PAGNINI del Ventura, Giovan Francesco
PAGNINI del Ventura, Giovan Francesco. – Figlio di Paolo e di Costanza di Giuseppe Canigiani, nacque a Volterra, primo di tre fratelli, il 22 giugno 1714. La famiglia apparteneva alla nobiltà locale; decaduta, fu ammessa – anche per il prestigio conseguito da Pagnini – alla nobiltà fiorentina nel 1779.
Educato presso gli scolopi, Pagnini passò al seminario di Volterra, dove acquisì la stima di mons. Gaetano Incontri, futuro arcivescovo di Firenze. Laureato in utroque iure a Pisa sotto la guida di Leopoldo Andrea Guadagni il 20 maggio 1738, si recò poi a Roma per fare pratica forense presso «il celebre avvocato Forti» di Pescia (Novelle letterarie, n. 13, 27 marzo 1789), molto legato agli ambienti di curia. In seguito fu precettore a Genova presso una famiglia britannica, esperienza che contribuì alla sua conoscenza della lingua e alla non comune apertura verso la cultura economica inglese.
Sotto la protezione del conte di Richecourt, Emmanuel de Nay, capo della Reggenza lorenese, venne richiamato a Firenze e nominato nel 1743 segretario di finanze. Nel 1747, come afferma il diarista Giuseppe Pelli, che gli fu amico, ebbe parte importante nella chiamata da Roma di Angelo Tavanti, poi ai vertici dell’amministrazione sino alla prematura scomparsa. Molto legato a Tavanti, che lo appoggiò spesso e che con lui condivise un orientamento filofisiocratico di politica economica, la carriera di Pagnini procedette spedita quale segretario del dipartimento della Direzione generale dei boschi e primo ministro dell’Archivio di Palazzo; quindi, dal 1750, ricoprì la carica di cancelliere della decima granducale, sua sino alla soppressione dell’ente nel 1782. Fu anche segretario della Pratica segreta di Pistoia e Pontremoli e, dal maggio 1769, primo ministro dell’Archivio delle Riformagioni, tra i principali dello Stato toscano contenendosi in esso «tutte le scritture del governo repubblicano fiorentino, le leggi e riforme delle città e luoghi soggetti» (Efemeridi, serie 1, XXIII, p. 188, 16 maggio 1769). Con Tavanti, Tommaso Piccolomini, Antonio Mormorai, Pagnini si trovò così a far parte del nucleo di giovani funzionari, spesso di origini provinciali e non privilegiate, che costituirono la base del potere di Richecourt nella fase centrale della Reggenza.
Le indubbie capacità tecniche e progettuali di Pagnini erano note anche al giovane granduca Pietro Leopoldo: «Cancelliere F. P., uomo di somma abilità nelle materie di finanze ed imposizioni, conosce bene le forze del Paese [...] è da aversi in vista per direttore delle Finanze e vi è da servirsene per una correzzione [sic] di Decima ed il sistema delle imposizioni essendo lui l’unico che l’intenda e sia in stato di farla» (Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, 1773, p. 199). E ancora, circa la gestione dell’Archivio delle Riformagioni: «Primo ministro, Pagnini, uomo abilissimo, di gran talento ed onesto, ben pratico di quegli affari, ottimo per riordinare l’archivio ed intendente di caratteri e carte antiche; amico di cuore di Tavanti, furbo e mescolato in tutte le cose di Volterra, contrario agli ecclesiastici. Vorrebbe la decimazione nuova perché non vi è altro che lui capace di eseguirla. È da aversi in vista per impiegarlo nelle finanze e forse al rifacimento degli estimi, nelle materie feudali ed imposizioni; servirsene di molto per notizie, farlo lavorare, ma non fidarsene; nemico di Pompeo Neri e molto piccoso.» (ibid., p. 127). La valutazione leopoldina mutò, quando Pagnini divenne ai suoi occhi un carattere «intrigante, raggiratore, dubbio».
