Vedi Pakistan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica islamica del Pakistan è il secondo paese musulmano più popoloso del mondo, dopo l’Indonesia. La ‘Terra dei puri’ – questo il significato del nome – è nata ufficialmente nel 1947 sui territori dell’ex British Raj, a seguito della ‘partizione’ postcoloniale del subcontinente indiano.
La sua collocazione geografica, cerniera tra il Medio Oriente e l’Asia meridionale, ne fa uno dei punti nevralgici della politica mondiale. Tale rilevanza è emersa in particolar modo negli ultimi anni, in coincidenza del fatto che i paesi confinanti hanno guadagnato eccezionale importanza dal punto di vista politico, economico e strategico. India e Cina, per quanto riguarda il versante meridionale e orientale, sono state protagoniste di una rapidissima ascesa al rango di potenze economiche mondiali. Afghanistan e Iran, ai confini settentrionali e occidentali, si sono invece ritrovati in cima alla black list del dipartimento di stato americano: il primo come principale palcoscenico della guerra globale contro il terrorismo islamico, il secondo come ultimo imputato dalle diplomazie occidentali in tema di proliferazione nucleare. Tutte le priorità della politica estera del Pakistan, che hanno notevoli ricadute interne, riguardano proprio le relazioni con i vicini e sono influenzate dal complesso intreccio di interessi che si addensa in questa regione del mondo. La contrapposizione con l’India domina fin dall’indipendenza l’agenda estera di Islamabad. Alle differenze religiose, etniche e culturali esistenti tra le due nazioni si sono sommati negli anni gli effetti di quattro conflitti armati, di reiterate schermaglie di confine e ancora di una continua corsa agli armamenti, che ha portato entrambi i paesi a dotarsi di arsenali nucleari. Dopo un periodo di disgelo, inaugurato nel 2003, le relazioni tra le due potenze si sono nuovamente infiammate a seguito dell’attentato terroristico del novembre 2008 all’hotel Taj Mahal, nel cuore di Mumbai, compiuto da un gruppo fondamentalista pachistano (Lashkar e-Taiba). Nuova Delhi ha puntato direttamente il dito contro Islamabad. A un nuovo periodo di disgelo, avviato nel 2012, ha fatto seguito il riaccendersi di schermaglie di confine nei primi mesi del 2013.
Altro attore regionale con cui Islamabad intrattiene relazioni altalenanti è il Bangladesh, che fino al 1971 costituiva la parte orientale del Pakistan: alle tensioni coincidenti con la sanguinosa guerra civile e con il primissimo periodo postbellico è seguito un progressivo processo di normalizzazione delle relazioni, trainato dalla comune identità musulmana. Con Dacca non mancano tuttavia contenziosi di difficile risoluzione: dall’accertamento delle responsabilità nella guerra del 1971 al trattamento riservato alle rispettive minoranze.
Anche la stretta amicizia che lega il Pakistan alla Cina si iscrive nelle complesse logiche degli equilibri geopolitici dell’Asia centromeridionale. Nata sostanzialmente sulla comune rivalità contro l’India, in funzione di copertura strategica, e rinsaldata negli anni della Guerra fredda dalla volontà condivisa di contenere l’Unione Sovietica, l’alleanza sino-pachistana è considerata da sempre a Islamabad valida ‘per tutte le stagioni’ (‘all weather ally’), in quanto si è dimostrata stabile e costante dal 1951 in avanti, anno in cui furono instaurate le relazioni diplomatiche tra i due paesi. Da allora, Pechino si è affermato come il primo fornitore di armi, ha sempre fornito assistenza militare, economica e tecnica a Islamabad e ne ha sostenuto il programma nucleare. Più controverso e più instabile è invece il rapporto con gli Stati Uniti: ‘amico solo quando c’è bel tempo’ (‘fair weather friend’), come a Islamabad si definisce la relazione con Washington.
Il Pakistan fa parte della South Asian Association for Regional Cooperation (Saarc), la principale organizzazione internazionale della regione, creata nel 1985 con lo scopo di promuovere una maggiore cooperazione politica ed economica in Asia meridionale, l’organizzazione ha spesso risentito nel suo funzionamento delle forti tensioni tra alcuni dei suoi otto membri, e in primis proprio di quelle tra Pakistan e India. Oltre che della Saarc, il Pakistan è un importante elemento dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oic) e ha con uno dei suoi membri più influenti, l’Arabia Saudita, una partnership economico-culturale e strategica di straordinaria intensità e consolidata tradizione, anche in chiave antiiraniana. Dopo la firma dell’accordo ad interim tra Iran e paesi del gruppo P5+1 nel novembre 2013, Riyadh avrebbe paventato l’ipotesi di dotarsi di tecnologia nucleare proprio con l’aiuto dell’alleato pachistano. Islamabad partecipa infine all’organizzazione delle Nazioni Unite fin dalla sua fondazione, fa parte del Commonwealth. Il paese è stato poi inserito tra le cosiddette ‘next eleven economies’, le economie che potrebbero emergere nei prossimi anni assieme a Brasile, Russia, India e Cina, così come nel G20 delle nazioni in via di sviluppo
