PALEOGEOGRAFIA
. La paleogeografia o geografia del passato è quel ramo della geologia, che cerca di coordinare i dati forniti da varie scienze, e in particolare dalla stratigrafia, dalla petrografia e dalla paleontologia traendone per analogia con i fenomeni attuali studiati dalla fisica terrestre e dalla geografia fisica e dalle scienze biologiche, quelle conclusioni che permettono di poter rappresentare nella loro distribuzione i fenomeni svoltisi sulla terra durante i singoli periodi geologici. La paleogeografia (in stretto senso) si prefigge pertanto non solo di ricostruire per ognuno di questi, i limiti fra terra e mare (paleactologia), ma anche di descrivere e rappresentare la configurazione orizzontale e verticale delle terre emerse e dei mari: catene montuose, altipiani, bassopiani, forma delle coste, acque correnti, laghi, paludi, ghiacciai, deserti, vulcani, natura del suolo, bracci di mare, golfi, mari aperti, oceani e loro profondità e salsedine, correnti marine, moto ondoso, scogliere coralligene e vulcani sottomarini. Ne può derivare una suddivisione in paleorografia, paleovulcanologia, paleoidrografia, paleoceanografia, ecc. La paleogeografia però si propone altresì di rappresentare: 1. i rapporti meteorologici e climatologici, generali o speciali della superficie terrestre o di qualche sua parte, come variazioni di composizione dell'aria atmosferica, zone climatiche, temperatura delle acque, correnti marine e vento, stagioni, precipitazioni, ecc. (paleoclimatologia); 2. la distribuzione degli organismi animali e vegetali in terra e in mare (paleobiogeografia) donde si possono trarre elementi preziosi anche per la paleogeografia in stretto senso e per la paleoclimatologia; 3. finalmente, le eventuali variazioni di condizioni astronomiche (paleoastronomia, paleocosmologia) che abbiano potuto influire sulla ripartizione delle terre e delle acque, sui climi e indirettamente sugli organismi, come: variazioni dell'intensità delle radiazioni solari, spostamenti dell'asse di rotazione sulla terra e dei poli, cambiamenti nella velocità di rotazione della Terra o nella posizione della Luna, ecc.
I fatti di distribuzione di questi varî fenomeni, confrontati tra loro, possono condurre a impostare, e forse a risolvere, particolari problemi di geologia generale, quali la permanenza o meno dei grandi bacini oceanici, gli spostamenti dei poli, la periodicità di certi fenomeni, i cicli geologici, le modalità generali dei fatti orogenetici e i loro eventuali rapporti con le trasgressioni o le regressioni marine, con le glaciazioni, ecc.
Il periodo di tempo che è di dominio della paleogeografia si fa principiare teoricamente (Th. Arldt) da quando sulla Terra allo stato di fusione - argomento di studio dell'astrofisica - si rapprese una prima crosta solida permanente, oppure (B. Willis) da quando terra e acqua cominciarono a trovarsi in condizioni analoghe alle attuali; in pratica però (K. Andrée) esso s'inizia con i primi fossili, senza i quali non è possibile una sicura sincronizzazione di terreni e quindi col Cambrico inferiore o al massimo con l'Algonchico. Esso si chiude con l'inizio dei fenomeni "attuali" che sono di dominio della geografia, e quindi con la fine del Pleistocene e l'inizio dell'Olocene, sebbene alcuni fatti anche più recenti, come il sollevamento dei depositi a Yoldia nel Postglaciale o le oscillazioni climatiche rivelate dallo studio dei pollini delle torbiere, rientrino, almeno dal punto di vista del metodo, piuttosto nella paleogeografia che nella geografia.
