Vedi PAESTUM dell'anno: 1963 - 1973 - 1996
PAESTUM (v. vol. V, p. 829 e s 1970, p. 571)
Nel 1972 è iniziata, con saggi di scavo, l'esplorazione del foro, organizzata poi in un gruppo di ricerca sistematica sulla topografia e l'urbanistica della città e del territorio nell'ambito di una convenzione italo-francese. Il programma è mirato allo studio delle strutture portate in luce con le indagini iniziate nel 1907, e alla pubblicazione dei risultati in forma di fascicoli riguardanti le diverse unità topografiche della città.
Grazie agli scavi degli anni 1977-78 e 1980 è stata riconosciuta l’agorà della città greca. Si tratta del plateau situato a S dell’Athènaion, ai margini occidentali del quale P. C. Sestieri aveva, nel 1954, riportato alla luce il ben noto sacello-heròon. Proprio lo studio e la riconsiderazione di questo monumento, al cui contesto stratigrafico e urbanistico era stata prestata scarsa attenzione, hanno permesso una diversa lettura delle fasi da cui è caratterizzato: il recinto rettangolare non appartiene alla fase originaria arcaica, ma a un rimaneggiamento databile al III sec. a.C. La convinzione, poi, che si trattasse di un heròon e non di un santuario di Persefone ha suggerito la scelta d'impiantare un cantiere di scavo sullo stesso plateau, ma ai margini orientali. La scoperta dell'edificio circolare, interpretabile come ekklesiastèrion o bouleutèrion fornisce la prova decisiva che la zona era utilizzata come agorà. Nell'area dell'edificio circolare si trova un santuario di età romano-repubblicana, composto da una grande aula rettangolare con portico sul lato Ν e due stanzette sul lato SE, una fontana a S, fuori dal recinto, e un edificio rettangolare orientato N-S. Al di sotto di questi monumenti si trova l'edificio circolare, la cui cavea è scavata nella roccia tenera e rivestita di blocchi di calcare, alcuni dei quali erano ancora in situ. Il monumento (m 35 il diametro massimo; m 10 quello del cerchio più piccolo) sfruttava il pendio roccioso sul lato S, mentre a Ν era stato necessario livellare il terreno; questo evento ha permesso il recupero del materiale ceramico databile all'incirca al secondo quarto del V sec. a.C. Della vita dell'edificio, ovviamente connesso con il funzionamento di pratiche istituzionali difficili da definire in mancanza di documenti, un testimone prezioso è la stele di calcare con iscrizione osca dipinta, sulla quale si legge che Statis (certamente un magistrato) ha dedicato a Jupiter per la grazia ricevuta (brateis datas). L'iscrizione, databile al 300 a.C. circa, prova l'uso pubblico dell'edificio durante l'occupazione lucana della città. Poco dopo, a giudicare dai materiali, il kòilon fu colmato con un grande scarico di pietre, numerosi resti ossei di vitelli (segno eloquente che il luogo è stato purificato) e ceramica non più recente del primo quarto del III sec. a.C.; sul riempimento fu edificato il santuario prima ricordato. Appare plausibile l'ipotesi che sia l'edificio circolare sia il sacello-heròon siano stati obliterati dopo la deduzione della colonia latina nel 273 a.C., quando la città conobbe radicali trasformazioni nella struttura sociale e, a quanto pare, anche nell'impianto urbano.
Conseguenza di questo atto fu la creazione del foro: è significativo che negli strati di fondazione dei più antichi edifici del foro si trovi lo stesso identico materiale che si rinviene negli strati di obliterazione dei monumenti dell'agorà, circostanza che suggerisce, appunto, l'ipotesi di una certa contemporaneità tra l'annullamento del valore politico della piazza che aveva visto il funzionamento delle istituzioni della pòlis tra il VI e il IV sec. a.C. e la creazione del foro. In seguito alle indagini più recenti si osserva che l’agorà si estendeva a S, almeno fino ai margini settentrionali del foro, confinando con il grande santuario poliadico i cui monumenti raggiungevano, invece, il lato S del foro. La piazza pubblica romana fu dunque disegnata in uno spazio, prevalentemente vuoto, al confine tra agorà e santuario, mentre i monumenti che la bordano furono impiantati in modo da invadere un pezzo del tèmenos da un lato e una fascia che era appartenuta all'agorà, dall'altra.