Pagnini aveva da tempo dato prova delle sue capacità di economista, di storico ed esperto di problemi monetari. Nel 1751, dopo non poche resistenze, aveva pubblicato a Firenze presso Andrea Bonducci i Ragionamenti sopra la moneta, l’interesse del denaro, le finanze e il commercio di John Locke, tradotti e annotati insieme con Tavanti in due volumi. I curatori vi premisero una non formale dedica a Richecourt, nella quale si avverte la condivisione di un progetto politico comune, probabilmente discusso ai vertici del governo. La raccolta comprendeva 32 interventi di Locke, stesi per correggere la politica monetaria di Guglielmo III d’Orange e a favore di una rifusione della monetazione che rispettasse il valore intrinseco del metallo prezioso. I curatori davano conto delle difficoltà dell’impresa, dovuta al linguaggio oscuro e ripetitivo dell’autore; l’ordine originario dei testi era stato mutato per offrire al lettore una trattazione sistematica ai livelli più alti della discussione monetaria del tempo. Ferma restava, però, la fedeltà agli originali nella «cura esattissima che abbiamo avuto nel rendere i sentimenti del nostro autore con quella fedeltà e chiarezza che ci permessero il genere di due lingue tanto diverse, la povertà della nostra nei termini e frasi di commercio, di navigazione e di zecca». La versione da Locke poneva così anche la questione dell’adeguamento dell’italiano ai risultati del dibattito tecnico ed economico europeo. Le copiose note e osservazioni dei traduttori prendevano posto nel secondo volume (pp. 1-116), sotto il titolo Saggio sopra il giusto pregio delle cose, la giusta valuta della moneta e sopra il commercio dei Romani. Come suggerisce Venturi (1969), Locke aveva finito per rappresentare a un tempo una esigenza di scientificità, che fornisse basi sicure alla discussione monetaria, e una voce autorevole a sostegno delle politiche di stabilità monetaria, con esplicita confutazione delle manipolazioni dovute a John Law e delle tesi di Jean-François Melon, moderatamente favorevoli a forme di manovra monetaria. Per contro ogni intervento dall’alto sul valore del circolante doveva essere affidato alla libera contrattazione dei mercanti. Le copiose lodi di Locke, il riconoscimento del suo ammirevole zelo per il bene pubblico si aprivano alla visione più ampia dell’espansione mondiale dei traffici, legata alla Gran Bretagna. Sulla scorta di una estesa conoscenza degli economisti inglesi – da Joshua Gee a John Cary a William Petty, da Bernard de Mandeville a David Hume – e degli storici francesi (Isaac de Larrey, Paul Rapin de Thoyras) nasceva qui l’immagine di una comunità cosmopolita di mercanti soggetta a leggi proprie e intermediaria negli scambi fra le risorse delle nazioni.
All’opposto del mondo moderno, in cui il commercio costituiva lo strumento della libertà e dell’incivilimento, stava nella parte conclusiva del Saggio l’immagine dell’imperialismo e del militarismo di Roma antica, la cui maggiore risorsa per l’acquisizione delle ricchezze era la guerra (p. 54). Sotto accusa non era soltanto «la sfrenatissima voglia di dominare», che rendeva «intrattabili e insopportabili» i Romani alle nazioni alleate o soggette, ma la stessa costituzione di Roma – dall’educazione dei giovani alla religione – e la tradizione giuridica, ancora tanto spesso insegnata dai contemporanei. Le origini della modernità stavano invece, per Pagnini, nella frammentazione medievale dell’Impero romano, che aveva introdotto una maggiore eguaglianza fra le nazioni, cui tenne dietro la scoperta delle arti e delle scienze, in grado di opporre alla conquista «l’industria, le arti e le manifatture» (cit. in Venturi, 1969, p. 482).
La fama di Pagnini resta legata a un grande affresco di storia economica medioevale e moderna, il Della Decima e di varie altre gravezze imposte dal Comune di Firenze. Della moneta e della Mercatura de’ Fiorentini fino al sec. XVI (Lisbona e Lucca [ma: Firenze, Bouchard] 1765-66).
