Vedi Pakistan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica islamica del Pakistan è il secondo paese musulmano più popoloso del mondo, dopo l’Indonesia.
La ‘Terra dei puri’ – questo il significato del nome – è nata ufficialmente nel 1947 sui territori dell’ex British Raj, a seguito della ‘partizione’ postcoloniale del subcontinente indiano.
La sua collocazione geografica, cerniera tra il Medio Oriente e l’Asia meridionale, ne fa uno dei punti nevralgici della politica mondiale. Questi elementi, oltre al fatto di essere una potenza nucleare, concorrono a fare del Pakistan una potenza regionale, pur se di medio rango.
La rilevanza di Islamabad è cresciuta progressivamente nei decenni, in parallelo al crescere di importanza dei paesi vicini e del moltiplicarsi delle crisi nella regione. India e Cina, per quanto riguarda il versante meridionale e orientale, hanno conosciuto una rapida ascesa al rango di potenze economiche mondiali. L’Iran, al confine sud-occidentale, è stato a lungo protagonista di una crisi legata al suo programma nucleare, che sembra essere stata in parte risolta solo nel luglio 2015, con il raggiungimento di un accordo tra Teheran e i Paesi del gruppo P5+1. L’Afghanistan, al confine occidentale, è stato a partire dal 2001 il principale palcoscenico della guerra globale contro il terrorismo islamico.
Le priorità di politica estera del Pakistan riguardano proprio le relazioni con i vicini e sono influenzate dal complesso intreccio di interessi che si addensa in questa regione del mondo. La contrapposizione con l’India domina fin dall’indipendenza l’agenda estera di Islamabad. Alle differenze religiose, etniche e culturali esistenti tra le due nazioni si sono sommati negli anni gli effetti di quattro conflitti armati, di reiterate schermaglie di confine e ancora di una continua corsa agli armamenti, che ha portato entrambi i paesi a dotarsi di arsenali nucleari. Dopo un periodo di disgelo, inaugurato nel 2003, le relazioni tra le due potenze si sono nuovamente infiammate nel novembre 2008 a seguito dell’attentato terroristico all’hotel Taj Mahal, nel cuore di Mumbai, compiuto dal gruppo fondamentalista pachistano Lashkar e-Taiba. A un nuovo allentamento delle tensioni nel 2012, ha fatto seguito il riaccendersi di schermaglie di confine nei primi mesi del 2013. In seguito all’elezione di Narendra Modi alla carica di primo ministro dell’India, i due paesi hanno cercato di rilanciare il dialogo; tale tentativo viene però costantemente messo in discussione dalla disputa aperta sulla regione contesa del Kashmir. Nell’agosto 2014 il governo indiano ha cancellato un incontro con i rappresentanti del ministro degli esteri pachistano, dopo che l’Alto commissario pachistano in India aveva ricevuto un gruppo di leader separatisti del Kashmir. Un nuovo, timido, tentativo di dialogo è stato avviato nel luglio 2015 a seguito del vertice Sco di Ufa, ma i due paesi sembrano ancora lontani dal raggiungere una soluzione duratura alle proprie controversie.
Altro attore regionale con cui Islamabad intrattiene relazioni altalenanti è il Bangladesh, che fino al 1971 costituiva la parte orientale del Pakistan: alle tensioni coincidenti con la sanguinosa guerra civile e con il primissimo periodo postbellico è seguito un progressivo processo di normalizzazione delle relazioni, trainato dalla comune identità musulmana. Con Dacca non mancano tuttavia contenziosi di difficile risoluzione: dall’accertamento delle responsabilità nella guerra del 1971 al trattamento riservato alle rispettive minoranze.
Anche la stretta amicizia che lega Pakistan e Cina si iscrive nelle complesse logiche degli equilibri geopolitici dell’Asia centromeridionale. Nata per via della comune rivalità verso l’India in funzione di copertura strategica, e rinsaldata negli anni della Guerra fredda dalla volontà condivisa di contenere l’Unione Sovietica, l’alleanza sino-pachistana è considerata da sempre a Islamabad valida ‘per tutte le stagioni’ (all weather ally), in quanto si è dimostrata stabile e costante dal 1951 in avanti, anno in cui furono instaurate le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Da allora, Pechino si è affermato come il primo fornitore di armi, ha sempre fornito assistenza militare, economica e tecnica a Islamabad e ne ha sostenuto il programma nucleare. Più controverso e più instabile è invece il rapporto con gli Stati Uniti: ‘amico solo quando c’è bel tempo’ (fair weather friend), come a Islamabad si definisce la relazione con Washington.
Il Pakistan fa parte della South Asian Association for Regional Cooperation (Saarc), la principale organizzazione internazionale della regione. Creata nel 1985 con lo scopo di promuovere una maggiore cooperazione politica ed economica in Asia meridionale, l’organizzazione ha spesso risentito nel suo funzionamento delle forti tensioni tra alcuni dei suoi otto membri, e in primis proprio di quelle tra Pakistan e India. Oltre che della Saarc, il Pakistan è un importante elemento dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oic) e ha con uno dei suoi membri più influenti, l’Arabia Saudita, una partnership economico-culturale e strategica di straordinaria intensità e consolidata tradizione, anche in chiave anti-iraniana. Nel luglio 2015 Islamabad ha ottenuto lo status di membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), ai cui lavori partecipava già dal 2013 come osservatore. Il Pakistan infine aderisce all’organizzazione delle Nazioni Unite fin dalla sua fondazione, e fa parte del Commonwealth. Il paese è stato inserito tra le next eleven economies, le economie che potrebbero emergere nei prossimi anni assieme a Brasile, Russia, India e Cina, così come nel G20 delle nazioni in via di sviluppo.