Sul lato S del foro è stata compiuta l'indagine esaustiva degli edifici, databili al III sec. d.C., comunemente indicati come macellum e curia. Sotto quest'ultima, che in realtà è una basilica, è stata rinvenuta la stratificazione più complessa: un tempio greco databile al terzo quarto del VI sec. a.C., rimaneggiato nella prima metà del IV sec. a.C. in modo da sopravvivere, ridotto a un naìskos, solo nella parte corrispondente al pronao; una grande stoà venne a occupare questo versante settentrionale del santuario fino alla metà circa del III sec., quando, con il foro, la stoà fu abbattuta e al suo posto venne creata una «piazzetta» (forse un piccolo mercato) delimitata a E e O da tabernae e occupata, al centro, da una vasca in coccio pesto che conteneva numerosi gusci di ostriche. In età tardo- repubblicana vi fu edificata una basilica a tre navate, poi sostituita da quella del III sec. d.C., che è il monumento più recente.
Sul lato Ν si trovano i monumenti pubblici più importanti: il comitium, sicuramente interpretabile come tale, nonostante i vani tentativi di attribuirlo alla città del IV sec. a.C., è sicuramente databile a epoca di poco successiva all'impianto della colonia latina e fu edificato in forma di cavea completamente circolare, entro analèmmata rettilinei (in modo che, come a Roma, il cerchio fosse inserito entro un rettangolo); di età successiva, ma non meglio precisabile (il II sec. a.C.?) è il tempio dorico-corinzio, un peripteros sine postico che con il suo alto podio tagliò il lato occidentale del comitium. Quest'ultimo edificio fu successivamente rimaneggiato con l'aggiunta di un muro portante che forse reggeva il tabularium e che tagliò anche il lato Ν della cavea. Alle spalle del complesso tempio-comitium, scavi precedenti avevano riportato alla luce una grande natatio, misurante m 47 x 21, racchiusa entro un recinto e interpretata come ginnasio. I saggi di scavo, dopo aver dimostrato che anche questo monumento si inscrive nei programmi architettonici della colonia latina, inducono a una considerazione sulle funzioni dell'area. Si tratta, in realtà, di un grande santuario, nel quale è centrale il rituale connesso con la natatio: si è supposto di identificarvi il recinto sacro di Fortuna Virilis-Venus Verticordia, culto femminile della fecondità e della rigenerazione, fondamentale a Roma dall'epoca di Servio Tullio fino a tutta l'età repubblicana, che veniva praticato probabilmente nella piscina publica situata non lontano dal santuario di Fortuna, nella valle Murcia, tra l'Aventino e il Saxum. Prima del 79 d.C. la natatio fu riempita (Sestieri trovò lapillo vesuviano adagiato sopra il riempimento) e trasformata architettonicamente; sulla base dei vecchi rilievi (i monumenti costruiti sulla piscina andarono distrutti completamente all'epoca dello scavo di questa), D. Theodorescu ha ricostruito due fasi essenziali di un santuario nel quale si propone di identificare il Caesareum.