Dedicata al granduca, l’indagine era nata dall’esigenza di chiarire origini e funzionamento del sistema tributario fiorentino al fine di aggiornarlo e riformarlo. Fitta di documenti storici, tratti per lo più dall’Ufficio delle decime, l’opera non rivela interessi antiquari, mentre anche il mito etrusco guadagnava a quei popoli uno sprezzante giudizio di «debolezza, povertà e barbarie». Sulle tracce di Ludovico Antonio Muratori, «padre e maestro della storia universale dei tempi di mezzo», si era reso necessario risalire alle spalle del ’400 poiché il Principato mediceo aveva lasciato sussistere innumerevoli istituzioni repubblicane. Pagnini disegnava così un ampio arco temporale dal 1252 – data di coniazione del fiorino aureo – al 1534, soffermandosi sull’indagine del catasto del 1427 e sull’imposizione della decima (1494), pagata dai cittadini e dagli abitanti del contado e «cardine della finanza fiorentina sino al ’700» (Dal Pane, 1953, p. 160).
L’indagine si divideva in tre parti, la prima rivolta a chiarire origine, struttura economica e organizzazione giuridica della decima; la seconda a delucidare il funzionamento del sistema monetario toscano e ad accertare le variazioni nel valore reale del fiorino d’oro; la terza – storicamente più interessante – a chiarire le cause della lontana floridezza della mercatura fiorentina e della sua successiva decadenza. Il secondo volume conteneva i manuali di pratica mercantile di Francesco Balducci Pegolotti e di Giovanni di Antonio di Uzzano (1442), nella convinzione che più dei testi narrativi tali documenti potessero contribuire alla comprensione del commercio medievale. L’unità del lavoro era data dalla necessità di includere lo studio delle finanze e del commercio entro una prospettiva politica unitaria, volta alla risoluzione pratica dei problemi presenti: prospettiva che Pagnini traeva probabilmente dai Discours politiques di Hume (Amsterdam 1761), da lui spesso citati.
L’esperienza giuridica e amministrativa di Pagnini, insieme con un panorama imponente di letture, lo conduceva ad adottare il criterio dell’uniformità, generalità ed equità dell’imposta come base di una sana economia. Ne conseguiva la necessità di equiparare le condizioni di città e campagne, eliminando le sacche di privilegio che impedivano un gettito tributario proporzionato e razionale. Posizione che schierava Pagnini a fianco dei vertici di governo (‘il partito Tavanti’), ma che lo espose anche a innumerevoli controversie con le famiglie influenti, i luoghi pii e gli ospedali, i patrimoni ecclesiastici: come attestano le numerose filze inedite della sua attività professionale.
Quanto all’andamento di lungo periodo dell’economia fiorentina, in esso si contrapponevano l’ammirazione per il sistema legislativo e tributario favorevoli un tempo alla mercatura e una decadenza marcata dall’ascesa delle potenze atlantiche – l’Inghilterra e l’Olanda in primis – e da fattori interni: i vincoli annonari e il basso prezzo dei viveri per le popolazioni urbane, a scapito dell’agricoltura, e la concentrazione delle manifatture in città con danno delle campagne. Nei nuovi termini di scambio occorreva puntare sull’agricoltura e la sua commercializzazione, secondo una prospettiva che avrebbe fatto di Pagnini un coerente e convinto sostenitore del liberismo frumentario. Favorevole, pur con non poche esitazioni, al principio fisiocratico dell’imposta unica sui terreni, non accolse l’idea di un catasto geometrico-particellare di tipo lombardo, cosa che talvolta lo oppose a Tavanti. Pagnini fu per contro sostenitore dell’aggiornamento e dell’estensione del sistema della decima, affidato a una nuova descrizione delle proprietà e sulle autodenunce dei proprietari, sotto il controllo dell’Ufficio delle decime.