Il Pakistan è una repubblica parlamentare, afflitta da una cronica indeterminatezza tra la sfera militare e quella politico-civile. Se storicamente i militari hanno governato il Pakistan per circa la metà degli anni della sua storia, dalla prima dittatura militare (1957-68) del generale Ayub Khan, passando per la seconda (1977-88) retta dal generale Muhammad Zia ul-Haq, fino alla presidenza di Musharraf (1999-2007), ancora oggi si può riconoscere un sostanziale duopolio nella gestione del potere politico. Le principali istituzioni elettive, come la presidenza e il Parlamento, anche se formalmente detengono la piena sovranità legislativa ed esecutiva, de facto devono scontare il forte condizionamento che i vertici militari riescono a esercitare nei settori rilevanti della politica nazionale. Il quartier generale di Rawalpindi, la capitale militare del paese, continua a mantenere un’influenza determinante in tema di politica estera, di sicurezza nazionale così come nella gestione del programma nucleare pachistano. Il ruolo dell’Inter Service Intelligence (Isi), ovvero i servizi segreti pachistani, e il suo rapporto storicamente ambiguo rispetto tanto all’esecutivo quanto al resto dell’apparato militare, è uno dei maggiori nodi che complicano il già precario equilibrio nelle relazioni tra civili e militari. Se la visione dell’Isi come ‘stato nello stato’ può apparire eccessiva, è altresì vero che i servizi segreti pachistani, che solo formalmente rispondono al primo ministro, mantengono un buon margine d’azione indipendente e che il pericolo di una radicalizzazione di alcuni dei loro comparti è considerato fonte di preoccupazione. Se alla precarietà di questo equilibrio si aggiunge la proliferazione di gruppi fondamentalisti interni e la turbolenza di intere regioni del territorio nazionale, dove Islamabad non riesce a dispiegare un controllo capillare ed efficace, si intuisce immediatamente l’incertezza che vige circa il presente e il futuro prossimo del paese. Il ventaglio dei possibili scenari costantemente al vaglio delle diplomazie di tutto il mondo è davvero ampio: dalla possibilità che il paese si avvii sui binari del consolidamento democratico al rischio che un’implosione del sistema politico-istituzionale trasformi il Pakistan in uno ‘stato fallito’, passando per la possibilità che i militari organizzino un nuovo golpe, trascinando lo stato verso una deriva autoritaria, o ancora che le posizioni politiche radicali possano prevalere, spingendo la democrazia pachistana verso l’islamizzazione. Delle quattro opzioni, quella del consolidamento democratico, sulla quale convergono i maggiori interessi della comunità internazionale e in primis degli attori più coinvolti nell’area, si scontra con molteplici fattori interni, endemici al sistema pachistano, che ne allontano una sua piena realizzazione. Tra questi, oltre alla già ricordata delicata coabitazione tra potere civile e potere militare, si registra la sostanziale debolezza dei partiti pachistani, il mancato rinnovamento della leadership politica nazionale, una cronica incapacità dei governi civili nel portare a termine i propri mandati e ancora una corruzione dilagante, che innerva tutti i rami dell’amministrazione. Il fatto che nell’ultimo decennio di governo civile, dal 1988 al 1998, gli esecutivi siano stati guidati alternativamente da Benazir Bhutto (ex leader del Ppp) e da Nawaz Sharif (leader della Pakistan Muslim League, Pml-N, attuale primo ministro), è la fotografia più emblematica delle difficoltà che affliggono la democrazia pachistana.
Tuttavia, in questo scenario fosco, uno spiraglio di luce sembra essersi aperto nel novembre 2013, in seguito al ritiro dalle scene del generale Ashfaq Pervez Kayani, ex capo dell’esercito ed eminenza grigia della politica pachistana. Il generale Kayani, giunto a scadenza di mandato, ha effettivamente passato il potere a un altro generale, Raheel Sharif, nominato dal primo ministro Nawaz Sharif. Il generale Raheel Sharif è noto per una scarsa predisposizione all’attività politica, elemento che lascerebbe ben sperare per un’effettiva separazione della sfera militare e della sfera politica.
Dal punto di vista della politica interna, il Pakistan ha registrato nel maggio 2013, per la prima volta in 66 anni di storia, lo storico passaggio di poteri tra due governi civili democraticamente eletti. Dalle elezioni è emersa vincitrice la Pakistan Muslim League-Nawaz (Pml-N), partito conservatore di centro-destra. Nawaz Sharif, leader del partito e già due volte primo ministro (tra il novembre 1990 e il luglio 1993 e tra il febbraio 1997 e l’ottobre 1999) ha dunque dato inizio al terzo mandato.
Tra le sfide che il neo premier dovrà affrontare, vi sono la perenne crisi energetica, la minaccia del terrorismo interno e la necessità di dare nuovo slancio a un’economia stagnante. La Pml-N governa con una solida maggioranza in assemblea nazionale, la Camera bassa, mentre il Senato è ancora dominato dal Pakistan People’s Party (Ppp) per via del fatto che i suoi seggi si rinnovano solo di un terzo a ogni tornata elettorale. Per un ulteriore mutamento degli equilibri politici nelle sedi del potere del paese bisognerà dunque attendere le prossime elezioni, previste per il 2015. L’istituzionalizzazione e la sedimentazione di prassi politiche democratiche è infine messa a dura prova dall’instabilità che caratterizza la società pachistana, attraversata da profondi conflitti etnico-religiosi e fortemente condizionata dal terrorismo politico interno che, specie in anni recenti, non solo ha ripetutamente insanguinato città e regioni del paese, ma ha anche colpito personalità politiche di primissimo piano: dall’ex primo ministro Benazir Bhutto, uccisa nel dicembre 2007 durante la campagna elettorale, al governatore dell’importante regione del Punjab, Salman Taseer, ucciso nel gennaio del 2011 per avere criticato la legge sulla blasfemia, fino al cattolico Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze religiose, caduto per mano del fondamentalismo nel marzo del 2011.