Il Pakistan è una repubblica parlamentare federale, afflitta da una cronica indeterminatezza tra la sfera militare e quella politico-civile. Se storicamente i militari hanno governato il Pakistan per circa la metà degli anni della sua storia, dalla prima dittatura militare del generale Ayub Khan (1957-68), passando per la seconda retta dal generale Muhammad Zia ul-Haq (1977-88), fino alla presidenza di Musharraf (1999-2007), ancora oggi si può riconoscere un sostanziale duopolio nella gestione del potere politico. Le principali istituzioni elettive, come la presidenza e il parlamento, pur detenendo formalmente la piena sovranità legislativa ed esecutiva, sono de facto sottoposte al forte condizionamento dei vertici militari. Il quartier generale di Rawalpindi, la capitale militare del paese, continua a esercitare un’influenza determinante in tema di politica estera e di sicurezza nazionale così come nella gestione del programma nucleare pachistano.
Il ruolo dei servizi segreti, Inter-Services Intelligence (Isi), che intrattengono un rapporto storicamente ambiguo tanto con l’esecutivo quanto con il resto dell’apparato militare, è uno dei maggiori nodi che complicano il già precario equilibrio nelle relazioni tra civili e militari. Se la visione dell’Isi come ‘stato nello stato’ può apparire eccessiva, è altresì vero che i servizi segreti pachistani, che formalmente rispondono al primo ministro, mantengono un buon margine d’azione indipendente e che il pericolo di una radicalizzazione di alcuni dei loro comparti è considerato fonte di preoccupazione. Se alla precarietà di questo equilibrio si aggiunge la proliferazione di gruppi fondamentalisti interni e la turbolenza di intere regioni del territorio nazionale, dove Islamabad non riesce a dispiegare un controllo capillare ed efficace, si intuisce immediatamente l’incertezza che vige circa il presente e il futuro prossimo del paese.
Il ventaglio dei possibili scenari costantemente al vaglio delle diplomazie di tutto il mondo è davvero ampio: dalla possibilità che il paese si avvii sui binari del consolidamento democratico al rischio che un’implosione del sistema politico-istituzionale trasformi il Pakistan in uno ‘stato fallito’, passando per la possibilità che i militari organizzino un nuovo golpe, trascinando lo stato verso una deriva autoritaria, o ancora che le posizioni politiche radicali possano prevalere, spingendo la democrazia pachistana verso l’islamizzazione. Delle quattro opzioni, quella del consolidamento democratico, sulla quale convergono i maggiori interessi della comunità internazionale e in primis degli attori più coinvolti nell’area, si scontra con molteplici fattori interni, endemici al sistema pachistano, che ne allontanano la piena realizzazione. Tra questi, oltre alla già ricordata delicata coabitazione tra potere civile e potere militare, si registra la sostanziale debolezza dei partiti pachistani, il mancato rinnovamento della leadership politica nazionale, una cronica incapacità dei governi civili nel portare a termine i propri mandati e ancora una corruzione dilagante, che innerva tutti i rami dell’amministrazione. Il fatto che nell’ultimo decennio di governo civile, dal 1988 al 1998, gli esecutivi siano stati guidati alternativamente da Benazir Bhutto (ex leader del Ppp) e da Nawaz Sharif (leader della Pakistan Muslim League, Pml-N, attuale primo ministro), è l’esempio più emblematico delle difficoltà che affliggono la democrazia pachistana. Nel novembre 2013 l’ex capo dell’esercito, ed eminenza grigia della politica pachistana, Ashfaq Pervez Kayani ha ceduto il posto al generale Raheel Sharif, che, a differenza dei suoi predecessori, sembra considerare il terrorismo jihadista, e principalmente i Talebani pakistani, la maggiore minaccia per il paese. Questo cambiamento ha sembrato aprire le porte a una maggiore comunità di intenti tra gli ambienti militari pakistani e quelli civili, e a una maggiore collaborazione con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo nelle aree di confine tra Pakistan e Afghanistan.
Dal punto di vista della politica interna, il Pakistan ha registrato nel maggio 2013, per la prima volta in 66 anni di storia, lo storico passaggio di poteri tra due governi civili democraticamente eletti. Dalle elezioni è emersa vincitrice la Pakistan Muslim League (Pml-N), partito conservatore di centro-destra. Nawaz Sharif, leader del partito e già due volte primo ministro (tra il novembre 1990 e il luglio 1993 e tra il febbraio 1997 e l’ottobre 1999) ha dunque dato inizio al terzo mandato. La Pml-N governa con una solida maggioranza in assemblea nazionale, la Camera bassa, dove detiene 190 seggi su 342 disponibili. Nelle elezioni per il rinnovo di un terzo del Senato, nel marzo 2015, la Pml-N è riuscita a sottrarre molti voti al rivale Ppp, che tuttavia detiene ancora la maggioranza, anche se solo per un seggio.
L’istituzionalizzazione e la sedimentazione delle prassi politiche democratiche è infine messa a dura prova dall’instabilità che caratterizza la società pachistana, attraversata da profondi conflitti etnico-religiosi e fortemente condizionata dal terrorismo politico interno che, specie in anni recenti, non solo ha ripetutamente insanguinato città e regioni del paese, ma ha anche colpito personalità politiche di primissimo piano: dall’ex primo ministro Benazir Bhutto, uccisa nel dicembre 2007 durante la campagna elettorale, al governatore dell’importante regione del Punjab, Salman Taseer, assassinato nel gennaio del 2011 per avere criticato la legge sulla blasfemia, fino al cattolico Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose, caduto per mano di esponenti del fondamentalismo nel marzo del 2011.