Le affermazioni di Pagnini si appoggiano a un vastissimo panorama bibliografico. A Hume e a Jakob Friedrich von Bielfeld, a Gee e Petty si affiancano Claude-Jacques Herbert e Louis-Joseph Plumard de Dangeul, nonché gli autori della fisiocrazia, di cui fu uno dei più precoci sostenitori: dalla IV, V, VI parte de L’ami des hommes di Victor Riqueti de Mirabeau, alla Théorie de l’impôt (1760), al trattato De la population, alla Philosophie rurale ou économie générale politique sino al Tableau économique di François Quesnay, i testi chiave della fisiocrazia sono ovunque presenti e la loro lettura dovette accompagnare la genesi stessa della ricerca erudita per l’opera maggiore. Mirabeau vi è spesso riassunto o parafrasato, come appare nell’ampia presentazione del Mémoire addressé à la Société économique de Berne, tratto dalla V parte dell’Ami des hommes (II, 160-169). Ad attrarlo verso il marchese furono la proposta delle assemblee provinciali, la difesa a oltranza dei contadini, il rifiuto dei proprietari di qualsiasi intervento amministrativo centrale. Nato dall’esplorazione delle origini medievali degli istituti contemporanei, il Della decima apriva così a proposte innovative, pur se Pagnini non appare un passivo ricettore delle dottrine fisiocratiche, ma se ne serve per delucidare le circostanze concrete.
Se il primo volume del Della decima suscitò «clamori» al suo apparire (Efemeridi, serie 1, vol. XV, p. 11, 8 agosto 1765), la carriera di Pagnini ai vertici dell’amministrazione non ne fu ostacolata. Tra il 1771 e il 1772 fece parte con Pelli, Luigi Tramontani e Ferdinando Paoletti della commissione incaricata dall’Accademia dei Georgofili di rispondere al quesito avanzato dal segretario di finanze, Tavanti, sull’onerosità dei patti colonici e sui tributi dei contadini. In una lucida memoria evidenziò le dure condizioni di vita nelle campagne, sottoposte al pagamento del ‘decimino’ (una imposta personale per testa) e ad altre imposizioni, di cui proponeva di alleggerire i lavoratori. A lui si attribuirono gli Opuscoli interessanti l’umanità e il pubblico e privato bene delle popolazioni e provincie agrarie (1773), articolata e combattiva difesa del liberismo frumentario e della politica leopoldina, avviata alla piena liberalizzazione (1775). Tra il 1773 e il 1775, inoltre, presiedette una commissione incaricata di decidere in materia di libertà di taglio dei boschi alpini. Nel 1774 si oppose, con Federico Barbolani di Montauto, al progetto di Francesco Maria Gianni di affidare direttamente alle comunità la riscossione della decima. Quattro anni più tardi, insieme con Giovanni Neri, Carlo Ippoliti, Giovan Battista Nelli e Barbolani sostenne la necessità di una nuova catastazione, ma avversò l’imposta unica sui fondi perché, a suo giudizio, il tributo avrebbe troppo gravato sui proprietari, con effetti depressivi sull’economia. Ancora nel 1785-1786 entrò in una deputazione per lo scioglimento del debito pubblico insieme con il senatore Antonio Serristori, Neri e Francesco Benedetto Mormorai: operazione poi condotta a termine da Gianni (1788). La sua attività continuò intensa anche dopo la soppressione dell’Ufficio delle decime, quando (1782) fu posto a capo dell’Archivio delle medesime, che ancora all’altezza del 1841 conservava l’ordinamento impostogli da Pagnini.