Scavi recentissimi hanno permesso di arricchire il quadro topografico di altre scoperte assai significative. Due saggi aperti sotto la sede della strada moderna che attraversa da N a S la città, a E del santuario meridionale hanno consentito la scoperta di un tratto del períbolo orientale, sicché si può oggi calcolare in m 250 la larghezza del santuario; esplorazioni condotte a E della strada moderna, in proprietà privata, segnalano un'occupazione urbana della zona in epoca non anteriore al III sec. a.C. Se questi primi elementi dovessero trovare conferma, con le prossime indagini avremmo la prova che Poseidonia, tra il VI e il IV sec. a.C., occupava l'area compresa fra Porta Marina fino allo spazio pubblico agorà-santuario con cui terminava a E, per un'estensione di circa 70 ha, mentre a E furono aggiunti 50 ha per insediare la colonia latina.
In un terreno privato a O dell'area sacra, in seguito a lavori di aratura, è stato riportato alla luce il podio di un tempietto; i saggi in profondità hanno rivelato che questo edificio, databile al III sec. a.C., fu costruito sopra un quartiere di abitazioni del VI-V sec. a.C.
Un quartiere arcaico è stato anche esplorato a O dell’Athènaion; qui le strutture di un'abitazione fornita di cortile e fiancheggiata da una strada orientata N-S risalgono alla seconda metà del VI sec. a.C. La casa e la strada osservano lo stesso orientamento che la città ha mantenuto per tutta la sua storia (difforme da quello dei santuari che diverge di circa 6°); questo dato dovrebbe dimostrare che l'impianto urbanistico conservato a P. risale all'età arcaica.
In un'area situata 200 m a E di Porta Marina è stato identificato il kerameikòs, grazie all'affioramento di un numero altissimo di distanziatori, scarti di fornaci, frammenti di argilla concotta: un saggio di scavo in questa zona ha confermato le ipotesi formulate durante la prospezione in superficie. Il quartiere è in attività durante la seconda metà del IV sec. a.C.
Saggi nelle fondazioni di Porta Marina consentono di datare la prima fase, con le torri circolari, alla fine del IV sec. a.C. e il rifacimento, con i bastioni rettangolari, al III sec. a.C. Altre indagini nella fortificazione hanno riguardato l'angolo NE: qui i bastioni risalgono nel loro primo impianto intorno alla metà del III sec. a.C. (con rifacimenti alla fine del medesimo). Le mura obliterano in questo punto una necropoli del VI-IV sec. a.C. e una strada in terra battuta del V sec.: si rafforza, pertanto, l'ipotesi, che, con la colonia latina, si ebbe un allargamento della città verso E, in termini che potranno essere precisati solo con la continuazione delle esplorazioni.
Intensa è stata anche l'attività di ricerca nel territorio: nel suburbio meridionale la Missione italo-americana diretta da J. Pedley e da M. Torelli ha compiuto indagini nel Santuario di S. Venera: il luogo di culto è frequentato sin dal VI sec. a.C.; conosce una strutturazione radicale nel corso del IV sec. e numerosi rifacimenti nel I sec. a.C., grazie alla munificenza di una nobildonna locale, Valeria Sabina. Il culto era riservato a divinità femminili (probabilmente Afrodite in epoca greca e Bona Dea in età romana).
Un santuario agreste attivo tra la fine del V e la fine del IV sec. a.C. è stato scavato nei pressi del paese di Albanella. A giudicare dalle numerose terrecotte votive era dedicato a Demetra. Ad Artemide erano forse dedicati il tempietto e la stipe votiva riportati alla luce presso le sorgenti del Capodifiume dagli scavi dell'Università di Salerno: anche questo complesso si data al IV sec. a.C., senza sopravvivenze successive.
Nel territorio si trovano riflessi, dunque, i grandi mutamenti della città, soprattutto negli anni cruciali intorno al secondo quarto del secolo. La lettura della restituzione fotografica di una ripresa da satellite ha finalmente consentito di trovare sicure tracce della centuriazione. Da una serie di prospezioni geofisiche (Max Guy) nell'area antistante Porta Marina, ci si attende di poter risolvere il problema della linea di costa antica e quello dell'ipotizzata presenza di un porto nello specchio lagunare davanti alle mura di Paestum.