Il Pakistan ha una popolazione di circa 180 milioni di abitanti, ossia è al sesto posto nella classifica dei paesi più popolosi. Le condizioni di vita sono ancora molto precarie. Accanto ai problemi di natura sociale, è da considerare l’estrema varietà etnica del Pakistan, che rende difficile un’integrazione tra culture e religioni diverse, soprattutto nelle aree rurali. La grande maggioranza dei pachistani, circa il 95%, è di religione musulmana, con minoranze induiste e cristiane. Dietro quest’apparente omogeneità, tuttavia, la popolazione musulmana risulta molto divisa tra la componente sunnita (circa il 75% dei musulmani) e quella sciita, divisione che genera tensioni che spesso sfociano in violenze. Il gruppo etnico più numeroso è costituito dai Punjabi, circa il 45%, seguiti dai Pashtun (15%), dai Sindhi (14%) e da altre minoranze come i Sariaki e i Beluci. Anche a causa di tale ripartizione, l’urdu, la lingua ufficiale del paese assieme all’inglese, è parlata solo dall’8% della popolazione, mentre la lingua punjabi, riconosciuta ma non ufficiale, è parlata da quasi la metà della popolazione. L’area punjabi risulta anche quella con la maggiore densità di popolazione, altro dato, quest’ultimo, con una distribuzione molto variata: si passa dai circa 19 abitanti per chilometro quadrato nel Belucistan ai più di 350 nel Punjab. La popolazione, che prevalentemente vive lungo il fiume Indo, è per la maggior parte rurale, nonostante il tasso di urbanizzazione sia in costante crescita: attualmente, il Pakistan è il secondo paese dell’Asia meridionale quanto a popolazione urbana, sebbene la percentuale sia comunque bassa (circa il 37%) se confrontata con altre regioni. Legato al fenomeno dell’urbanizzazione vi è quello della crescita dei grandi centri urbani, come Karachi che, con più di 10 milioni di abitanti, è la prima città del paese. Tra la popolazione pachistana si registrano forti disuguaglianze sociali e livelli di sviluppo socio-economico molto bassi. Il sistema di istruzione risulta ancora deficitario e il governo non è riuscito a imprimere al settore un cambiamento adatto ad adeguare il paese alle sue necessità strutturali.
Gli investimenti pubblici sono destinati in misura maggiore all’istruzione di alto livello, accessibile solo dalle élite al potere, piuttosto che alla scuola primaria e secondaria. In tal modo si incentiva un processo di immobilismo sociale e di arretratezza culturale, come testimoniato dal basso tasso di alfabetizzazione della popolazione, che in alcune aree rurali è sotto all’1%. Allo stesso tempo, tale condizione favorisce il fiorire delle madrase, vale a dire di quei centri di istruzione islamici nei quali si è sviluppato in passato il fondamentalismo religioso.
Anche il sistema sanitario non è adeguato a una popolazione così numerosa e gli investimenti in tale campo risultano ancora insufficienti. Le critiche condizioni socioeconomiche del paese, del resto, sono rese evidenti dal fatto che circa il 60% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. A rendere il quadro ancora più complesso si aggiunge il numero dei profughi, in maniera particolare dall’Afghanistan: il Pakistan è il terzo paese al mondo per numero di rifugiati ospitati (circa 1,6 milioni). Sono invece 39 milioni i cittadini di origine pachistana che vivono all’estero, soprattutto in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e nel Regno Unito.
Il Pakistan ha assistito per la prima volta nel 2013 al passaggio di poteri pacifico tra due governi civili, lasciando ben sperare per un futuro consolidamento del paese in senso democratico. Il processo elettorale, d’altro canto, non sembra essere del tutto trasparente e libero, come testimoniato da molti osservatori esterni e come confermato dal fatto che durante l’ultima campagna elettorale si sia sviluppato un clima particolarmente violento, che ha portato alla morte più di cento persone. Il sistema politico pachistano è fortemente corrotto e vi sono ampie ingerenze dei servizi segreti e dell’esercito nel normale svolgimento degli affari politici. Anche la libertà di stampa risulta limitata. Dal 2009, sono stati ammazzati più reporter in Pakistan che in qualsiasi altro paese. Nel 2013 secondo i dati di Reporter senza frontiere, i giornalisti uccisi sono stati sette. In alcune zone del paese, soprattutto quelle rurali e di frontiera con l’Afghanistan, alle istituzioni statali si sovrappongono sistemi legislativi e consuetudinari basati su tradizioni locali e sulla religione, il che rende tali aree quasi indipendenti da Islamabad. In particolar modo, le cosiddette aree tribali di amministrazione federale (Federally Administered Tribal Areas, Fata), a maggioranza pashtu, sono governate da funzionari non eletti, afferenti al sistema tribale locale, che vengono nominati dal presidente, senza l’intermediazione dei partiti politici. Allo stesso modo nel Khyber Pakhtunkhwa, nota in passato come provincia della frontiera del Nord-Ovest (North-West Frontier Province, Nwfp), ha destato preoccupazione il fatto che, nel distretto di Swat, il governo di Islamabad abbia raggiunto un accordo con i gruppi islamisti locali legati ai talebani, per permettere l’applicazione della legge islamica (sharia) in quell’area. In alcune aree vi sono ancora tribunali religiosi e negli ultimi anni si sono verificati casi di lapidazione per adulterio. Infine, non solo secondo le usanze locali, ma anche secondo l’ordinamento giuridico dello stato, la blasfemia è considerata un reato punibile con la morte. Il sistema legale tribale vigente di fatto in alcuni distretti limita molto anche l’uguaglianza di genere, nonostante a livello istituzionale sia garantita dal numero fisso di seggi (60) destinati alle donne in parlamento. Del resto, Benazir Bhutto, ex primo ministro del paese, nel 1988 è stata la prima donna a ricoprire tale carica in un paese musulmano.
