CIMA, Pagnone
Figlio di Giovannuccio di Ruggero, fu signore di Cingoli.
Pochissime le fonti documentali che a lui si riferiscono; relativamente diffuse quelle storiografiche, ma quasi mai hanno retto ad una verifica. Di uguale fragilità sono risultate le notizie favorevoli e quelle denigratorie. Particolarmente inattendibili sono apparsi i dati raccolti su di lui dall'Avicenna, nelle Memorie della città di Cingoli. Lo scrittore seicentesco, cliente della famiglia Silvestri antica antagonista dei Cima, seguì la via del falso in funzione diffamatoria per compiacere le smanie nobiliari e di primato cittadino dei protettori, per nulla contenute, anzi rese più temerarie, dalla secolare estinzione del casato avversario.
I Cima, di origine feudale, abbracciando una scelta comune a molti nobili terrierì, si sarebbero inurbati nella seconda metà del sec. XIII e avrebbero intrapreso professioni legali per accrescere il patrimonio e rinverdire il prestigio. L'attività di notaio dell'avo Ruggero indurrebbe ad escludere il possesso del titolo dottorale, da taluno affermato senza prove, forse sul presupposto sbagliato che quella professione lo esigesse. Più credibile il dottorato del padre Giovannuctio che avrebbe ricoperto la carica dì podestà, anche se un suo mandato a Siena nel 1281, ricordato come il più prestigioso, é smentito dalle cronache di quella città. Analoghi incarichi ricoprirono il C. e i figli Giovannuccio, Bartolo e Tanarello.
Nel 1304 Appigliaterra Mainetti, di antica famiglia cingolana e di tendenze ghibelline, con uno stuolo di armati, fra i quali molti di San Sevqrino, entrò nella Terra, sollevò la popolazione, imprigionò il podestà Gualtieri dei Bardi di Firenze, fiduciario della curia rettorile, cacciò i guelfi e tra questi l'intera famiglia Cima che ebbe saccheggiate le case. Rambaldo di Collalto, rettore della Marca, condannò il Mainetti e i complici, ma il 18 giugno del 1306 Gerardo de Tastis, prorettore, in nome di Bertrand de Got, assolse il Mainetti, Cingoli per la sollevazione, San Severino per l'aiuto prestato, stabilendo un risarcimento di 800 fiorini.
Nel 1307 il Comune di Cingoli riformò gli statuti. Dal contenuto si rileva il ritorno della Terra al dominio diretto del papa, il tentativo di dar luogo ad un governo cittadino abbastanza rappresentativo in funzione antimagnatizia. Approvò il nuovo testo il podestà Gentile Brunetti di Morro designato dalla curia rettorile. Tra i venti statutari e i centoventi componenti del Consiglio, scelti dai riformatori, non appaiono né i Cima né i Mainetti.
Nello stesso anno il C. avrebbe militato nell esercito senese impegnato contro i ghibellini di Arezzo. È noto che Napoleone Orsini, legato del papa, scomunicò in blocco i sedicenti guelfi. là del 1308 una sentenza di condanna contro Cualtiero di Francesco e molti altri che di sorpresa, abbattute le porte, erano entrati a Cingoli, avevano, saccheggiato e bruciato il palazzo pubblico, avevano cacciato il podestà Tarabotto di Ancona, cercato di sollevare la popolazione. Allo stesso anno risalirebbe un tentativo guelfo di occupazione guidato dal C. e perseguito dalla scomunica contro i partecipanti emessa da Martino da Fano giudice dei malefici. Taluno fonde l'impresa dì Gualtiero con quella del Cima. Questi, di nuovo esule, l'anno successivo andò in soccorso di Ancona a capo di milizie guelfe raccolte a Montecchio (ora Treia). Nel 1312, evidentemente rientrato, si batté per il recupero di territori sottrattì al Comune da altri confinanti, fra essi Osimo.
Nel 1313 cominciò per il C. un esilio decennale: Appigliaterra Mainetti, se non spinto direttamente da Arrigo VII, certo indotto dalla sua presenza in Italia, rioccupò la Terra in quell'anno e riuscì a mantenerla in soggezione fino agli accadimenti del 1323-24, Nel 134 il C. fu podestà e capitano ad Orvieto; il cumulo delle due cariche nella stessa persona avrebbe rappresentato un espediente temporaneo, protrattosi fino al 1316 e rimosso legislativamente nel 1323, adottato da quel Comune per meglio colpire i ghibellini. Nel 1318 fu podestà a Perugia.
Non è chiaro il ruolo svolto dal C. nell'abbattimento della tirannide del Mainetti e dei figli Piccone ed Andrea: il Litta lo ritiene determinante ricollegando all'impresa una assoluzione di, Amelio de Lautrec, rettore della Marca, riparatrice di precedente condanna pronunciata per motivi di opportunità sotto l'emozione immediata di crudeli vendette. Dell'assoluzione il C. avrebbe preteso conferma direttamente da Giovanni XXII.