Bibl.: Oltre ai seguenti volumi: E. Greco, D. Theodorescu, Poseidonia-Paestum, I. La Curia, Roma 1980; II. L'agorà, Roma 1983; III. Forum Nord, Roma 1987, si vedano anche: E. Greco, Ricerche sulla chora poseidoniate: il paesaggio agrario dalla fondazione della città alla fine del sec. IVa.C., in DArch, n.s., I, 2, 1979, p. 7 ss.; id., Qualche riflessione ancora sulle origini dt Poseidonia, ibid., p. 51 ss.; id., Poseidonia entre Vie et IVe siècle a.J.C. Quelques problèmes de topographie historique, in RA, 1979, p. 219 ss.; M. Torelli, C. Cocceius Flaccus senatore di Paestum, Mineia M. f. e Bona Mens, in AnnPerugia, XVIII, 1980-81, pp. 114-115; E. Greco, Iscrizione osca da Paestum, in PP, XXXVI, 1981, p. 245 ss.; E. Greco, D. Theodorescu, Continuité et discontinuité dans l'utilisation d'un espace public: l'exemple de Poseidonia-Paestum, in Architecture et société de l'archaïsme grec à la fin de,la république romaine, Roma 1983, pp. 93-104; W. Johannowsky, J. G. Pedley, M. Torelli, Excavations at Paestum 1982, in AJA, LXXXVII, 1983, pp. 293-303; J. G. Pedley, M. Torelli, Excavations at Paestum 1983, ibid., LXXXVIII, 1984, pp. 367-376; E. Greco, Un santuario di età repubblicana presso il Foro di Paestum, in PP, XL, 1985, p. 223 ss.; X. Lafon, G. Sauron, D. Theodorescu, H. Treziny, La terrasse de Punta Tresino, in MEFRA, XCVII, 1985, 1, p. 47 ss.; M. Bertarelli Sestieri, Nuove ricerche sull'ipogeo di Paestum, ibid., p. 547 ss.; C. A. Fiammenghi, Agropoli: primi saggi di scavo nell'area del Castello, in AnnAStorAnt, VII, 1985, pp. 53-68; E. Greco (ed.), Iprimi scavi di Paestum, Salerno 1986; A. Ardovino, I culti di Paestum antica e del suo territorio, Napoli 1986; AA.VV., Paestum (Città e territorio nelle colonie greche d'Occidente, I), Taranto 1987; E. Greco, D. Theodorescu, in AnnAStorAnt, IX, 1987, p. 217 ss.; M. Cipriani, 5. Nicola di Albanella, Roma 1989; AA.VV., Poseidonia-Paestum. Atti del XXVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto-Paestum 1987, Napoli 1992, passim; D. Mertens, Der alte Heratempel in Paestum, Magonza 1993; J. G. Pedley, M. Torelli, The Sanctuary of Santa Venera at Paestum, I, Roma 1993.
(E. Greco)
Pittura. - La Tomba del Tuffatore, scoperta nel 1968 in località Tempa del Prete, alla distanza di circa 2 km dal lato meridionale delle mura di Poseidonia, rimane l'unico documento di pittura funeraria con scene figurate databile alla prima metà del V sec. a.C. e noto da una città greca. È una pittura a grande scala, eseguita sull'intonaco fresco e realizzata con spazi campiti essenzialmente da un solo colore e circoscritti da linee di contorno che non sempre rispettano i tratti, presenti solo in alcune parti e incisi in precedenza con una punta arrotondata. Lo stile del disegno e lo schema iconografico usato nel rappresentare la scena del simposio che si sviluppa sulle quattro pareti interne della cassa, la avvicinano alla ceramica attica immediatamente successiva alle guerre persiane, ma nello stesso tempo la pittura parla l'identico linguaggio e si pone sul medesimo piano delle imitazioni che di questa ceramica venivano fatte in ambiente etrusco-campano. Inoltre il simposio, pur rappresentato secondo l'iconografia tradizionale attica, viene usato in senso funerario seguendo un atteggiamento mentale che non è proprio delle comunità politiche greche, ma delle élites etrusche e delle comunità periferiche del mondo greco.