Metodi. - I principali "metodi" della paleogeografia sono i seguenti:
1. Metodo della distribuzione geografica dei depositi (arealgeologico). - Se i sedimenti geologici non fossero per estensioni talora amplissime cancellati dall'erosione o nascosti dal mare o seppelliti sotto altri sedimenti più recenti, è chiaro che una carta geologica indicante l'estensione dei depositi delle diverse facies d'un determinato periodo costituirebbe di per sé la carta paleogeografica di quel periodo. Di questo genere sono alcune delle primissime carte paleogeografiche, per esempio quelle costruite per l'Italia da G. G. Balsamo Crivelli, già nel 1850. Ma tali lacune esistono e per colmarle, oltre che per l'interpretazione del significato delle varie facies, bisogna ricorrere ad altri metodi: metodi analogici, i cui risultati debbono quindi essere usati sempre con molta prudenza e in ogni caso essere armonizzati con la distribuzione dei sedimenti. Questa, insomma, ha un significato di prim'ordine quando è positiva; non si potrà invece trarne alcuna conclusione quando i sedimenti d'un determinato periodo manchino, potendo la mancanza essere primitiva o secondaria. Per decidere questa questione dobbiamo ricorrere a induzioni, basate sullo studio litologico dei sedimenti e sull'esame comparativo delle faune e delle flore fossili e viventi.
Così, ad esempio, del Neogene superiore esistono sedimenti marini tanto nel Belgio, in Olanda e nel Norwich, quanto nel Cotentin e nella Loira inferiore, mancano nella regione intermedia (Calvados, Senna, Somma, Pas-de-Calais, Sussex). Per decidere se questa mancanza sia primitiva o dovuta a erosione, che avrebbe cancellato ogni traccia di depositi, e cioè, in sostanza, per sapere se nella carta del Pliocene queste regioni debbano essere indicate come emerse o come sommerse dobbiamo anzitutto confrontare i caratteri litologici e paleontologici dei sedimenti conservati nei due bacini: anglo-belga e celtico. Risulta dal confronto che i depositi pliocenici del Belgio e dell'Inghilterra hanno carattere di crags (formazioni litorali costituite di conchiglie intere o rotte impastate con sabbia) e contengono una fauna molto ricca in elementi di tipo boreale, affini o identici a quelli oggi viventi sulle coste della Norvegia, dell'Islanda, della Groenlandia (Astarte pl. sp., Cyprina islandica, Cardium groenlandicum, Mya truncata, Natica groenlandica, Buccinum groenlandicum e copiosissimi resti di pinnipedi e di cetacei); quelli della Francia occidentale sono invece marne con Nassa prismatica, Kellya ambigua, Murex exculptus, Turritella vermicularis, e altri elementi di tipo mediterraneo. Una così marcata differenza nella composizione delle faune e nelle facies a così breve distanza non sembra potersi spiegare senza ammettere l'esistenza d'una barriera continentale che impedisse le comunicazioni dirette tra i due bacini. La morfologia delle coste e del fondo della Manica tende infatti a confermare un'antica connessione dell'Inghilterra con la Francia, dimostrata anche dal carattere delle faune terrestri dell'Inghilterra nel Pliocene e Pleistocene (Mastodon arvernensis, Elephas meridionalis, ecc.) e da certe caratteristiche nella distribuzione delle faune e flore attuali, che di quelle plioceniche sono le discendenti dirette. Tuttavia la separazione non doveva essere completa, poiché molte specie di molluschi sono comuni ad ambedue i bacini, onde è supponibile che una qualche comunicazione indiretta dovesse esistere ad ovest delle Isole Britanniche.
Come già s'intravvede dall'esempio ora prospettato, questi metodi sussidiarî, ma essenziali, cui dobbiamo ricorrere per integrare i dati desunti dal metodo arealgeologico sono: il metodo litologico, il metodo paleontologico e il metodo biogeografico. A questi, in certi casi, si può aggiungere il metodo diastrofico.
