forma del cranio e nella partizione delle chiome con alcune teste da capitelli del tempio italico, lo fanno datare nella prima metà del I sec. a. C.
Affatto diverso è il caso per la coroplastica, poiché i numerosi depositi di ex voto hanno fornito negli scavi recenti una straordinaria abbondanza di terrecotte, allargando le conoscenze dei tipi, permettendo di stabilirne la successione cronologica e confermando la provenienza pestana dei numerosi esemplari, noti da tempo ed emigrati in molti musei di tutto il mondo. La produzione s'inizia già prima della metà del VI sec. sulla scorta dei più antichi esemplari importati da Corinto: si rappresenta la dea seduta, plasmando a mano il corpo, il vestito e le parti indispensabili del trono come nastri più o meno larghi d'argilla e limitando alla testa l'uso della matrice; o si modificano a stecca il busto e le braccia, tratti anch'essi dalla forma, per adattarli a rappresentazioni con la lancia nella destra alzata. Notevole una figurina diritta, affatto nuda, con alto pòlos e le mani protese. Verso la fine del secolo, intensificatasi l'importazione di vasi e d'oggetti dalle isole, si ha l'imitazione in genere sciatta e sommaria del tipo ionico seduto con le mani sulle ginocchia. Nel sec. V si moltiplicano le rappresentazioni della divinità in trono con varianti di poco conto negli attributi e nei particolari: all'età dello stile severo appartengono alcuni esemplari, così della dea come di offerenti, di misura maggiore e di gusto arcaizzante. Del resto il tenace attaccamento a forme più antiche è una caratteristica, che perdura e si accentua con l'andare del tempo: molte figure del IV sec. e forse più tarde insieme con i tratti proprî della loro età ne presentano altri anacronistici e, inversamente, si sfruttano ancora i vecchi tipi tradizionali con qualche ritocco, che ne tradisce la data più recente.
Al principio del IV sec. risale la creazione di una tipica forma d'incensiere, che può attribuirsi ai coroplasti pestani e ch'ebbe molta fortuna, prestandosi alle più strane variazioni e diffondendosi rapidamente nell'Italia meridionale, fino a Lipari ed alla Sicilia. È costituito in sostanza da un busto femminile, che emerge da un cespo d'acanto e culmina in un grosso calice di giglio destinato a contenere i grani d'incenso; ma la parte femminile può ridursi alla sola maschera contornata da foglie, fronde e girali o scomparire addirittura, sostituita da un secondo calice rovesciato, che serve da base; al contrario la figura umana talvolta prevale sugli elementi vegetali e si ha un busto panneggiato con la testa velata, da cui sorge insulsamente il fiore. Senza dubbio questa stilizzazione è stata inizialmente suggerita dall'idea d'esaltare ad un tempo la fertilità della terra e la fecondità, ma in seguito è passata nel repertorio e, perduto ogni significato, ha potuto subire ogni sorta di adattamenti. Il grosso fiore sovrastava persino alla figura di Hera-Ilizia (di cui si hanno esemplari particolarmente notevoli dallo Heraion sul Sele [v.]) e si allargava sopra la coppia divina in trono, ergendosi in alto fra loro. In età ellenistica sulle rappresentazioni della dea e delle offerenti, prevalgono le figure femminili di genere, nelle quali peraltro le fedeli di Hera potevano riconoscersi per mettere la loro immagine sotto la sua protezione. Ed ancora fino all'età imperiale si hanno statuette di proporzioni generalmente minori, ma spesso di fattura eccellente, che ripetono e variano i numerosi temi di età ellenistica.