Le pitture, di buona qualità ed eseguite con maestria ma con rapidità da due mani diverse, sono correttamente considerate, a venti anni dalla loro scoperta, opera di «artigiani» locali padroni della tecnica pittorica coeva, attestata peraltro a Poseidonia dall'uso del colore come parte integrante dell'architettura templare, ma partecipi delle esperienze radicate in ambito etrusco-campano dalle quali tuttavia si distaccano proprio per la maggiore aderenza ai modelli della ceramica greca. Complessa e intricata rimane la comprensione dell'insieme decorativo di questo monumento quando si cerca di superare il contenuto letterale delle immagini. Indiscutibile è l'esegesi del tuffo come rappresentazione simbolica del passaggio dalla vita alla morte. Partendo da questa interpretazione, di recente si è cercato di cogliere il legame concettuale tra la scena del tuffo e quella del simposio intesi come metafora della morte e del rapimento amoroso (d'Agostino, 1982) o come la rappresentazione di gradi e forme diverse di immersione nel mare della conoscenza (Cerchiai, 1987). La profondità dei significati complica la decifrazione del monumento e lascia aperti numerosi interrogativi quale, p.es., la rispondenza o meno di queste pitture a un simbolismo di tipo esoterico. Punti fermi oltre i quali si dovrà spingere la riflessione sono la non appartenenza della tomba alle necropoli della città é in più l'anomalia del rituale che la contraddistingue. Attraverso un coerente programma decorativo essa sembra voler esaltare un modo tutto individuale di porsi di fronte alla morte, deviante rispetto al modello ufficiale espresso dalla città che, attraverso il connubio simposio-rappresentazione metaforica del passaggio nell'aldilà, lascia intravedere in filigrana l'esistenza, nella stessa città, di altre forme di integrazione.
L'uso di decorare le pareti interne delle tombe con pitture si diffonde in maniera consistente a partire dagli ultimi anni del V sec. a.C., quando i Lucani si impadronirono della città, e dura fino al momento in cui fu fondata la colonia latina. Lo studio analitico dei materiali che costituiscono i corredi delle necropoli pestane ha permesso di fissare una sequenza cronologica cui è ancorata quella delle tombe dipinte. Esse si accompagnano sempre a corredi che più di tutti esibiscono e assommano quantità e qualità di oggetti, dei quali alcuni sembrano assolvere la funzione di segni di distinzione, come il cratere nelle sepolture maschili e l’hydrìa in quelle femminili.
Le tombe dipinte, sia a cassa sia a camera, sono riservate ai membri dei gruppi più eminenti della società pestana; su circa 800 sepolture ascrivibili al periodo relativo all'occupazione lucana della città solo 80 sono decorate da pitture e di queste una cinquantina sono state rinvenute nelle necropoli urbane, mentre le rimanenti appartengono agli insediamenti rurali che nel corso della seconda metà del IV sec. a.C. esplodono in tutto il territorio.
Le tombe dipinte più antiche, databili ancora alla fine del V e ai primi decenni del IV sec. a.C., non hanno scene figurate, ma la decorazione è costituita da elementi geometrici e vegetali che riempiono lo spazio centrale delle lastre scandite in tre zone: alto zoccolo rosso o nero, parte centrale delimitata da una serie di fasce a colori alternati, breve zona superiore decorata con rami di foglie spesso convergenti verso una rosetta centrale. In queste tombe l'intonaco è accurato e di buona fattura e le fasce rivelano la presenza del ductus preparatorio tracciato prima della campitura; anche la decorazione è realizzata con grande cura e tutta la composizione è dominata da rigore geometrico e da un forte senso della simmetria. Gli artigiani che hanno eseguito queste pitture sembrano possedere appieno i mezzi tecnici propri di una tradizione pittorica strettamente collegata alla decorazione di case e monumenti. Questo artigianato così specializzato non può che essersi formato in ambiente greco e i confronti più diretti si hanno con Taranto e Metaponto.