Morì a Firenze il 29 gennaio 1789.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Reggenza, bb. 224-226, ruoli del 1768; Carte Ceramelli Papiani, b. 3539; Raccolta Sebregondi, b. 3977; Segreteria delle riformagioni, bb. 111-112, 219-220, 248 (con minute e memorie di P. e ordini del Granduca relativi al riordino dell’archivio); Segreteria di finanza anteriore al 1788, b. 1124; Misc. Finanze Dec., XXVIII, ins. XV (anni 1752-57); I-IX, per l’attività specifica dell’Ufficio delle decime; Segreteria di Gabinetto, b. 91, ins. 1, 10, 94 (con importanti memorie di P. sui metodi impositivi); Miscellanea repubblicana, b. 72; Novelle letterarie, 1789, n. 13, Firenze, 27 marzo 1789, coll. 193-198; n. 32, Firenze, 6 agosto 1751, coll. 497-499 (segnalazione della traduzione degli scritti monetari di Locke, proseguita nel n. 42, 15 ottobre 1751, coll. 657-662); Firenze, Biblioteca nazionale, NA 1050: G. Pelli, Efemeridi, serie 1, X, p. 30; XV, pp. 72, 85; XXIII, p. 188; XXVIII, pp. 104 s.; XXIX, pp. 180 s.; serie 2, VI, pp. 936 s.; XIII, p. 2533; XVII, pp. 3268v-3269, 3535v; Lettere a Giuseppe Bencivenni Pelli (1747-1808), a cura di M.A. Timpanaro Morelli, Roma 1976, p. 738; Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, Relazione dei dipartimenti e degli impiegati (1773), a cura di O. Gori, Firenze 2011, pp. 15, 48, 63-65, 127; L. Dal Pane, Uno storico dell’economia nella Toscana del Settecento: G.F. P., in Studi in onore di Gino Borgatta, Milano 1953, pp. 143-169; M. Mirri, Un’ inchiesta toscana sui tributi pagati dai mezzadri e sui patti colonici nella seconda metà del Settecento (Memorie di Giuseppe Pelli Bencivenni, G.F. P., Luigi Tramontani e Ferdinando Paoletti), in Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli, II (1959), pp. 453-489; Id., Per una ricerca sui rapporti fra “economisti” e riformatori toscani, L’abate Niccoli a Parigi, ibid., pp. 55-120; L. Dal Pane, La finanza toscana dagli inizi del secolo XVIII alla caduta del Granducato, Milano 1965, pp. 81-83, 120-134; R. Ciampini, Lettere inedite di Angelo Tavanti all’abate Raimondo Niccoli, in Rivista italiana di studi napoleonici, VII (1968), pp. 111-125; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 479-483 e passim; Id., Scienza e riforma nella Toscana del Settecento: Targioni Tozzetti, Lapi, Montelatici, Fontana e P., in Rivista storica italiana, LXXXIX (1977), pp. 77-105; V. Becagli, Il «Salomon du Midi» e l’«Ami des Hommes». Le riforme leopoldine in alcune lettere del marchese di Mirabeau al conte di Scheffer, in Ricerche storiche, VII (1977), pp. 137-195; C. Amidei, Opere, a cura di A. Rotondò, Torino 1980, pp. 112 s. e passim; M. Mirri, La fisiocrazia in Toscana: un tema da riprendere, in Studi di storia medievale e moderna per E. Sestan, Firenze 1980, pp. 710-712; V. Becagli, Un unico territorio gabellabile. La riforma doganale leopoldina, Firenze 1983, pp. 62 s.; F. Diaz, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino 1988, pp. 01-107, 186, 221, 233; R. Pasta, Scienza, politica e rivoluzione. L’opera di Giovanni Fabbroni (1752 -1822), intellettuale e funzionario al servizio dei Lorena, Firenze 1989, pp. 379 s., 519 s.; M. Verga, Da ‘cittadini’ a ‘nobili’. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano 1990, pp. 249 s.; B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Milano 1991, pp. 117-121, 230-235 e passim; F. Martelli, La ‘consegna’ della decima alle comunità, tra riforma comunitativa e dibattito sul rinnovamento degli estimi, in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna. Atti delle giornate di studio dedicate a G. Pansini... Firenze 1992, I-II, a cura di C. Lamioni, Roma 1994, pp. 365-403; A. Contini, La Reggenza lorenese tra Firenze e Vienna. Logiche dinastiche, uomini e governo (1737-1766), Firenze 2002, pp. 225, 249, 306, 334 s.; A. Contini - F. Martelli, Catasto, fiscalità e lotta politica nella Toscana nel XVIII secolo, in Annali di storia di Firenze, II (2007), pp. 151-185.