2. Metodo diastrofico. - La geologia cronologica ci insegna che nella storia della Terra con i periodi d'intensa attività orogenetica e vulcanica, nei quali prevalgono le azioni endogene di emersione e di costruzione, si alternano periodi di relativa calma, nei quali prendono il sopravvento le forze esogene, prevalentemente livellatrici e atte a demolire le terre emerse, mentre i sedimenti da esse elaborati si accumulano nel fondo dei mari a formare nuove rocce. Ai periodi di ripiegamento e di emersione delle catene montuose nelle geosinclinali (orogenesi) corrisponderebbe una fase di sommersione nelle regioni tabulari (epirogenesi) e viceversa, per modo che le grandi invasioni del mare (trasgressioni) sulle aree continentali e quindi l'apertura di comunicazioni marittime, con le loro naturali conseguenze (segregazione degli organismi terrestri e ampliamento di habitat degli organismi marini) sarebbero press'a poco contemporanee su vaste regioni; e così pure i più notevoli ritiri del mare e la formazione di connessioni continentali, catene di isole, ecc., con le conseguenti migrazioni di faune e flore terrestri. È chiaro che queste nozioni possono molto aiutare nel tracciare le linee fondamentali d'una ricostruzione paleogeografica.
3. Metodo litologico. - La natura dei sedimenti è spesso atta ad indicare le condizioni ambientali. I sedimenti continentali sono generalmente rappresentati da terra rossa, laterite, bauxite (depositi di decalcificazione o di alterazione); da sabbie con elementi cesellati e lisciati e da löss (depositi eolici indicanti clima caldo asciutto); da morene (depositi glaciali); da travertini (depositi crenici); da ciottolami e sabbie con particolari caratteri nella forma degli elementi e nella stratificazione (depositi torrentizî e fluviali); da argille, torbe, ligniti (depositi lacustri); da gesso e sale (depositi lagunari). Anche una lacuna nella serie sedimentaria se accompagnata da discordanza e da tracce di erosione o di alterazione dovuta a fenomeni subaerei (arrossamento, ferrettizzazione) può essere indizio di ambiente continentale. I sedimenti marini sono diversi a seconda della profondità, della forma dei continenti vicini, della latitudine, ecc. I conglomerati marini sono depositi strettamente litorali e i loro elementi affettano forma a piastrella, diversa da quella dei ciottoli fluviali, glaciali, ecc.; così anche gli elementi delle sabbie litorali, che accennano del pari a mare poco profondo e vicino a terra. Fanghi terrigeni possono deporsi anche nella zona batiale e a maggiore distanza dalla costa: le argille nere appartengono spesso a bacini più o meno segregati, come il Mar Nero. Di regola i calcari indicano mare libero fra terre basse, in clima caldo: i calcari coralligeni costruiti, e anche le facies affini (calcari a rudiste, calcari a nullipore) sono d'acqua battuta e poco profonda. I calcari oolitici si depositano nella zona litorale di mari caldi e battuti, le dolomie in mari pochissimo profondi con bacini segregati, rapidamente evaporanti. Le radiolariti indicano mare assai profondo; così spesso anche le glauconiti. Le diatomiti invece, almeno in certi casi, accennano a mari piuttosto freddi, ma si possono formare anche in ambiente continentale (laghi, lagune) dove abbondino la silice o i silicati; le specie e i generi sono però generalmente diversi. Tufi vulcanici possono essere subaerei o marini, ma i loro caratteri litologici e stratigrafici sono spesso diversi nei due casi. A parte queste indicazioni relative all'ambiente (facies), lo studio di un sedimento clastico, terrigeno, fornisce dati preziosi circa la struttura geologica delle terre emerse, a cui gli elementi sedimentarî furono strappati dall'erosione mentre il brusco succedere di sedimenti clastici grossolani a sedimenti clastici fini in una serie stratigrafica continua, può essere indizio di ringiovanimento del reticolato idrografico nel continente vicino e quindi d'un sollevamento di questo. Il colore dei sedimenti terrigeni può in certi casi fornire un criterio sussidiario per quanto riguarda le condizioni termiche del clima, i prodotti di alterazione subaerea assumendo di solito colore bruno, rosso o giallo nei climi caldi, colore verdastro azzurrognolo o grigio nei freddi. I materiali così prodotti possono poi essere dilavati e sedimentati in mare, ma questo dilavamento può accadere anche con molto ritardo, in un periodo geologico successivo. Per questo e per altri motivi questo criterio deve essere adoperato con estrema prudenza. Fessure di disseccamento nelle argille, croste di argilla disseccate e arrotolate, impronte di gocce di pioggia, impronte di ondulazione (ripplemarks) sono indizî utili per la ricostruzione delle condizioni climatiche o topografiche.