Il Pakistan ha una popolazione di più di 180 milioni di abitanti e si colloca ai primi posti nella classifica dei paesi più popolosi. Le condizioni di vita rimangono però ancora molto precarie. Accanto ai problemi di natura sociale, è da considerare l’estrema varietà etnica, che rende difficile un’integrazione tra culture e religioni diverse, soprattutto nelle aree rurali.
La maggioranza dei pachistani, circa il 96%, è di religione musulmana, con minoranze induiste e cristiane. Dietro questa apparente omogeneità la popolazione musulmana risulta tuttavia divisa tra la componente sunnita (circa l’85-90% dei musulmani) e quella sciita, divisione che genera numerose tensioni e violenze.
Il gruppo etnico più numeroso è costituito dai punjabi, circa il 45%, seguiti dai pashtun (15%), dai sindhi (14%) e da altre minoranze come i sariaki e i beluci. Anche a causa di tale ripartizione, l’urdu, lingua ufficiale del paese assieme all’inglese, è parlato solo dall’8% della popolazione, mentre la lingua punjabi, riconosciuta ma non ufficiale, è parlata da quasi metà della popolazione. L’area punjabi risulta anche quella con la maggiore densità di popolazione, con una distribuzione molto varia: si passa dai circa 19 abitanti per chilometro quadrato nel Belucistan ai più di 350 nel Punjab.
La popolazione, che prevalentemente vive lungo il fiume Indo, è per la maggior parte rurale, nonostante il tasso di urbanizzazione sia in costante crescita: attualmente, il Pakistan è il secondo paese dell’Asia meridionale quanto a popolazione urbana, sebbene la percentuale sia comunque bassa (38,3%) se confrontata con quella di altre regioni. Legato al fenomeno dell’urbanizzazione vi è quello della crescita dei grandi centri urbani, come Karachi, prima città del paese, la cui area metropolitana conta circa 23.500.000 abitanti. Tra la popolazione pachistana si registrano forti disuguaglianze sociali e livelli di sviluppo socioeconomico molto bassi. Il sistema di istruzione risulta ancora deficitario e il governo non è riuscito a imprimere al settore un cambiamento in grado di adeguare il paese alle sue necessità strutturali. Gli investimenti pubblici sono destinati in misura maggiore all’istruzione di alto livello, accessibile solo dalle élite al potere, piuttosto che alla scuola primaria e secondaria. In tal modo si incentiva un processo di immobilismo sociale e di arretratezza culturale, come testimoniato dal basso tasso di alfabetizzazione della popolazione. Allo stesso tempo, una simile condizione favorisce il fiorire delle madrase, vale a dire di quei centri di istruzione islamici nei quali si è sviluppato in passato il fondamentalismo religioso.
Anche il sistema sanitario fatica ad adeguarsi a una popolazione così numerosa. Le difficili condizioni socioeconomiche del paese, del resto, sono rese evidenti dal fatto che circa il 55% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. A rendere il quadro più complesso si aggiunge il numero dei profughi, in maniera particolare dall’Afghanistan: il Pakistan è il secondo paese al mondo per numero di rifugiati (circa 1,5 milioni). Sono invece circa 49 milioni i cittadini di origine pachistana che vivono all’estero, soprattutto in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e nel Regno Unito.
Il Pakistan ha assistito per la prima volta nel 2013 al passaggio di poteri pacifico tra due governi civili, lasciando ben sperare per un futuro consolidamento in senso democratico delle istituzioni politiche del paese. Il processo elettorale, d’altro canto, non sembra essere del tutto trasparente e libero, come testimoniato da molti osservatori esterni e come confermato dall’ultima campagna elettorale per le elezioni parlamentari, caratterizzata da un clima di tensione e violenza, che ha portato alla morte più di cento persone.
Il sistema politico pachistano è afflitto da corruzione endemica, con ampie ingerenze dei servizi segreti e dell’esercito. La libertà di stampa risulta limitata e in continuo peggioramento. Sono 56 i giornalisti uccisi in Pakistan dal 1992, con un picco di 14 persone uccise – tra giornalisti, operatori media e blogger – solo nel 2014, anno considerato come il peggiore per la libertà di stampa pachistana.
In alcune zone del paese, soprattutto quelle rurali e di frontiera con l’Afghanistan, alle istituzioni statali si sovrappongono sistemi legislativi e consuetudinari basati su tradizioni locali e sulla religione. Ciò rende tali aree quasi indipendenti da Islamabad. In particolar modo le cosiddette aree tribali di amministrazione federale (Federally Administered Tribal Areas, Fata), a maggioranza pashtun, sono governate da funzionari non eletti, afferenti al sistema tribale locale, che vengono nominati dal presidente, senza l’intermediazione dei partiti politici. Allo stesso modo nel Khyber Pakhtunkhwa, nota in passato come provincia della frontiera del Nord-Ovest (North-West Frontier Province, Nwfp), ha destato preoccupazione il fatto che, nel distretto di Swat, il governo di Islamabad abbia raggiunto un accordo con i gruppi islamisti locali legati ai talebani per permettere l’applicazione della legge islamica (sharia) in quell’area. In alcune aree vi sono ancora tribunali religiosi e negli ultimi anni si sono verificati casi di lapidazione per adulterio. Infine, non solo secondo le usanze locali, ma anche secondo l’ordinamento giuridico dello stato, la blasfemia è considerata un reato punibile con la morte. Il sistema legale tribale vigente in alcuni distretti limita molto anche l’uguaglianza di genere, nonostante a livello istituzionale essa sia garantita dal numero fisso di seggi (60) destinati alle donne in parlamento. Del resto, Benazir Bhutto, ex primo ministro del paese, nel 1988 è stata la prima donna a ricoprire tale carica in un paese musulmano.