L’economia pachistana soffre di carenze strutturali, dovute soprattutto alle difficoltà nel creare un’industria diversificata, oltre che all’instabilità politica. In particolare, scarsità cronica di acqua e di energia, sicurezza precaria e scarso investimento in capitale umano sono tra i fattori che frenano la crescita economica. Nonostante tali difficoltà, il sistema economico è in ripresa dopo il calo del 2008, grazie anche agli aiuti provenienti dall’estero e in particolar modo dagli Usa, nel quadro della rinnovata cooperazione tra Washington e Islamabad, legata alla guerra al terrorismo. Il settore industriale è il meno sviluppato, mentre l’agricoltura è di nuovo in crescita e da quest’ultima, nonostante incida sul pil solo per il 20%, continuano a dipendere, direttamente o indirettamente, circa i due terzi della popolazione. Il settore dei servizi contribuisce invece al 54% del pil e il Pakistan ha una sua eccellenza, sebbene ancora in via di sviluppo, nel campo della tecnologia informatica. L’industria si basa prevalentemente sul settore tessile e ne risulta strutturalmente dipendente, anche per ciò che concerne le esportazioni. Tale fattore rende l’economia pachistana vulnerabile: sia per la concorrenza della Cina, sia dal punto di vista interno, per la dipendenza delle coltivazioni di cotone dalle condizioni climatiche, soggette a frequenti periodi di siccità e di inondazioni.
Un elemento che, negli ultimi anni, ha in parte coperto la debolezza strutturale è stato l’innalzamento delle quote del tessile dirette verso l’Unione Europea, gli Usa e la Turchia, grazie al quale si era registrata nel 2007 la crescita del settore industriale, adesso nuovamente in calo. Il governo ha cercato di promuovere le riforme necessarie per la privatizzazione del sistema, ma vi sono ancora ampi settori controllati dallo stato. Anche per ciò che concerne l’agricoltura domina un oligopolio di proprietari, legati alle élites di potere e interessati al mantenimento dello status quo, che ostacola il cammino delle riforme.
A rivestire carattere di urgenza però è soprattutto la gestione fiscale dello stato. Nel settembre 2013 il Fondo monetario internazionale (Imf) ha dato il via libera a un programma di assistenza finanziaria del valore di 6,6 miliardi di dollari, che andrà in parte a sostenere la bilancia dei pagamenti pachistani, gravata dalla scarsità di valuta straniera nelle casse di Islamabad. Tra le condizioni poste dall’Imf per il prestito, vi sono la riduzione del deficit (attualmente all’8% del pil), il consolidamento fiscale e il miglioramento del sistema di riscossione delle imposte. Il Pakistan è uno dei paesi con il rapporto tasse-pil più basso al mondo.
L’instabilità politica del Pakistan nuoce anche al flusso di investimenti esteri in entrata, in declino dal 2008, proprio in concomitanza con l’aggravarsi della crisi politica, generata dall’assassinio della Bhutto, e con la nuova ondata di attentati terroristici. Importanti sono gli aiuti internazionali (circa un miliardo e mezzo di dollari l’anno), così come le rimesse dei lavoratori all’estero, che nel 2011 sono ammontate a 12,2 miliardi di dollari, corrispondenti a circa il 5% del pil nazionale. Islamabad ha l’ambizione di diventare un corridoio di transito tra l’area mediorientale e l’Asia centromeridionale, ma per raggiungere tale scopo deve far fronte alle lacune strutturali che, al di là dell’instabilità politica, riguardano soprattutto l’inefficienza delle infrastrutture. La rete ferroviaria non cresce dal 1998 e il 96% delle merci viaggia su strada. Sebbene siano stati fatti investimenti sul sistema di collegamento stradale, le autostrade costituiscono solo il 4,2% del totale. Il 90% del trasporto avviene però proprio su autostrada e ciò rende evidente il bisogno di un ampliamento delle infrastrutture, soprattutto perché la popolazione, già molto numerosa, continua a crescere con un tasso annuo di circa l’1,6%. Lo sviluppo infrastrutturale del Pakistan potrebbe dipendere dagli investimenti esteri e, in tale ottica, un paese molto attivo è la Cina. Il governo di Pechino è interessato a creare un corridoio per il proprio commercio che eviti lo Stretto di Malacca. Per questo ha investito molto nell’area del Belucistan e nel porto di Gwadar, nel sud del paese. La Cina ha individuato quest’area come possibile terminal per le proprie importazioni petrolifere e, oltre al porto, sta costruendo per un totale di circa 15 miliardi di dollari. La Cina è anche il secondo partner per le importazioni pachistane, dopo gli Emirati Arabi Uniti (Uae) e prima dell’Arabia Saudita, dai quali il Pakistan compra petrolio. Le esportazioni, rappresentate per il 56% dal settore tessile, sono invece dirette soprattutto verso gli Usa, gli Uae e il vicino Afghanistan.
Il mix energetico pachistano è molto composito, ma per più del 50% dipende dagli idrocarburi, e tra questi il 31,8% è rappresentato dal gas naturale e il 24,3% dal petrolio. Il Pakistan produce poco petrolio e ciò lo rende dipendente dalle importazioni, che ammontano a circa 350.000 barili al giorno e derivano in gran parte dall’Arabia Saudita. Ciò fa sì che l’economia sia vincolata dal prezzo del petrolio sul mercato internazionale: quando sale le ripercussioni sulla bilancia pachistana sono inevitabili.