4. Metodo paleontologico. - I fossili servono anzitutto sia a stabilire con esattezza il sincronismo dei depositi e la loro età (cronologia) sia a definire se un sedimento sia continentale o marino, e nel primo caso se fu deposto dal vento, dai ghiacciai, o dalle acque d'una sorgiva, d'un fiume, d'un lago, d'una palude, ecc.; nel secondo in quali condizioni di profondità e di ambiente (paleoecologia). Vale infatti il principio, che organismi sistematicamente affini e morfologicamente simili (specie rappresentative) vivono in condizioni d'ambiente a un dipresso eguali, mentre in organismi anche molto diversi organi che presentino adattamenti analoghi (caratteri adattativi) corrispondono a funzioni identiche e sono quindi indici di condizioni ambientali simili.
Ove si accetti il principio (oggi discusso da taluni) che ogni specie o genere naturale abbia avuto origine in una località unica e ben definita, da un'unica coppia, la distribuzione delle forme fossili (paleocorologia) può fornire inoltre indizî preziosi sulla distribuzione delle terre e dei mari, sulla presenza di ostacoli capaci d'impedire la diffusione degli organismi, sull'esistenza di correnti atte a favorirla, ecc. Due faune o flore coeve e dello stesso ambiente (isomesiche), che a breve distanza presentino composizione profondamente diversa, suggeriranno l'idea di una barriera climatica o geografica, e in questo caso continentale se si tratta di faune marine, marina, o anche montana desertica, glaciale, se si tratta di faune e flore continentali. E reciprocamente faune e flore coeve e isomesiche, che abbiano analoga composizione in regioni anche molto distanti saranno indizio dell'esistenza di continuità continentale (ponti continentali) se si tratta di faune e flore terrestri, di coste continue o di catene d'isole se si ha da fare con faune marine litorali, di estesi bracci di mare, di correnti marine favorevoli, ecc., se con faune marine batiali o pelagiche.
Le conclusioni tratte da questo genere di osservazioni e considerazioni debbono essere accolte però con grande cautela e confermate da osservazioni d'altra natura, o quanto meno non essere contraddette dalle deduzioni tratte dagli altri metodi.
5. Metodo biogeografico. - La biogeografia attuale interessa la paleogeografia, non solo in quanto fornisce per analogia le basi necessarie per l'interpretazione del significato ecologico e corologico delle faune fossili, ma anche di per sé stessa. La distribuzione geografica degli organismi oggi viventi è infatti il risultato di restrizioni o di ampliamenti di habitat (migrazioni) avvenuti in periodi geologici precedenti, in rapporto con l'estendersi o il restringersi dei continenti o dei mari, col costituirsi di nuove forme organiche, con l'estinguersi di altre, col mutarsi dei climi o delle condizioni ambientali. Dall'habitat attuale di talune specie o generi, dunque, si può in certi casi trarre qualche luce circa la storia dei continenti, delle isole, delle plaghe di mare nei quali quelle specie e quei generi si trovano distribuiti, e dedurne la primitiva connessione di regioni oggi disgiunte, il primitivo isolamento di regioni oggi collegate, lo spostamento di correnti marine, il mutamento generale dei climi, ecc. È così che la presenza di ippopotami a Madagascar induce a credere che quest'isola - rimasta separata dall'Africa durante tutto il Mesozoico e il Cenozoico inferiore - abbia preso passeggero contatto col continente vicino verso la fine del Cenozoico, quando quel genere di animali si è costituito. Così pure la presenza di Oxycoccus quadripetalus - pianta propria delle regioni settentrionali d'Europa e di parecchie altre specie di habitat boreale o montano nei paduli della pianura toscana è indizio d'un recente periodo di clima freddo e umido (periodo glaciale) durante il quale l'area di distribuzione di queste e di molte altre piante si ampliò verso il sud, dove tali piante sopravvivono accantonate qua e là, come relitti, con habitat discontinuo.