Intorno al 380 a.C. si collocano le prime tombe lucane decorate con scene figurate che fissano un'iconografia piuttosto rigida e ripetitiva che si manterrà quasi inalterata fino al terzo quarto del secolo. Le scene che decorano le quattro lastre di ciascuna tomba non erano accostate casualmente e pertanto esse si pongono come un sistema di segni che riflette l'ideologia della committenza o almeno l'immagine che i membri del ceto dominante volevano dare di sé attraverso il rituale funerario. Sulla base di questi presupposti si è verificato, ed è stato possibile organizzare in sistema, il corpus delle lastre dipinte (Pontrandolfo, Rouveret, 1992).
La scelta delle rappresentazioni sulle lastre, e in particolare quella sulla lastra E, ribadisce la distinzione dei sessi sottolineata dai corredi. Il sistema riservato ai morti di sesso maschile ha nella scena con il «ritorno del guerriero» l'immagine portante accompagnata, sui lati lunghi, da una corsa di bighe, duelli, scene di pugilato, tutti motivi che evocano i giochi funebri. Il cavaliere indossa l'armatura propria dei guerrieri sanniti ed è accolto da una donna in un abbigliamento che possiamo definire pestano e recante una oinochòe nella mano sinistra mentre gli porge con la destra una patera o uno skỳphos. Lo schema iconografico riprende i motivi noti dalla ceramica apula che alludono più sovente, come nella ceramica attica, alla partenza, e lo caricano di un valore allegorico di vittoria cui fa chiaro riferimento il trofeo che il cavaliere reca sulla spalla. Le tombe femminili coeve hanno sui lati lunghi le stesse raffigurazioni di giochi funebri, ma sulla lastra E solo corone e melagrane, motivi decorativi che sono presenti sulla lastra O delle tombe maschili. Nelle sepolture femminili, invece, sulla lastra O spesso compare una scena di caccia al cervo.
Le figure, piuttosto grandi, sono composte accostando testa e braccia a un corpo inteso come un pezzo intero ottenuto con una linea unica. La tecnica usata è molto simile a quella dei ceramisti: pochi cartoni fissi assemblati in modo diverso per variare la posizione delle figure, essenzialmente realizzate attraverso grandi macchie di colore. Maggiore cura nel disegno e una ricerca di perfezione calligrafica, quasi manieristica, nell'esecuzione dei particolari è presente in un numero molto limitato di pitture (p.es. la 271 di Arcioni e la 32 di Andriuolo) che prediligono figure piccole rese con linee nere e quasi prive di tonalità che di solito servono a marcare l'incarnato, uniche macchie di colore il nero dei capelli e il rosso dei motivi decorativi secondari. Questo tipo di decorazione, coevo all'altro, resta circoscritto alla fase iniziale della produzione e non sembra rispondere al gusto dominante della committenza che predilige l'estrema vivacità dei colori.
Intorno alla metà del secolo aumenta il numero delle tombe dipinte che tuttavia rimangono sempre un fatto elitario. L'evoluzione tecnica e stilistica delle pitture segue lo sviluppo della produzione ceramica locale le cui officine ruotano intorno ad Assteas e Python. Ritroviamo lo stesso modo di rendere le capigliature maschili, il bordo dei mantelli, di inquadrare le scene tra volute e semi-palmette, ma soprattutto la capacità di inventare nuovi schemi e di comporli in un insieme organico. I motivi tradizionali vengono organizzati con una sintassi decorativa e narrativa molto più complessa e inoltre vengono create nuove iconografie come la pròthesis, specifica delle tombe femminili, che mette in scena momenti salienti del rituale funebre. Un esempio di freschezza narrativa, quasi «realistica» è dato dalla tomba 47 di Andriuolo dove le scene, attraverso un giuoco di rispondenze e rimandi, costituiscono un vero e proprio discorso.