D’altra parte il paese ha una rilevante produzione di energia da fonti rinnovabili (in tutto il 38,2% del totale), tra cui l’energia idroelettrica pesa per quasi per il 3%, ma è soggetta a cali di rendimento, in correlazione ai periodi problemi di siccità. Sul territorio sorgono anche centrali nucleari, ma questa fonte energetica contribuisce solo al’1,6% del mix energetico. Per ciò che riguarda il gas naturale, l’obiettivo è accrescere le importazioni sia dai paesi del Golfo, in particolare del Qatar, sia dall’Asia centrale. Il Pakistan, inoltre, è al centro di due progetti di gasdotti regionali, che per motivi geopolitici sono stati, e sono tutt’ora, oggetto di controversie. Il primo è il cosiddetto ‘gasdotto della pace’, deputato al trasporto di gas naturale dall’Iran all’India. L’impianto passerebbe attraverso il Pakistan (Iran-Pakistan-India, Ipi), dove verrebbero commercializzati 7,5 miliardi di metri cubi l’anno dei 40 trasportati. Mentre il tratto iraniano è già stato pressoché completato, i lavori su quello pachistano stentano a decollare. A pesare, oltre alle pressioni di Washington affinché Islamabad segua l’esempio indiano e abbandoni il progetto, c’è la scarsa disponibilità di fondi nelle casse pachistane. Secondo progetto infrastrutturale regionale che coinvolge il Pakistan è il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (Tapi), che assicurerebbe gas di estrazione caspica. Il progetto, sostenuto dagli Usa e dalla Banca asiatica di sviluppo nella prospettiva di stabilizzazione dell’Afghanistan e di aggiramento dell’Iran, potrebbe consentire un flusso totale di 33 miliardi di metri cubi l’anno, la metà dei quali diretta in Pakistan. Qui è allo studio la possibilità di costruire terminali di liquefazione lungo la costa che permetterebbero a Islamabad di attivare flussi di esportazione della risorsa. Le grosse incognite legate alle precarie condizioni di sicurezza in Afghanistan allontanano però di fatto le possibilità di concretizzare il progetto.
Poiché è uno dei paesi più popolosi al mondo, il Pakistan ha anche una domanda di energia elettrica molto elevata e in costante crescita. La generazione di elettricità è uno dei maggiori problemi per il paese e rallenta lo sviluppo dell’industria. A fronte di una crescita della domanda di più del 9% l’anno, la produzione di energia elettrica, cresce solo dello 0,6% su base annua e ancora oggi circa il 40% della popolazione non ha accesso all’elettricità, quota che nelle aree rurali raggiunge anche il 60%. Anche la rete di distribuzione elettrica non è efficiente e gli sprechi ammontano a circa un quarto del totale. A causa della scarsa disponibilità di energia elettrica sono frequenti le interruzioni nell’erogazione dell’elettricità, non sempre pianificate.
L’esercito è senz’altro uno degli attori più rilevanti della realtà pachistana sotto tutte gli aspetti: oltre al monopolio dell’uso della forza, padroneggia importanti risorse di tipo economico, simbolico e politico. In primis, le forze armate pachistane sono titolari di una serie di interessi, prerogative e benefici economici che, cresciuti notevolmente sotto la presidenza di Musharraf, continuano a essere garantiti e tutelati anche da quando è stata ripristinata la democrazia. Secondo alcune stime, il patrimonio dell’esercito ammonterebbe a circa 20 miliardi di dollari, che provengono dal possesso di quasi 5 milioni di ettari di terreno e dalle partecipazioni in varie industrie nazionali e in banche e compagnie assicurative. In secondo luogo, l’esercito gode tradizionalmente della legittimazione popolare, guadagnata negli anni non solo grazie al ruolo di difensore e garante della sicurezza nazionale, specie in riferimento alla contrapposizione con l’India, molto sentita dalla popolazione pachistana, ma anche grazie alla reputazione di unica istituzione preservata dalla corruzione. Infine, le forze armate pachistane si ergono a ultimo arbitro della politica nazionale. Da una parte non è possibile conquistare il governo del paese e mantenerne la direzione e il controllo senza l’appoggio dell’esercito – in quanto unica istituzione presente sulla totalità del territorio nazionale, oltre che importante bacino elettorale con i suoi oltre 640.000 effettivi. Dall’altra parte, la sua forza e la sua presenza incidono in maniera determinante sulla realizzabilità dei diversi scenari circa il futuro del paese. Tanto il rischio di un collasso istituzionale, quanto la probabilità di una deriva fondamentalista della politica pachistana appaiono scongiurati dalla forza posseduta dall’esercito e dall’opera stabilizzatrice che è in grado di svolgere. Inoltre, benché il generale Ashfaq Kayani, al vertice per sei anni fino al novembre 2013, abbia mostrato deferenza verso la leadership politica civile, un ritorno al regime a guida militare non può essere escluso in un paese che ha conosciuto dittature militari per la metà della sua storia.