Storia. - Il termine "paleogeografia" fu introdotto per la prima volta nella scienza da Ami Boué, il quale trattò nel 1875: Einiges zur Paläogeologischen Geographie ovvero - come anche scriveva - geologische Paläogeagraphie. Il concetto tuttavia era assai più antico, e già nel 1834 troviamo un primo tentativo di rappresentazione cartografica per opera di C. Gemmellaro, il quale in quell'anno presentava alla Società geologica di Francia riunita a Strasburgo e presieduta appunto dal Boué, una serie di carte della Sicilia, destinate a mostrare le condizioni dell'isola in quattro diversi momenti della sua storia geologica. Di poco più recenti sono una carta dell'Europa nell'Eocene medio, di É. de Beaumont (1836), una di A. Gressly (1840) del Giura svizzero, e altre di G. G. Balsamo Crivelli (1850) rappresentanti l'Italia in diversi periodi geologici, ecc. Successivamente uscivano in Francia le cartine di M. Hébert (1857), in Inghilterra quelle di R. A. C. Godwin-Austen (1856), in America quelle di J. D. Dana (1863), in Svizzera quelle di O. Heer (1865), ecc.
Come interessante l'Italia vogliamo anche ricordare, di questa più antica fase degli studî paleogeografici, una rappresentazione dell'Italia alla fine dell'Eocene, dovuta a C. Ward (1871), e uno schizzo: L'Italia centrale nel periodo miocenico, pubblicato nel 1874 da C. Capellini a conclusione della sua memoria su La formazione gessosa di Castellina Marittima, memoria nella quale sono anche prospettate le condizioni climatiche della regione. Se negli scopi questi e altrettanti tentativi fatti nello stesso torno di tempo si avvicinano non di rado ai concetti moderni, ne rimangono assai lontani quanto al metodo, essendo in generale fondati soltanto sul metodo della distribuzione geografica e (quelle di dettaglio) su un criterio altimetrico, che più recenti vedute sui fenomeni orogenetici hanno dimostrato fallace, mentre il concetto di facies, con i suoi aspetti paleontologico e stratigrafico, rimane estraneo a questi più antichi saggi, nei quali il nome "paleogeografia" di solito non è adoperato.
Questo è usato di nuovo da R. Etheridge nel 1881, ma prende larga diffusione solo a partire dal 1895, data di pubblicazione d'un ben noto lavoro di F. Canu: Essai de paléogéographie, ricco di ben 57 cartine della Francia, dal quale si può far cominciare un secondo periodo nella storia di queste ricerche. Non è possibile qui passare in rassegna i lavori nei quali vengono trattati argomenti paleogeografici: Ch. Schuchert nel 1910 calcolava già a circa 400 le cartine pubblicate fin allora, e da allora in poi l'attività dei ricercatori si è tutt'altro che affievolita.