Le precarie condizioni di sicurezza che caratterizzano il paese rappresentano un fattore strutturale che incide in maniera negativa sulle possibilità di crescita economica, in particolar modo per quanto riguarda la capacità di attirare investimenti per progetti infrastrutturali. Un’eccezione in questo campo è rappresentata dalla Cina, che ha destinato 46 miliardi di dollari per la costruzione del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cecp). Il Corridoio, che unisce il porto di Gwadat in Pakistan con la provincia cinese dello XinJiang, offrirebbe a Pechino una via alternativa allo stretto di Malacca per i propri commerci. La Cina è anche il primo partner per le importazioni pachistane, seguito da Emirati Arabi Uniti (Uae), Arabia Saudita e Kuwait, dai quali il Pakistan compra petrolio. Pechino è invece il secondo partner di Islamabad per quanto concerne le esportazioni, preceduta dagli Usa e seguita dall’Afghanistan. Anche gli Stati Uniti si confermano un partner economico fondamentale per Islamabad, nonostante una prevedibile diminuzione degli aiuti a seguito del ritiro delle forze internazionali dall’Afghanistan.
Il Pakistan ha l’ambizione di diventare un corridoio di transito tra l’area mediorientale e l’Asia centromeridionale, ma per raggiungere tale scopo deve far fronte alle lacune strutturali che, al di là dell’instabilità politica, riguardano soprattutto l’inefficienza delle infrastrutture. La rete ferroviaria non cresce dal 1998 e il 96% delle merci viaggia su strada. Sebbene siano stati fatti investimenti sul sistema di collegamento stradale, le autostrade costituiscono solo il 4,2% del totale. Il 90% del trasporto avviene però proprio su autostrada e ciò rende evidente il bisogno di un ampliamento delle infrastrutture, soprattutto perché la popolazione, già molto numerosa, continua a crescere con un tasso annuo di circa l’1,6%.
Aiuti internazionali e rimesse in entrata – che nel 2014 sono state pari a 17 miliardi di dollari – rappresentano due delle voci principali dell’economia pachistana. Esse tuttavia non sono sufficienti a compensare gravi problemi strutturali. Oltre alla già citata carenza infrastrutturale, un altro grave problema che condiziona pesantemente l’economia pachistana è la cronica mancanza di energia elettrica, dovuta anche all’incapacità di razionalizzare le tariffe, che rimangono troppo basse rispetto ai costi di produzione dell’energia elettrica.
La struttura economica del paese appare ancora molto sbilanciata a favore del settore primario, dal quale dipendono circa i due terzi della popolazione, nonostante il contributo al pil sia di poco più del 25%. Il settore industriale è il meno sviluppato: quasi totalmente dipendente dal settore tessile, esso risente tanto della concorrenza della Cina quanto dei frequenti periodi di siccità e inondazioni che mettono a dura prova le coltivazioni di cotone. Il settore dei servizi contribuisce invece al 53% del pil; il Pakistan ha una sua eccellenza, sebbene ancora in via di sviluppo, nel campo della tecnologia informatica.
Per risollevare in parte l’economia, Islamabad si sta affidando a un ambizioso programma di riforme. Nel settembre 2013 il Fondo monetario internazionale (Imf) ha dato il via libera a un programma di assistenza finanziaria del valore di 6,6 miliardi di dollari che si concluderà nel 2016, volto in parte a sostenere la bilancia dei pagamenti pachistana, gravata dalla scarsità di valuta straniera nelle casse nazionali. Tra le condizioni poste dall’Imf per il prestito vi sono la riduzione del deficit, il consolidamento fiscale, la liberalizzazione delle norme sugli investimenti esteri in entrata e l’avvio di un serio programma di privatizzazioni. Islamabad si sta adoperando per realizzare le riforme richieste dall’Imf. Il deficit si è in effetti ridotto, passando dall’8,2% del pil nell’anno fiscale 2012/2013 al 5,5% del pil nell’anno fiscale 2013/2014. Nel giugno 2014 il governo ha lanciato un programma di privatizzazione che prevede la vendita di quote di aziende di proprietà statale come la United Bank e la Pakistan Petroleum. Il processo però è estremamente lento, a causa del prevalere degli interessi costituiti. Anche nel campo dell’agricoltura domina un oligopolio di proprietari, legati alle élite di potere e interessati al mantenimento dello status quo, che ostacola il cammino delle riforme.
Il mix energetico pachistano è molto composito, ma per più del 50% dipende dagli idrocarburi: tra questi, il 31% è rappresentato dal gas naturale e circa il 25% dal petrolio. Con una domanda di petrolio in crescita ma una capacità produttiva limitata, il Pakistan è costretto a importare circa 350.000 barili al giorno, prevalentemente dall’Arabia Saudita. Ciò fa sì che l’economia del paese risenta del prezzo del petrolio sul mercato internazionale: quando questo sale, le ripercussioni sulla bilancia sono inevitabili.