Dalla fine degli anni Novanta il Pakistan è diventato ufficialmente una potenza nucleare: la decisione di dotarsi di armamenti nucleari rispondeva alla volontà di Islamabad di controbilanciare la schiacciante superiorità dell’India – che già da venti anni aveva portato a compimento il suo programma atomico – in termini di capacità militari convenzionali e di disponibilità finanziarie da destinare alla spesa per la difesa. Entrambi i paesi, come è noto, non aderiscono al Trattato di non proliferazione, volto a contenere e controllare la diffusione di testate atomiche a livello globale. La dotazione nucleare, che si stima intorno alle 90-110 testate nucleari, trasforma la stabilità del Pakistan in una delle priorità per la sicurezza internazionale, soprattutto per i rischi connessi alla sua gestione in caso di collasso delle istituzioni politiche, o del pericolo di contrabbando e vendita di componenti nucleari ad altri paesi o alle reti terroristiche globali. Per altri versi il paese può essere considerato un sostenitore attivo del multilateralismo: da qualche anno il Pakistan si alterna con il Bangladesh nel primato mondiale per contributi, per numero di truppe, alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. I maggiori contingenti pachistani sono impegnati nella Repubblica Democratica del Congo, in Liberia, in Costa d’Avorio e in Sudan. Dal 2005 il Pakistan, assieme a India e Iran, è membro osservatore nell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) e da allora ambisce a ottenerne l’ammissione a membro effettivo potendo contare sul sostegno cinese alla sua candidatura. L’adesione pachistana alla Sco necessita, però, anche del sostegno della Russi. Mosca, tuttavia avrebbe vincolato l’accettazione alla condizione di estendere la membership anche all’India, cui il Pakistan si oppone.
A livello interno, permane in Pakistan un’instabilità quasi strutturale, data soprattutto dalla presenza di elementi ostili allo Stato, dediti anche alla lotta armata. In particolare, la presenza dei talebani pachistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan, Ttp), gruppo formatosi nel 2007 come ‘costola’ pachistana del movimento talebano nato in Afghanistan, costituisce una minaccia costante per il governo di Islamabad. A questo proposito, nelle prime settimane del 2014 il Primo ministro pachistano Sharif aveva annunciato l’intenzione di avviare dei negoziati con l’organizzazione, ma la notizia è stata successivamente sementita. La presenza del Ttp in Pakistan crea problemi anche nei rapporti con gli Stati Uniti, in quanto questi ultimi hanno più volte ricorso ad operazioni militari per mezzo di droni per colpire l’organizzazione, causando anche delle vittime tra la popolazione civile.
Le relazioni tra India e Pakistan sono state conflittuali fin dall’agosto del 1947, quando Islamabad si costituì nei territori indiani divenuti indipendenti, con l’intento di creare una nazione per tutti i musulmani del subcontinente indiano. Il processo di partizione fu doloroso: costò circa mezzo milione di morti, innescò il trasferimento in massa di milioni di persone e diede origine a diverse controversie territoriali. Tra queste ultime la più rilevante, specie alla luce del livello di conflittualità che ne è scaturito, è quella che interessa il Kashmir: annesso all’Unione indiana per scelta del maharaja indù Hari Singh che lo governava, ma con una maggioranza musulmana, il Kashmir è da allora oggetto di una contesa pluridecennale che conta ben tre guerre (1947-48, 1965 e 1999) e il regolare riaccendersi di episodi di violenza. Entrambi i paesi ne rivendicano la sovranità e attualmente la regione è divisa in tre parti (una amministrata dall’India, una dal Pakistan e la terza dalla Cina), secondo quanto è stato definito dall’Accordo di Simla che concluse il secondo conflitto indo-pachistano. La contesa sul Kashmir non è tuttavia la sola che mantiene i rapporti tra i due vicini sul livello di massima allerta. Diversi e di differente natura sono i contenziosi che, apertisi negli anni e spesso rimasti irrisolti, alimentano la rivalità e il reciproco sospetto tra i due paesi: mancati accordi nella gestione delle risorse idriche in comune, dispute territoriali lungo la frontiera condivisa, costante competizione commerciale e sfere di influenza politica nella regione regolarmente in rotta di collisione, specie per ciò che riguarda le relazioni con l’Afghanistan pre e post talebano. Sistematiche sono poi le accuse che Islamabad muove a Nuova Delhi: soffiare sul fuoco delle contrapposizioni etniche della società pachistana, o sostenere gli irredentismi interni ai suoi confini, come quello della regione del Belucistan, con l’obiettivo di minare l’integrità e l’unità della repubblica islamica. Allo stesso modo gli indiani denunciano il diretto supporto del Pakistan ai gruppi fondamentalisti e jihadisti che operano in India, così come i sospetti che attribuiscono a Islamabad la regia e la responsabilità dei frequenti attentati terroristici che negli anni hanno insanguinato città e regioni indiane. Se rivalità e sospetto sono radicati nelle opinioni pubbliche di entrambi i paesi, i rispettivi punti di vista politici differiscono in maniera rilevante: mentre per Islamabad il rapporto con il suo ingombrante vicino rimane tutt’oggi in cima alle preoccupazioni di politica estera, Nuova Delhi, che si sta affermando come uno dei protagonisti della scena politica ed economica mondiale, coltiva e gestisce interessi di carattere globale che spostano il focus del proprio raggio d’azione ben oltre le dinamiche regionali. L’India, a differenza del Pakistan, è inserita nel G20, è in prima fila per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, vede una numerosissima classe media migliorare ogni anno le proprie condizioni di vita, registra da anni tassi di crescita eccezionali, attira ingenti investimenti da tutto il mondo: tutti dati che distanziano notevolmente sia le preoccupazioni in capo ai rispettivi governi, sia gli interessi e le responsabilità che questi si trovano a dover gestire. Sono in tanti a non volere, né a potersi permettere, una guerra nel subcontinente e le pressioni sul governo indiano in questo senso sono formidabili: prova ne sia il fatto che l’attentato del 2008 a Mumbai non ha portato a un’escalation militare tra i due paesi, ma ha solo raffreddato il processo di distensione in atto dai primi anni del Duemila. Dai primi mesi del 2011 il dialogo indo-pachistano sembra essere ripartito: sui binari della cosiddetta ‘diplomazia del cricket’, l’allora primo ministro pachistano Yousuf Raza Gilani è stato invitato in India per assistere alla semifinale della coppa del mondo di cricket, sport popolarissimo in entrambi i paesi. L’elezione, nel maggio 2013, di Nawaz Sharif alla carica di primo ministro lascia ben sperare per la ripresa del dialogo tra i due paesi. Durante il suo primo mandato, Sharif era stato infatti l’artefice di un riavvicinamento a Nuova Delhi. Sulle effettive possibilità di un riavvicinamento futuro incombe però come sempre lo spettro dell’esercito pachistano, che detiene l’ultima parola sulle decisioni di politica estera e di sicurezza nazionale del paese.