Sono in gran parte lavori contenenti cartine della distribuzione delle terre e dei mari basate sia sulla semplice distribuzione dei sedimenti e delle facies, come talune del Burckhardt relative all'America Meridionale, di Ch. Barrois (Gran Bretagna), di E. Dacqué (Africa orientale); sia su altre basi, e tra queste degne di ricordo le cartine a base paleobiogeografica, ad es. quelle di D. White (flora a Gangamopteris), di J. F. Pompeckj (Aucella); del Dacqué (Rudiste), di E. v. Stromer (Nummuliti), di P. Lemoine e R. Douvillé (Lepidocicline), di G. Stefanini (Ammoniti calloviane dell'Asia centrale, Echinidi della regione atlantica), di H. F. Osborn (varî tipi di Mammiferi) di E. W. Berry (numerosi generi di piante), ecc. A queste vanno aggiunte le cartine paleoglaciologiche di A. Penck, di E. Haug, di Ratzel, di A. Supan, di S. Hess, di S. Arrhenius, di E. De Martonne e di infiniti altri. Un'influenza notevole su questi studî fu esercitata da M. Neumayr, che con le sue carte relative al Giura e alla Creta (1883, 1895) mostrò come la paleogeografia non sia solo ricostruzione dei limiti fra terra e mare, ma anche paleobiogeografia, paleoclimatologia e paleobiologia. In questo indirizzo egli era stato preceduto da J. Marcou (1857-60) e fu largamente seguito da molti, fino a V. Uhlig (1911). Né minore importanza per la diffusione di questo tipo di ricerche ebbero le cartine paleogeografiche pubblicate da A. De Lapparent nelle varie edizioni del suo Trattato di geologia comparse fra il 1885 e il 1906 e per l'America quelle di W. B. Scott (1907), quelle di Chamberlin e Salisbury (1906) e la serie di 50 cartine dello Schuchert (1910) rappresentanti l'America Settentrionale in altrettanti "momenti della sua storia". Un carattere speciale hanno le cartine pubblicate da E. Haug (1911) nel suo trattato, nelle quali sono distinte le zone marine persistenti (geosinclinali) dai mari epicontinentali, più labili e transitorî. In questo tempo, cioè nell'ultimo decennio del sec. XIX e nel primo quindicennio del XX, appaiono numerosissimi saggi di cartine paleogeografiche, ora limitate a singole regioni, come quelle di A. Jakes Browne della Gran Bretagna, quelle del Penck dell'Europa, quelle di G. Vasseur e G. F. Dollfuss, di J. Gosselet, di Ch. Depéret e Fontannes della Francia, quelle di A. G. Nathorst della Svezia, quelle di C. D. Walcott, di S. Weller, di H. Z. Williams, di Logan, di Mathews, di C. P. Berkey, di J. M. Clarke, ecc., per l'America, ora invece riguardanti tutta la Terra, come la cartina del Permico di E. v. Kohen, quella del Devonico medio di F. Katzer, e quella di D. Kreichgauer indicanti notevoli variazioni nella posizione dei poli. Un forte spostamento dei poli è rappresentato anche da M. Semper (1896), nelle sue cartine paleoclimatologiche (atmosfera e correnti marine nell'Eocene). Né debbono essere dimenticate le carte paleogeografiche basate esclusivamente su dati tratti dalla biogeografia attuale, come talune di A. E. Ortmann, di H. v. Jhering, ecc.
Un tipo particolare di letteratura paleogeografica, essenzialmente sintetico e altamente interessante, è quello rappresentato da alcuni capitoli dell'opera magistrale di E. Suess (1885-1904), nei quali sono genialmente combinati i dati forniti dalla tettonica, dalla stratigrafia, dalla biogeografia e dalla geografia. Allo stesso tipo appartengono anche la storia della Terra e della vita di J. Walther (1908) e i due interessanti saggi sulla storia geologica dell'Atlantico e del Pacifico di J. W. Gregory.
La congerie di fatti posta in luce da tante ricerche, condotte in tempi diversi con tanta diversità di scopi, di estensione, di criterî, rendeva però indispensabile un'esposizione ordinata dei principî, un generale raccordo dei metodi, un'organizzazione della materia di questo giovane ramo della scienza della Terra. Questa necessità comincia a farsi sentire sopra tutto attorno al 1910, ed è in quegli anni che a brevissima distanza di tempo compaiono parecchie opere dirette a tal fine: opere parziali come quella di Th. Arldt (1909) Paleogeografia e sismologia, come quella di K. Andrée sulla petrografia sedimentaria in servizio della paleogeografia (1913), o come quelle di M. Semper, di F. v. Kerner, di W.R. Eckardt (1921) sulla paleoclimatologia; opere generali come la Paleogeografia di M. Kossmat, i Fondamenti della ricerca paleogeografica di Semper (1908), i Metodi e significati della paleogeografia di Arldt (1910), i Principi di paleogeografia di B. Willis (1910), i Fondamenti e metodi della paleogeografia di E. Dacqué (1915), i due grossi volumi del Manuale dipaleogeografia di Arldt (1919-22). Dopo queste opere fondamentali numerosissimi sono i contributi parziali, spesso inclusi in lavori di geologia regionale o di stratigrafia o di paleontologia e ispirati più o meno direttamente ai principî in esse enunciati, per opera di E. v. Stromer, E. Philippi, A. Strigel, J.F. Pompeckj, H. Douvillé, Stefanini, Gregory, P. Lamare, ecc. Un'analisi esauriente della storia e della letteratura di queste ricerche si troverà nei trattati e manuali precedentemente citati, nei quali tuttavia la bibliografia italiana è trascurata quasi interamente.