Anche la conoscenza della pittura funeraria lucana si è molto allargata grazie alle scoperte degli ultimi anni e, seguendo le pareti dipinte delle otto nuove tombe esposte nel museo di P., si può valutare la ricchezza cromatica e la sfrenata esuberanza di quest'arte popolaresca molto meglio di quanto non permettessero i resti dell'unica tomba nel museo di Napoli e le vecchie riproduzioni di quelle scomparse. I soggetti si limitano a poche scene della vita del defunto (caccia, commiato di guerriero), ed agli onori funebri che gli vengono tributati (duelli di armati, lotte di pugili, corse di carri spesso sotto la vigilanza di arbitri delle gare e con l'accompagnamento d'un auleta); talvolta sono rappresentati l'esposizione del cadavere, le donne piangenti, il simbolico viaggio verso l'Oltretomba sul carro tirato da muli. L'ispirazione italica è confermata dalla presenza in un caso di un demone fosco e barbato, che armato d'una frusta si avvicina minaccioso al cadavere steso sul letto. D'altronde l'enfasi vivace quanto ingenua di questi pittori, che con rapide pennellate di colore intenso tracciano forme ampie ed approssimative, ottenendo risultati d'immediata efficacia, il loro gusto infantile per i particolari vistosi (come i fiotti di sangue sprizzanti dalle ferite, le lunghe barbe puntute, l'orlatura delle vesti) ne svelano l'indole primitiva, non ancora ammansita dal recente contatto con i Greci. I corredi di ciascuna tomba aiuteranno a classificare e datare le pitture nel corso del IV secolo.
È difficile dire quando sia cominciata a P. l'attività dei ceramisti, ma è molto probabile che già nel VI sec. si formassero vasi più o meno pregevoli d'uso comune: di argilla locale sembrano infatti molte ceramiche del tipo ionico con decorazione a strisce ed anche talune tarde imitazioni della tecnica corinzia. Ma è nel IV sec. che si sviluppa quella scuola di ceramografi e vasai, che non solo produsse largamente per oltre cento anni, accaparrandosi i mercati ed esportando in varie direzioni, ma raggiunse un considerevole livello artistico intorno alla metà del secolo.
Dopo un periodo iniziale, che s'impernia sulla personalità del Pittore di Dirce e dei suoi seguaci a partire dal 380 a. C. circa, si hanno fra il 360 e il 320 i varî gruppi qualitativamente migliori dalle botteghe, in cui firmano le loro opere Assteas e Python; quindi attraverso il periodo di transizione nell'ultimo venticinquennio del secolo (quando si possono ancora identificare alcune personalità, come il Pittore dell'Oreste di Boston) si scende per alcuni decenni nel III sec. con prodotti sempre più trascurati. Gli studî, metodicamente continuati dal Trendall ed alimentati negli ultimi anni dalle abbondanti scoperte, gli hanno consentito di tracciare un quadro sempre più ampio e più preciso dei caratteri della pittura vascolare pestana e dei suoi rapporti con la Campania da un canto e con l'Apulia dall'altro. Tutti i materiali sono nel museo locale che conserva anche le sculture della Foce del Sele.
Bibl.: In generale: H. Riemann, in Pauly-Wissowa, XXII, (Nachträge) 1954, c. 1230 ss., e per la bibl. più vecchia: Fr. Furchheim, Bibl. d. Insel Capri etc., 2a ed., Lipsia 1916, p. 124 ss., e J. Bérard, Bibl. Topogr. d. princ. citées gr., Parigi 1941, p. 79 ss. Per la storia, v. le più recenti opere d'insieme: T. J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford 1948, pp. 24 ss.; 154 ecc.; J. Bérard, La colonisation gr. de l'Italie mér. et de la Sicile, 2a ed., Parigi 1957, pp. 214 ss.; 292; id., L'expansion et la colonisation gr., Parigi 1960, p. 114 ss., nelle quali si troverà la bibl. prec., ed inoltre: P. C. Sestieri, in Arch. Cl., II, 1950, p. 180 ss. e IV, 1952, p. 79; A. Maiuri, in La Parola del Passato, V, 1951, p. 274 ss.; P. Zancani Montuoro, in Arch. Stor. Cal. e Luc., XVIII, 1949, p. i ss.; XIX, 1950, p. 65 ss.; XXIII, 1954, p. 165 ss.; id., in Atti e Mem. Soc. Magna Grecia, N. S., II, 1958, p. 79 ss.; L. Breglia, Le ant. rotte del Mediterraneo, in Rend. Acc. di Archeol. Lett. e B. A. di Napoli, XXX, 1955, passim; D. Mustilli, Prime memorie sulle rovine di P., in Studi in onore di Riccardo Filangieri, III, Napoli 1959.