Per quanto riguarda il gas naturale, l’obiettivo è accrescere le importazioni sia dai paesi del Golfo, in particolare del Qatar, sia dall’Asia centrale. Il Pakistan, inoltre, è al centro di due progetti di gasdotti regionali, che per motivi geopolitici sono stati, e sono tuttora, oggetto di controversie. Il primo è il cosiddetto ‘gasdotto della pace’, deputato al trasporto di gas naturale dall’Iran all’India. L’impianto passerebbe attraverso il Pakistan (Iran-Pakistan-India, Ipi), dove verrebbero commercializzati 7,5 miliardi di metri cubi l’anno dei 40 trasportati. Mentre il tratto iraniano è già stato pressoché completato, i lavori su quello pachistano stentano a decollare. A pesare, oltre alle pressioni di Washington affinché Islamabad segua l’esempio indiano e abbandoni il progetto, c’è la scarsa disponibilità di fondi nelle casse pachistane. Secondo progetto infrastrutturale regionale che coinvolge il Pakistan è il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (Tapi), che assicurerebbe gas di estrazione caspica. Il progetto, sostenuto dagli Usa e dalla Banca asiatica di sviluppo nella prospettiva di stabilizzazione dell’Afghanistan e di aggiramento dell’Iran, potrebbe consentire un flusso totale di 33 miliardi di metri cubi l’anno, la metà dei quali diretta in Pakistan. Qui è allo studio la possibilità di costruire terminali di liquefazione lungo la costa che permetterebbero a Islamabad di attivare flussi di esportazione della risorsa. Le grosse incognite legate alle precarie condizioni di sicurezza in Afghanistan allontanano però di fatto le possibilità di concretizzare il progetto.
Trattandosi di uno dei paesi più popolosi al mondo, il Pakistan presenta una domanda di energia elettrica molto elevata e in costante crescita. La produzione di elettricità è uno dei maggiori problemi per il paese: a fronte di una crescita della domanda di più del 9% l’anno, la produzione di energia elettrica cresce solo dello 0,6% su base annua e ancora oggi circa il 40% della popolazione non ha accesso all’elettricità, quota che nelle aree rurali raggiunge il 60%. Anche la rete di distribuzione elettrica non è efficiente e gli sprechi ammontano a circa un quarto del totale. A causa della scarsa disponibilità di energia elettrica sono frequenti le interruzioni nell’erogazione dell’elettricità, non sempre pianificate.
L’esercito è uno degli attori più rilevanti della realtà pachistana, sotto diversi aspetti: oltre a detenere il monopolio dell’uso della forza, gestisce importanti risorse di tipo economico, simbolico e politico. In primis, le forze armate pachistane sono titolari di una serie di interessi, prerogative e benefici economici che, cresciuti notevolmente sotto la presidenza di Musharraf, continuano a essere garantiti e tutelati ancora oggi. Secondo alcune stime, il patrimonio dell’esercito ammonta a circa 20 miliardi di dollari, che provengono dal possesso di quasi 5 milioni di ettari di terreno e dalle partecipazioni in varie industrie nazionali, banche e compagnie assicurative. In secondo luogo, l’esercito gode di una forte legittimazione popolare, guadagnata negli anni non solo grazie al ruolo di difensore e garante della sicurezza nazionale – specie in riferimento alla contrapposizione con l’India – ma anche grazie alla reputazione di unica istituzione preservata dalla corruzione. Infine, le forze armate pachistane si ergono a arbitro ultimo della politica nazionale. Da una parte, non è possibile conquistare il governo del paese e mantenerne la direzione e il controllo senza l’appoggio dell’esercito – in quanto unica istituzione presente sulla totalità del territorio nazionale, oltre che importante bacino elettorale con i suoi oltre 640.000 effettivi. Dall’altra, la sua forza e la sua presenza incidono in maniera determinante sulla realizzabilità dei diversi scenari circa il futuro del paese, tanto che sia il rischio di un collasso istituzionale, sia la probabilità di una deriva fondamentalista appaiono scongiurati. Benché il generale Raheel Sharif, al vertice delle forze armate dal novembre 2013, abbia mostrato deferenza verso la leadership politica civile, un ritorno al regime a guida militare non può essere escluso in un paese che ha conosciuto dittature militari per metà della sua storia.
Dalla fine degli anni Novanta il Pakistan è diventato ufficialmente una potenza nucleare: la decisione di dotarsi di armamenti di questo tipo rispondeva alla volontà di Islamabad di controbilanciare la schiacciante superiorità dell’India – che già da venti anni aveva portato a compimento il suo programma atomico – in termini di capacità militari convenzionali e di disponibilità finanziarie da destinare alla spesa per la difesa. Entrambi i paesi non aderiscono al Trattato di non proliferazione, volto a contenere e controllare la diffusione di testate atomiche a livello globale. La dotazione nucleare, che si stima intorno alle 90-110 testate, rende la stabilità del Pakistan una priorità per la sicurezza internazionale, soprattutto per i rischi connessi alla sua gestione in caso di collasso delle istituzioni politiche, o per i rischi connessi al contrabbando e alla vendita di componenti nucleari ad altri paesi o alle reti terroristiche globali.
Per altri versi il paese può essere considerato un sostenitore attivo del multilateralismo: da diversi anni il Pakistan si alterna con Bangladesh, India e Etiopia nel primato mondiale per contributi, per numero di truppe, alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. I maggiori contingenti pachistani sono impegnati nella Repubblica Democratica del Congo, in Costa d’Avorio, in Sudan (Darfur), in Liberia e nella Repubblica centrafricana. Nel 2015 il Pakistan, insieme all’India, ha ottenuto lo status di membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco). L’adesione di Islamabad era bloccata da diversi anni poiché, nonostante il forte sostegno cinese a proprio favore, a mancare era l’assenso della Russia, che vincolava l’accettazione della membership pachistana alla condizione di estenderla anche all’India. Il braccio di ferro diplomatico si è dunque concluso con l’accettazione di entrambi i paesi, annunciata ufficialmente durante il vertice Sco di Ufa (Russia) nel luglio 2015.