Forgiatasi nel pieno della contrapposizione bipolare, la relazione tra Pakistan e USA è sempre stata
caratterizzata da fasi di avvicinamento e da altrettante prese di distanza, spesso in coincidenza con il mutare degli interessi statunitensi nello scacchiere dell’Asia meridionale. Il primo trattato di alleanza tra Pakistan e USA fu firmato nel 1954 e s’inscriveva nel pieno del clima della Guerra fredda, con la necessità statunitense di contenere la possibile espansione sovietica nell’Asia centromeridionale. Dello stesso periodo sono le adesioni di Islamabad a due alleanze di difesa filo-occidentali nella regione, vale a dire la Southeast Asia Treaty Organization (SEATO) e la Central Treaty Organization (CENTO). Gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, con le due guerre indo-pachistane e il rischio di una corsa agli armamenti nucleari nel subcontinente indiano, portarono alla scelta americana di un taglio unilaterale della relazione e alla conseguente chiusura dei finanziamenti erogati generosamente da Washington negli anni precedenti. L’invasione sovietica dell’Afghanistan del dicembre 1979 obbligò la Casa Bianca a una decisa inversione di tendenza, trasformando il Pakistan nel più naturale e prezioso alleato nell’intento di ostacolare l’Unione Sovietica. Dopo il 1989, dissolta la rigidità degli allineamenti bipolari, le relazioni sono tornate relativamente distanti per un decennio, con gli USA che decisero di condizionare appoggio politico e aiuti economici all’abbandono da parte del Pakistan del suo programma nucleare. Ma è stata ancora l’invasione dell’Afghanistan, questa volta a opera degli USA nel 2001, a segnare un nuovo cambio di passo tra Washington e Islamabad, rendendo necessaria la collaborazione logistica e operativa del Pakistan: una collaborazione che nel 2004 ha portato l’amministrazione Bush a inserire il Pakistan nella lista dei ‘Major non-NATO Ally’. L’importanza della rinnovata partnership è stata infine confermata dalla nuova presidenza Obama e in particolar modo da quando gli strateghi di Washington hanno elaborato la cosiddetta strategia dell’AfPak, che esprime tanto la volontà di unificare dal punto di vista operativo i due versanti della Linea Durand (il confine tra Pakistan e Afghanistan), quanto la consapevolezza dell’impossibilità, per l’Alleanza atlantica, di conseguire alcun successo duraturo in Afghanistan senza una stretta collaborazione da parte di Islamabad. Assieme agli aiuti militari e finanziari, il Pakistan ha così visto aumentare anche le pressioni degli USA per un suo impegno più stringente nella lotta contro il terrorismo islamico. Un impegno che non può più permettersi di compiere alcun distinguo tra talebani afghani, talebani pachistani, terroristi di al-Qaida o altri gruppi estremisti operanti nelle regioni di confine, né di alimentare, come spesso in passato, l’idea di un Pakistan impegnato, con una mano, ad appoggiare Washington nella lotta contro il terrorismo globale e con l’altra a finanziare gruppi jihadisti operanti nella regione, convinto della loro utilità strategica in funzione anti indiana. Gli USA, inoltre, sono oggi sempre più persuasi della necessità che i loro aiuti finanziari non possano essere destinati solo a scopi militari (e quindi venir utilizzati ancora una volta da Islamabad principalmente in funzione di deterrente anti indiano), ma debbano essere impiegati anche per rilanciare l’economia nazionale e migliorare lo stato sociale pachistano, completando dunque, parallelamente all’offensiva militare, l’opera di sradicamento dell’estremismo islamico, che trova terreno fertile in regioni povere, degradate e con alti tassi di disoccupazione. Le relazioni tra Washington e Islamabad sono costantemente sotto i riflettori del dibattito pubblico pachistano e il forte anti americanismo diffuso nella società diventa un argomento rilevante nella competizione politica nazionale. Un sentimento, quello dell’anti americanismo, alimentato dalle reiterate ingerenze degli USA nelle dinamiche politiche pachistane (come nella richiesta di una comune gestione dell’arsenale nucleare di Islamabad, soprattutto in caso di attivazione di procedure d’emergenza), dalle frequenti operazioni militari che travalicano il confine tra Afghanistan e Pakistan, condotte tramite l’utilizzo dei cosiddetti droni (velivoli senza pilota impiegati dalla CIA per attacchi mirati contro i terroristi), e dal sospetto destato dalle strette relazioni diplomatiche che Washington intrattiene con l’India. A tali sospetti si è aggiunto l’imbarazzo provocato dalla vicenda dell’uccisione di Osama Bin Laden, il leader di al-Qaida, nel maggio del 2011. L’operazione è stata condotta da forze speciali statunitensi presso Abbottabad, città a circa cinquanta chilometri da Islamabad. Il fatto che il terrorista più ricercato dagli USA si nascondesse proprio in territorio pachistano ha destato sospetti circa l’effettiva collaborazione del Pakistan nella lotta al terrorismo, cosi come la mancata informazione preventiva dell’azione da parte statunitense ha creato malumori presso il governo di Islamabad. L’episodio, all’epoca, non ha compromesso la cooperazione tra i due paesi, che continua ad essere fondamentale nella strategia antiterroristica di Washington. Tuttavia, la situazione potrebbe subire mutamenti con il ritiro delle forze USA e NATO dall’Afghanistan, previsto per gli ultimi mesi del 2014. Il Pakistan potrebbe trovarsi a giocare un ruolo di maggior peso per il mantenimento della stabilità nella regione, ma potrebbe anche veder diminuire i cospicui aiuti che Washington versa nelle sue casse. Assieme ai cambiamenti nei flussi economici, potrebbero verificarsi spostamenti anche negli equilibri strategici. Il Pakistan, non contento delle condizioni imposte dagli USA per mantenere gli aiuti e contrariato dalla strategia dei droni statunitensi, potrebbe volgersi sempre più verso la Cina, facendo dunque segnare un punto a favore di Pechino nella competizione per la leadership in Asia.