A partire dal 340 a.C. la produzione risente dell'intensificarsi dei rapporti di P. con l'esterno. Accanto a raffigurazioni di routine, piuttosto sommarie e scadenti, compaiono opere in cui la padronanza dei mezzi pittorici degli esecutori fa pensare a veri e propri artisti influenzati dalle coeve esperienze tarantine e apule. Eccellente è la qualità delle due lastre corte della tomba 53 di Andriuolo, dove ricompare il disegno preparatorio inciso e si arricchisce la gamma cromatica che porta a dipingere in rosa i volti femminili. Si afferma inoltre l'uso delle macchie di colore che rivela la conoscenza della ricerca sul chiaroscuro e si accompagna anche al tentativo di soluzioni prospettiche. Si sviluppa inoltre un linguaggio metaforico che attraverso oggetti (cratere con bouquet) e nuove iconografie (Nike su biga in corsa) tende ad accentuare la celebrazione della vittoria e a esaltare il concetto ellenistico di eroizzazione. Non a caso ora il cavaliere non è più rappresentato in armi ma completamente nudo, da immortale.
Contemporaneamente, accanto a queste pitture che possiamo definire «apulizzanti» ve ne sono molte altre che parlano lo stesso linguaggio delle pitture funerarie campane, a cui sono accomunate dagli stessi schemi incentrati intorno al motivo del «ritorno del guerriero» che sembra quasi assumere il valore di un emblema. Il carattere «italico» di queste pitture può essere esemplificato dalla scena di battaglia raffigurata su una lastra della tomba 114 di Andriuolo dove non è azzardato leggere la volontà di rappresentare un avvenimento reale, anche se non si raggiunge la qualità delle pitture dell'Esquilino.
Le tombe dipinte della fine del IV sec. a.C. si connotano decisamente come italiche, sia negli schemi compositivi sia nel significato delle scene, pur utilizzando mezzi tecnici e simbologia ellenistici. Sono soltanto sei, tutte a camera e tutte rinvenute nella necropoli di Spinazzo, a S delle mura, dove fanno da fulcro alle altre sepolture, a cassa, che si dispongono intorno a esse. Le pitture, monumentali e di buon livello tecnico, mostrano padronanza del disegno e del colore soprattutto nella resa dell'incarnato che presenta pennellate più scure, quasi rosse nelle figure maschili e rosa molto diluito per quelle femminili. L'ombra riportata dietro gli oggetti appesi alle pareti è un chiaro segno della conoscenza delle tecniche usate per riprodurre effetti di luce.
Lo schema delle raffigurazioni è sempre lo stesso anche se cambiano i personaggi: sulla lastra centrale, opposta alla porta di accesso, si trovano due figure affrontate rese nel tipico gesto della dextrarum iunctio; sulle lastre lunghe è rappresentata una teoria di personaggi, sia maschili, sia femminili, e di cavalli incedenti verso la lastra centrale con cui formano un insieme unitario. Gli uomini adulti sono incoronati, indossano tuniche ornate e calzano sandali simili a calcei. È il modo di rappresentarsi di una nuova aristocrazia, simile agli equites campani, concentrata intorno alla figura del capofamiglia rappresentato nella famosissima Tomba del Magistrato nell'atto di esibire l’anulus aureus e quasi identico al personaggio dipinto sulla lastra di una tomba di Capua ora al Museo Nazionale di Napoli. La distinzione dei ruoli per classi di età, palesemente espressa nelle pitture delle tombe di Spinazzo, ribadisce ed esalta l'immagine della famiglia organizzata su una precisa gerarchia. Alla vigilia della fondazione della colonia latina l'aristocrazia pestana si rivela ideologicamente ancorata al mondo campano e partecipe di quella koinè italica che troverà in Roma l'espressione più compiuta.