A livello interno, permane in Pakistan un’instabilità quasi strutturale, data soprattutto dalla presenza di elementi ostili allo stato, dediti anche alla lotta armata. In particolare, la presenza dei talebani pachistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan, Ttp), gruppo formatosi nel 2007 come ‘costola’ pachistana del movimento talebano nato in Afghanistan, costituisce una minaccia costante per il governo di Islamabad. A questo proposito, nel marzo 2014, il governo ha avviato negoziati con l’organizzazione, ma le trattative si sono presto arenate. Nel giugno dello stesso anno, il Ttp, insieme al Movimento islamico dell’Uzbekistan, ha organizzato un attacco terroristico all’aeroporto internazionale Jinnah di Karachi. A seguito dell’attacco, il governo pakistano ha dato avvio a una massiccia operazione militare nel Nord Waziristan, lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, roccaforte del Ttp, che sembra aver sferrato un duro colpo all’organizzazione. La presenza del Ttp in Pakistan crea problemi anche nei rapporti con gli Stati Uniti, che sono più volte ricorsi a operazioni militari per mezzo di droni per colpire l’organizzazione, causando anche vittime tra la popolazione civile. Dal 2010 (anno del picco) in poi, però, gli attacchi statunitensi in Pakistan sono in costante diminuzione. Nel corso del 2015 è emersa un’ulteriore minaccia: il gruppo fondamentalista Stato islamico (Is) ha dichiarato di aver aperto dei campi di addestramento nella regione del Waziristan. Tale dato è significativo anche e soprattutto perché il Waziristan è il principale bacino di supporto per al-Qaida in Pakistan. L’irrompere dei miliziani di Is sullo scenario pachistano alimenta dunque nuovi dubbi sulle condizioni di sicurezza nel paese e rafforza le preoccupazioni per il sempre forte pericolo di destabilizzazione.
Le relazioni tra India e Pakistan sono state conflittuali fin dall’agosto del 1947, quando Islamabad si costituì nei territori indiani divenuti indipendenti, con l’intento di creare una nazione per tutti i musulmani del subcontinente indiano. Il processo di partizione fu doloroso e costò circa mezzo milione di morti, innescando il trasferimento in massa di milioni di persone e dando origine a diverse controversie territoriali. Tra queste ultime la più rilevante, specie alla luce del livello di conflittualità che ne è scaturito, è quella che interessa il Kashmir: annesso all’Unione indiana per scelta del maharaja indù Hari Singh che lo governava, ma con una maggioranza musulmana, il Kashmir è da allora oggetto di una contesa pluridecennale che conta ben tre guerre (1947-48, 1965 e 1999) e il regolare riaccendersi di episodi di violenza. Entrambi i paesi ne rivendicano la sovranità e attualmente la regione è divisa in tre parti (una amministrata dall’India, una dal Pakistan e la terza dalla Cina), secondo quanto definito dall’Accordo di Simla che concluse il secondo conflitto indo-pachistano.
La contesa sul Kashmir non è tuttavia la sola a mantenere i rapporti tra i due vicini sul livello di massima allerta. Diversi e di differente natura sono i contenziosi che, apertisi negli anni e spesso rimasti irrisolti, alimentano la rivalità e il reciproco sospetto tra i due paesi. Tra di essi, i mancati accordi nella gestione delle risorse idriche in comune, dispute territoriali lungo la frontiera condivisa, costante competizione commerciale e sfere di influenza politica nella regione regolarmente in rotta di collisione, specie per ciò che riguarda le relazioni con l’Afghanistan pre e post talebano.
Sistematiche sono poi le accuse che Islamabad muove a Nuova Delhi: soffiare sul fuoco delle contrapposizioni etniche nella società pachistana, o sostenere gli irredentismi interni ai suoi confini, come quello della regione del Belucistan, con l’obiettivo di minare l’integrità e l’unità della Repubblica islamica. Allo stesso modo gli indiani denunciano il diretto supporto del Pakistan ai gruppi fondamentalisti e jihadisti che operano in India, e sospettano la regia e la responsabilità nei frequenti attentati terroristici che negli anni hanno insanguinato città e regioni indiane. Se rivalità e sospetto sono radicati nelle opinioni pubbliche di entrambi i paesi, i rispettivi punti di vista politici differiscono in maniera rilevante: mentre per Islamabad il rapporto con il suo ingombrante vicino rimane tutt’oggi in cima alle preoccupazioni di politica estera, Nuova Delhi, che si sta affermando tra i protagonisti della scena politica ed economica mondiale, coltiva e gestisce interessi di carattere globale che spostano il focus del proprio raggio d’azione ben oltre le dinamiche regionali. L’India, a differenza del Pakistan, è inserita nel G20 dei paesi industrializzati, vede una numerosissima classe media migliorare ogni anno le proprie condizioni di vita, registra da anni tassi di crescita eccezionali e attira ingenti investimenti da tutto il mondo: tutti dati che distanziano notevolmente sia le preoccupazioni in capo ai rispettivi governi, sia gli interessi e le responsabilità che questi si trovano a dover gestire.