L’ISI (Inter Service Intelligence) è stato fondato nel 1948 per coordinare le funzioni d’intelligence dell’esercito, della marina e dell’aeronautica. È il più potente e il più noto dei tre servizi pachistani, che comprendono anche l’Intelligence Bureau (IB) e il Military Intelligence (MI). L’agenzia ha subìto negli anni alterne fortune, a seconda del rapporto di volta in volta instaurato con gli altri organi dello stato. Negli anni Cinquanta, durante la presidenza di Ayub Khan, l’ISI ha accresciuto il proprio ruolo di controllo dei politici dell’opposizione, ritagliandosi uno spazio sempre più ampio e sempre più a latere delle istituzioni ufficiali dello stato. L’agenzia ha subìto una prima riorganizzazione nel 1966, dopo la pessima performance riportata dall’intelligence durante la guerra con l’India del 1965, e un ulteriore allargamento nel 1969, quando il presidente Khan ha affidato all’ISI il compito di lavorare nelle regioni orientali del paese. Negli anni Settanta, durante il governo di Zulfiqar Ali Bhutto, l’agenzia ha perso parte della sua importanza, soprattutto a causa dell’inappropriata gestione degli eventi che nel 1971 portarono alla partition e alla nascita del Bangladesh. Quando, nel luglio 1977, il generale Zia-ul-Haq realizzò il colpo di stato che lo portò ai vertici del paese, per l’ISI si aprì una nuova stagione. All’agenzia venne affidato, tra gli altri, il compito di raccogliere informazioni sul Partito comunista pachistano e sul Pakistan People’s Party (PPP). Negli anni Ottanta l’ISI ha ricoperto un ruolo importante nell’addestramento dei mujaheddin afghani, al fianco di CIA e servizi segreti sauditi, all’epoca dell’occupazione sovietica del paese. Dopo il 1994, l’ISI ha fornito il proprio appoggio ai talebani impegnati nella guerra civile per la conquista di Kabul. L’ISI, formalmente sotto il controllo del ministero degli interni, risponde di fatto al capo dell’esercito, che detiene l’ultima parola sulle decisioni di politica estera e di sicurezza nazionale, spesso tenendo i vertici politici all’oscuro delle proprie strategie. Fin dalla sua formazione, l’ISI è stato guidato da generali dell’esercito pachistano. Attualmente a capo dell’agenzia vi è il generale Zaheerul Islam, che nel marzo 2012 ha sostituito Ahmed Shuja Pasha. Ufficialmente, l’agenzia può contare su circa 10.000 ufficiali e membri dello staff, esclusi gli informatori, il cui numero non è noto. A livello organizzativo, l’ISI è articolato in diverse unità. Tra le principali, il Joint Intelligence Bureau (JIB), responsabile della raccolta delle informazioni provenienti da fonti non riservate, il Joint Counter Intelligence Bureau (JCIB), responsabile del controspionaggio sia all’interno che all’estero, e il Joint Signal Intelligence Bureau (JSIB), al quale è affidata la gestione delle comunicazioni. Secondo numerosi rapporti di intelligence, l’ISI intrattiene relazioni con i principali gruppi terroristici del paese, dai Lashkar-e-Taiba ai Tehrik-i-Taliban Pakistan. Nell’autunno del 2007 è stata condotta una purga ‘anti-terrorista’, che ha segnato una parziale presa di distanza dell’organizzazione dai gruppi più estremisti. Tuttavia, la linea di confine tra ISI e terrorismo rimane alquanto labile. L’ex capo dell’ISI, il generale Hamid Gui, avrebbe fondato il concilio per la difesa del Pakistan (Difa-i-Pakistan), un ‘gruppo di pressione’ che riunisce sotto la sua bandiera partiti islamici, gruppi terroristi e organizzazioni integraliste. Alle ultime elezioni, del maggio 2013, il Difa-i-Pakistan ha sostenuto Imran Khan, ex giocatore di cricket che si presentava alle elezioni con un’agenda basata sulla fine della guerra al terrorismo, stop ai raid dei droni americani e repressione delle minoranze religiose. L’ISI ha poi una forte influenza sul processo politico interno. Negli anni Novanta, lo scandalo Mehrangate ha portato alla luce il coinvolgimento dei servizi segreti pachistani nelle competizioni elettorali, attraverso tangenti pagate a uomini politici per assicurarsi la loro fedeltà. Secondo le Nazioni Unite, inoltre, l’ISI sarebbe coinvolto nel traffico mondiale di stupefacenti, dal quale realizzerebbe un guadagno di circa 2 miliardi di dollari.