Bibl.: A. Rouveret, La Tombe du plongeur et les fresques étrusques. Témoignages sur la peinture grecque, in RA, n.s., I, 1974, p. 15 ss.; ead., La tombe du Plongeur à Paestum, in R. Bloch (ed.), Recherches sur les religions de l'Italie antique, Ginevra 1976, p. 99 ss.; W. J. Slater, High Flying at Paestum, in AJA, LXXX, 1976, pp. 423-425; id., High Flying at Paestum. Further Comments, ibid., LXXXI, 1977, pp. 555-557; R. R. Holloway, High Flying at Paestum. A Reply, ibid., pp. 545-555; P. Somville, La tombe du Plongeur à Paestum, in RHistRel, CXCVI, 1979, pp. 41-51; J. L. Lamboley, Note sur la tombe du Plongeur de Paestum, in PP, XXXV, 1980, pp. 383-388; B. d'Agostino, Le sirene, il Tuffatore e le porte dell'Ade, in AnnAStorAnt, IV, 1982, pp.· 43-50 ss.; E. Greco, Non morire in città, annotazioni sulla necropoli del Tuffatore di Poseidonia, ibid., p. 51 ss.; L. Cerchiai, Sulle tombe del Tuffatore e della Caccia e Pesca. Proposta di lettura iconologica, in DArch, V, 1987, 2, pp. 113-123; O. Murray, Death and Symposion, in La parola, l'immagine e la tomba. Atti del Colloquio Internazionale, Cafiri 1983 (AnnAStorAnt, X), Napoli 1988, pp. 239-257; A. Pontrandolfo, L'escatologia popolare e i riti funerari greci, in G. Pugliese Carratelli (ed.), Magna Grecia, III, Milano 1988, p. 171 ss., in part. pp. 181-183. - Per Ie pitture lucane: F. Villard, Les nouvelles tombes peintes de Paestum, in ArcheologiaParis, XXXV, 1970, p. 34 ss.; A. Bottini, E. Greco, Tomba a camera dal territorio pestano, in DArch, VIII, 1974-75) P· 231 ss.; A. Rouveret, L'organisation spatiale des tombes de Paestum, in MEFRA, LXXXVII, 1975, p. 595 ss.; A. Greco Pontrandolfo, Su alcune tombe pestane: proposta di una lettura, ibid., LXXXIX, 1977, p. 31 ss.; ead., Segni di trasformazioni sociali a Poseidonia tra la fine del V e gli inizi del III sec. a.C., in DArch, n.s., I, 1979, 2, p. 27 ss.; W. Wasowicz, Tombes de Paestum et sarcophages grecs, in Φίλιας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, VI, Roma 1980, pp. 2199-2207; E. Corrigan, Lucanian Tomb Paintings Excavated at Paestum 1969-1972: An Iconographie Study (diss.), Ann Arbor 1982; A. Greco Pontrandolfo, A. Rouveret, Ideologia funeraria e società a Poseidonia nel IV sec. a.C., in J.-P. Vernant, G. Gnoli (ed.), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge-Parigi 1982, pp. 299-317; eaed., Pittura funeraria in Lucania e Campania. Puntualizzazioni cronologiche e proposte di lettura, in DArch, I, 1983, 2, pp. 91-130; eaed., Le tombe dipinte di Paestum, Modena 1992; A. Greco Pontrandolfo, Le necropoli dalla àttà greca alla colonia latina, in Poseidonia-Paestum. Atti del XXVII Convegno dì Studi sulla Magna Grecia, Taranto-Paestum, 1987, Napoli 1992, pp. 225-265; A. Rouveret, Les languages figuratifs de la peinture funéraire paestane, ibid., pp. 267-315.
(A. Pontrandolfo)