Sono in tanti a non volere, né a potersi permettere, una guerra nel subcontinente e le pressioni sul governo indiano in questo senso sono formidabili: prova ne sia il fatto che l’attentato del 2008 a Mumbai non ha portato a un’escalation militare tra i due paesi, ma ha solo raffreddato il processo di distensione in atto dai primi anni del Duemila. Dai primi mesi del 2011 il dialogo indo-pachistano sembra essere ripartito: sui binari della cosiddetta ‘diplomazia del cricket’, l’allora primo ministro pachistano Yousuf Raza Gilani è stato invitato in India per assistere alla semifinale della coppa del mondo di cricket, sport popolarissimo in entrambi i paesi. L’elezione, nel maggio 2013, di Nawaz Sharif alla carica di primo ministro lascia ben sperare per la ripresa del dialogo tra i due paesi. Durante il suo primo mandato, Sharif era stato infatti l’artefice di un riavvicinamento a Nuova Delhi. Sulle effettive possibilità di un miglioramento nel futuro incombe tuttavia come sempre lo spettro dell’esercito pachistano, che detiene l’ultima parola sulle decisioni di politica estera e di sicurezza nazionale del paese.
Forgiatasi nel pieno della contrapposizione bipolare, la relazione tra Pakistan e Usa è sempre stata caratterizzata da fasi di avvicinamento e da altrettante prese di distanza, spesso in coincidenza con il mutare degli interessi statunitensi nello scacchiere dell’Asia meridionale. Il primo trattato di alleanza tra Pakistan e Usa fu firmato nel 1954: esso si inscriveva nel pieno del clima della Guerra fredda, con la necessità statunitense di contenere la possibile espansione sovietica nell’Asia centromeridionale. Allo stesso periodo risalgono le adesioni di Islamabad a due alleanze di difesa filo-occidentali nella regione, vale a dire la Southeast Asia Treaty Organization (Seato) e la Central Treaty Organization (Cento). Gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, con le due guerre indo-pachistane e il rischio di una corsa agli armamenti nucleari nel subcontinente indiano, portarono alla scelta americana di un taglio unilaterale della relazione e alla conseguente chiusura dei finanziamenti erogati generosamente da Washington negli anni precedenti. L’invasione sovietica dell’Afghanistan del dicembre 1979 obbligò la Casa Bianca a una decisa inversione di tendenza, trasformando il Pakistan nel più naturale e prezioso alleato nell’intento di ostacolare l’Unione Sovietica. Dopo il 1989, dissolta la rigidità degli allineamenti bipolari, le relazioni sono tornate a raffreddarsi per circa un decennio. Gli Usa decisero infatti di condizionare appoggio politico e aiuti economici all’abbandono da parte del Pakistan del programma nucleare. Ma è stata ancora l’invasione dell’Afghanistan, questa volta a opera degli Usa nel 2001, a segnare un cambio di passo tra Washington e Islamabad, rendendo necessaria la collaborazione logistica e operativa del Pakistan: un patto che nel 2004 ha portato l’amministrazione Bush a inserire il Pakistan nella lista dei ‘Major non-Nato Ally’.
L’importanza della rinnovata partnership è stata infine confermata dalla nuova presidenza Obama e dall’elaborazione, da parte degli strateghi di Washington, della cosiddetta strategia dell’AfPak, che esprime tanto la volontà di unificare dal punto di vista operativo i due versanti della Linea Durand (il confine tra Pakistan e Afghanistan), quanto la consapevolezza dell’impossibilità, per l’Alleanza atlantica, di conseguire alcun successo duraturo in Afghanistan senza la stretta collaborazione di Islamabad. Assieme agli aiuti militari e finanziari, il Pakistan ha così visto aumentare anche le pressioni degli Usa per una sua cooperazione più stringente nella lotta contro il terrorismo islamico. Un impegno che non può più permettersi di compiere alcun distinguo tra talebani afghani, talebani pachistani, terroristi di al-Qaida o altri gruppi estremisti operanti nelle regioni di confine, né di alimentare, come spesso in passato, l’idea di un Pakistan impegnato, con una mano, ad appoggiare Washington nella lotta contro il terrorismo globale e con l’altra a finanziare gruppi jihadisti operanti nella regione, convinto della loro utilità strategica in funzione anti-indiana. Gli Usa, inoltre, sono sempre più persuasi della necessità che i loro aiuti finanziari non possano essere destinati solo a scopi militari (e quindi venir utilizzati principalmente in funzione di deterrente anti-indiano), ma debbano essere impiegati anche per rilanciare l’economia nazionale e migliorare lo stato sociale pachistano, completando dunque, parallelamente all’offensiva militare, l’opera di sradicamento dell’estremismo islamico, che trova terreno fertile in regioni povere, degradate e con alti tassi di disoccupazione.
Le relazioni tra Washington e Islamabad sono costantemente sotto i riflettori del dibattito pubblico pachistano e il forte anti americanismo diffuso nella società diventa un argomento rilevante nella competizione politica nazionale. Un sentimento, quello dell’anti-americanismo, alimentato dalle reiterate ingerenze degli Usa nelle dinamiche politiche pachistane (come nella richiesta di una comune gestione dell’arsenale nucleare di Islamabad, soprattutto in caso di attivazione di procedure d’emergenza), dalle frequenti operazioni militari che travalicano il confine tra Afghanistan e Pakistan, condotte tramite l’utilizzo dei droni (velivoli senza pilota impiegati dalla Cia per attacchi mirati contro i terroristi), e dal sospetto destato dalle strette relazioni diplomatiche che Washington intrattiene con l’India. A tali questioni si è aggiunto l’imbarazzo provocato dalla vicenda dell’uccisione di Osama Bin Laden, il leader di al-Qaida, nel maggio del 2011. L’operazione è stata condotta da forze speciali statunitensi presso Abbottabad, città a circa cinquanta chilometri da Islamabad. Il fatto che il terrorista più ricercato dagli Usa si nascondesse proprio in territorio pachistano ha destato sospetti circa l’effettiva collaborazione del Pakistan nella lotta al terrorismo, così come la mancata informazione preventiva dell’azione da parte statunitense ha creato malumori presso il governo di Islamabad. L’episodio, tuttavia, non ha compromesso la cooperazione tra i due paesi, che continua a essere fondamentale nella strategia anti-terroristica di Washington. Tuttavia, la situazione potrebbe subire mutamenti con il ritiro delle forze Usa e Nato dall’Afghanistan, in completamento negli ultimi mesi del 2014. Il Pakistan potrebbe trovarsi a giocare un ruolo di maggior peso per il mantenimento della stabilità nella regione, ma potrebbe anche veder diminuire i cospicui aiuti che Washington versa nelle sue casse. Assieme ai cambiamenti nei flussi economici, potrebbero verificarsi spostamenti anche negli equilibri strategici. Il Pakistan, contrariato delle condizioni imposte dagli Usa per mantenere gli aiuti e contrariato dalla strategia dei droni statunitensi, potrebbe volgersi sempre più verso la Cina, facendo dunque segnare un punto a favore di Pechino nella competizione per la leadership in Asia.