Pianta della città dalle fotografie aeree: G. Schmiedt-F. Castagnoli, in L'Universo, XXXV, 1955, p. i ss.; J. Bradford, Anc. Landscapes, Londra 1957, p. 218 ss. Mura: Fr. Krischen, Stadtmauern v. Pompeji, Berlino 1941; A. von Gerkan, Zur Stadtlage v. Paestum, in Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni, III, Milano 1955, p. 211 ss. Per notizie delle recenti scoperte in generale: P. C. Sestieri, Paestum, Roma 1950. Culti e documenti epigrafici: principalmente, Arch. Stor. Cal. e Luc., XXIII, 1954, p. 165 ss.; Not. Scavi, 1948, p. 185 ss.; Arch. Cl., IV, 1952, p. 145 ss.; Reallexikon, cit., c. 1233 ss. e 1246 ss., ivi bibl. delle iscrizioni greche e latine.
Per i tre templi greci, a parte le vecchie opere (che hanno ormai solo valore storico e di cui si trovano notizie in Furchheim, op. cit.), ed i recenti manuali di architettura antica (che si basano tuttavia su misurazioni approssimative ed antiquate): Fr. Krauss, Die griechischn Tempel, Berlino 1941, mentre dello stesso autore è in corso di stampa la grande pubblicazione particolareggiata, di cui è finora apparsa la sola prima parte del I vol. Der Athena Tempel, Berlino 1959, oltre a Paestum, Basilika, in Festschrift f. C. Weickert, Berlino 1955, p. 99 ss.; B. d'Agostino, I tre templi maggiori di Poseidonia, in Studi Lucani, I, 1961, p. 3 ss. Per il tempio italico: Fr. Krauss - R. Herbig, Der Korintisch-Dorische Tempel am Forum v. P., Berlino 1939. Metope al Museo Naz. di Napoli: H. Kähler, D. griech. Metopenbild, Monaco 1949, pp. 58 e 104, tav. 52; P. Zancani Montuoro - U. Zanotti Bianco, Heraion alla Foce del Sele, Roma, I, 1951, p. 133 ss., fig. 39; i due bronzetti arcaici: ibid., p. 133, fig. 37 s. Statua fittile di Zeus: P. C. Sestieri, in Boll. d'Arte, 1955, p. 193 ss. Ipogeo: P. C. Sestieri, in Boll. d'Arte, 1955, p. 53 ss.; cfr. Arch. Stor. Cal. e Luc., XXIII, 1954, p. 183 ss.; Revue Arch., XLVII, 1956, p. 97 ss.; Bull. Corr. Hell., LXXXI, 1957, par. 379, n. 2; J. Bérad, op. cit., p. 18. Marsia del Foro: Arch. Anz., 1933, 640 ss., fig. 25 s.; A. Marzullo, in Atti Soc. It. p. il Progresso d. Scienze, V, 1932. Incensieri floreali fittili: M. W. Stoop, Floreal Figurines from South-Italy, Diss., Leida 1960. Per le terrecotte e per gli oggetti del museo di P. v. la cit. guida del Sestieri. Tombe dipinte: F. Weege, Oskische Grabmalerei, in Jahrbuch, XXIV, 1909, p. 99 ss.; A. Marzullo, Tombe dipinte scop. nel terr. pestano, Salerno 1935; A. Maiuri, La peinture romaine, Ginevra 1953, p. 18 ss.; P. C. Sestieri, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, V-VI, 1956-57, p. 65 ss. Ceramica: A. D. Trendall, Paestan Pottery, Londra 1936; id., in Papers Brit. School at Rome, XX, 1952, p. i ss.; XXI, 1953, p. 160 ss.; XXVII, 1959, p. i ss.; P. C. Sestieri, in Boll. d'Arte, 1956, p. 71 ss.; J. D. Beazley, Etruscan Vase Painting, 1947, p. 226 s.; A. Rumpf, Mal. u. Zeichn., Monaco 1951, p. 140 s.
Monete: B. V. Head, Historia Numorum, Oxford 1911, p. 82; S. D. P. Noe, in Amer. Num. Soc. Mus. Notes, V, p. 9 ss., tav.V s.; L. Breglia, op. cit.; P. Zancani Montuoro, in Atti e Mem. Soc. Magna Grecia, cit.; C. M. Kraay, in Num. Chron., 6a S., XVIII, 1958, p. 18 ss., tav. IV.