Nel documento riportato dal Theiner, risalente al 1327 e relativo al ritorno di Cingoli all'obbedienza pontificia, non c'è riferimento alcuno ai Cima e agli accadimenti che fecero rientrare la ribellione. Risulta però evidente che questa aveva coinvolto oltre ai Mainetti tutti i magistrati e moltissimi cittadini: sicuramente solo un intervento armato. dall'esterno poteva aver ribaltato la situazione. Le trattative avevano avuto inizio nel 1324, come si rileva da atti di quell'anno trascritti nel corpo del documento e tuttora conservati in originale nell'Archivio di Cingoli; rappresentante era stato Matteo Compagnucci, delegati di Giovanni XXII erano stati Gasberto arcivescovo di Arles e il cingolano Francesco Silvestri, promosso vescovo di Firenze l'anno precedente. Costui, secondo l'Avicenna, sarebbe stato un benefattore dei Cima ripagato sempre con ingratitudine.
Nel 1325 ilComune di Cingoli riformò gli statuti: alla solenne promulgazione avvenuta dinanzi al Consiglio generale e di credenza e al podestà Tomasso di Iesi, presenziò anche il C. insieme a Ramberto dei Rollandi, Giacomo di Francesco e Ruggero di Bianco.
Alla venuta di Lodovico il Bavaro in Italia alcuni autori ricollegarono una temporanea conversione del C. alla causa ghibellina, una sua nomina a podestà o capitano di Firenze, l'ottenimento di un vicariato imperiale su Cingoli.
La Colini Baldeschi sostiene che la carica fiorentina non fu mai ricoperta perché il C. non dispose di denaroper pagare l'ufficio; tace tuttavia la data della nomina e dichiara di aver ricavato la notizia da un "Inventario delle carte dei Cima" che registra una lettera, dispersa, scritta per. protesta al Comune di Firenze. L'inventario, del quale l'autrice non fornisce la collocazione o l'appartenenza ed è ricordato, relativamente al C., per questa sola notizia, attualmente è irreperibile. Il Vogel, che riordinò l'Archivio di Cingoli sul finire del '700, indicò nel regesto da lui curaio questo inventario. Lo storiografo meno infido che riferisca sul vicariato dei Cima è il Baldassini, ma colloca l'investitura nel 1342; la concessione, ammesso che risponda al vero, cade in epoca in cui il C. era già morto e al più riguardò i figli.
Vero è che il C. nel 1328militò, remunerato, nell'esercito papale contro i ribelli della Marca. Al 3 maggio 1332risale il più antico documento che attesti tin suo dominio di fatto sulla Terra di Cingoli: con i figli Giovanni e Tanarello e il fratello Ramberto fu presente in posizione di tutto rilievo al Consiglio generale. I Cima erano riusciti a sedare i tumulti esplosi per la presenza a Cingoli di un esattore della Curia, ma in realtà innescati dai fuorusciti decisi a rientrare dalla vicina Apiro.
Nel 1339 i figlidel C., alleati con Camerino e San Severino, fecero una cavalcata contro Matelica, forse d'intesa con gli Ottoni che aspiravano ad insignorirsi della loro città. Il C. morì, verosimilmente a Cingoli, nello stesso anno 1339.
Nell'inchiesta sulla situazione politica della Marca promossa da Benedetto XII e svoltasi nel 1341, risulta confermata la circostanza della morte; i figli Bartolo, Tanarello e Giovanni detengono la Terra senza alcuna investitura; la tirannia si protrae da oltre quindici anni. Quest'ultima indicazione comprova l'ascesa graduale della famiglia al governo cittadino a partire dalla cacciata dei Mainetti e degli altri ghibellini.
Oltre ai figli sopra ricordati il C. morendo avrebbe lasciato Forestiera, eletta badessa del monastero di S. Caterina di Cingolì nel 1340, e Vanni, divenuto rettore della chiesa di S. Lorenzo del Borgo di Port'Acera nel 1350.
Giovanni, podestà ad Ascoli al momento della scomparsa del padre, tornò per ricoprire in patria la stessa carica unita a quella di capitano di guerra. Nel 1347 soccorse gli Anconetani impegnati nell'assedio di Osimo. L'8 genn. 1348 intervenne, ancora col titolo di capitano, ad una alleanza tra Cingoli e Ripatransone. Morì di peste il 31 ottobre dello stesso anno ad Ancona dove tre mesi prima era stato eletto podestà. A succedergli nell'ufficio fu chiamato il fratello Bartolo, definito in un documento cappellano del papa. Sotto la sua podesteria i Malatesta occuparono Ancona; ugual sorte subirà Cingoli. Anche Tanarello sarebbe stato podestà presso vari Comuni. I Cima torneranno ad insignorirsi di Cingoli e ne guideranno le sorti fino al terzo decennio del sec. XV.
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