L’Isi (Inter-Services Intelligence) è stato fondato nel 1948 per coordinare le funzioni d’intelligence dell’esercito, della marina e dell’aeronautica. È il più potente e il più noto dei tre servizi pachistani, che comprendono anche l’Intelligence Bureau (Ib) e il Military Intelligence (Mi). L’agenzia ha subìto negli anni alterne fortune, a seconda del rapporto di volta in volta instaurato con gli altri organi dello stato. Negli anni Cinquanta, durante la presidenza di Ayub Khan, l’Isi ha accresciuto il proprio ruolo di controllo dei politici dell’opposizione, ritagliandosi uno spazio sempre più ampio e sempre più a latere delle istituzioni ufficiali dello stato. L’agenzia ha subìto una prima riorganizzazione nel 1966, dopo la pessima performance riportata dall’intelligence durante la guerra con l’India del 1965, e un ulteriore allargamento nel 1969, quando il presidente Khan ha affidato all’Isi il compito di lavorare nelle regioni orientali del paese. Negli anni Settanta, durante il governo di Zulfiqar Ali Bhutto, l’agenzia ha perso parte della sua importanza, soprattutto a causa dell’inappropriata gestione degli eventi che nel 1971 portarono alla partition e alla nascita del Bangladesh. Quando, nel luglio 1977, il generale Zia-ul-Haq realizzò il colpo di stato che lo portò ai vertici del paese, per l’Isi si aprì una nuova stagione. All’agenzia venne affidato, tra gli altri, il compito di raccogliere informazioni sul Partito comunista pachistano e sul Pakistan People’s Party (Ppp). Negli anni Ottanta l’Isi ha ricoperto un ruolo importante nell’addestramento dei mujaheddin afghani, al fianco di Cia e servizi segreti sauditi, all’epoca dell’occupazione sovietica del paese. Dopo il 1994, l’agenzia ha fornito il proprio appoggio ai talebani impegnati nella guerra civile per la conquista di Kabul.
L’Isi, formalmente sotto il controllo del ministero degli interni, risponde di fatto al capo dell’esercito, che detiene l’ultima parola sulle decisioni di politica estera e di sicurezza nazionale, spesso tenendo i vertici politici all’oscuro delle proprie strategie. Fin dalla sua formazione, l’Isi è stato guidato da generali dell’esercito pachistano. A partire dall’ottobre 2014, a capo dell’agenzia vi è il generale Rizwan Akhtar, che ha sostituito Zaheerul Islam, ufficialmente per raggiunti limiti di età.
L’agenzia può contare su circa 10.000 ufficiali e membri dello staff, esclusi gli informatori, il cui numero non è noto. A livello organizzativo, l’Isi è articolato in diverse unità. Tra le principali, il Joint Intelligence Bureau (Jib), responsabile della raccolta delle informazioni provenienti da fonti non riservate, il Joint Counter Intelligence Bureau (Jcib), responsabile del controspionaggio sia all’interno che all’estero, e il Joint Signal Intelligence Bureau (Jsib), al quale è affidata la gestione delle comunicazioni.
Secondo numerosi rapporti di intelligence, l’Isi intratterrebbe relazioni con i principali gruppi terroristici del paese, dai Lashkar-e-Taiba ai Tehrik-i-Taliban Pakistan. Nell’autunno del 2007 è stata condotta una purga anti-terrorista, che ha segnato una parziale presa di distanza dell’organizzazione dai gruppi più estremisti. Tuttavia la linea di confine tra Isi e terrorismo rimane alquanto labile. L’ex capo dell’Isi, il generale Hamid Gui, avrebbe fondato il concilio per la difesa del Pakistan (Difa-i-Pakistan), un gruppo di pressione che riunisce sotto la sua bandiera partiti islamici, gruppi terroristi e organizzazioni integraliste. Alle ultime elezioni, del maggio 2013, il Difa-i-Pakistan ha sostenuto Imran Khan, ex giocatore di cricket che si presentava alle elezioni con un’agenda basata sulla fine della guerra al terrorismo, sullo stop ai raid dei droni americani e sulla repressione delle minoranze religiose.
L’Isi ha una forte influenza anche sul processo politico interno. Negli anni Novanta, lo scandalo Mehrangate ha portato alla luce il coinvolgimento dei servizi segreti pachistani nelle competizioni elettorali attraverso tangenti pagate a uomini politici per assicurarsi la loro fedeltà. Secondo le Nazioni Unite, inoltre, l’Isi sarebbe coinvolto nel traffico mondiale di stupefacenti, dal quale realizzerebbe un guadagno di circa 2 miliardi di dollari l’anno.