Un cenno speciale meritano, per il metodo originale e sommamente accurato, alcune monografie elaborate recentemente (1929-33) da G. Dainelli, e dai suoi allievi P. Videsott, A. Sestini e E. Minucci come parti d'uno studio generale della paleogeografia del Pliocene e Postpliocene italiano. In ciascuna di queste monografie sono descritte minutamente le formazioni plioceniche di singole limitate regioni, sono discusse e stabilite, in base alle faune, le condizioni batimetriche di ciascuna formazione, e queste sono separatamente indicate su una carta, la quale rappresenta così la distribuzione dei sedimenti e delle facies per ogni regione; una seconda carta, nella quale sono indicati i sollevamenti subiti dalle formazioni stesse, rappresenta in sostanza gli spostamenti verticali di età postpliocenica, e si accosta un po' per il concetto alla carta isobasale della Scandinavia dovuta a A. C. Ramsay.
Quando la serie delle monografie sarà completa per tutta l'Italia esse costituiranno nel loro insieme e nelle conclusioni generali uno studio paleogeografico regionale esaurientemente documentato e sicuramente condotto come nessun altro precedente.
Intanto, però, fino dal 1915 veniva enunciata da A. Wegener la teoria della deriva dei continenti (v. orogenesi), teoria basata in gran parte su fatti biogeografici e paleobiogeografici e destinata a sconvolgere (se accettata) le basi della paleogeografia tradizionale. Parte questa, come si è visto, dal principio, che durante i tempi geologici le masse continentali abbiano potuto ripetutamente ripiegarsi e sollevarsi, fratturarsi e sprofondarsi, sommergersi ed emergere, subire cioè spostamenti verticali, ma abbiano conservato la loro posizione reciproca. Le moderne vedute geotettoniche cominciate a diffondersi solo ai primi del sec. XX avevano un po' scosso questo principio, ma gli spostamenti orizzontali ammessi da quella non oltrepassavano qualche decina di chilometri, e non influivano molto sulle ricostruzioni paleogeografiche, sempre largamente approssimative. La teoria della deriva e le varie ipotesi fiorite a complemento di quella ammettono invece che i continenti abbiano in sostanza cambiato poco di forma e molto e ripetutamente di posizione sulla Terra, per modo che quelle affinità di depositi, di faune, di flore fossili, e viventi, che la paleogeografia tradizionale invoca come argomento in favore di ipotetici ponti continentali, oggi sommersi, sarebbero per Wegener la migliore prova di un'antica continuità territoriale, più tardi interrotta per l'effetto non di sommersione, ma di amplissimi e spesso complicati spostamenti delle masse continentali staccatesi dalla primitiva Pangea e andati alla deriva.
I fatti appurati dalla paleogeografia permangono, ma sono prospettati sotto una luce del tutto nuova. Si comprende facilmente come la recente ardita teoria dia nuovo impulso alle ricerche, non solo da parte dello stesso Wegener, che di fatti paleogeografici ha materiato alcuni capitoli del suo libro, e un secondo lavoro di paleoclimatologia in collaborazione con W. Köppen, ma anche per opera di altri che s'ispirano agli stessi principî, come A. Du Toit (1927) che istituisce un parallelo tra l'Africa meridionale e l'America Meridionale ponendo in rilievo analogie tali, da far pensare che i due continenti siano realmente le parti, staccate e allontanate, d'un unico tutto.
Tutti i lavori qui ricordati e quelli anche più numerosi di cui si è dovuta tralasciare la citazione, in quanto si valgano di dati paleobiogeografici e biogeografici, partono esplicitamente o implicitamente dal principio, enunciato da Canu, che specie identiche, le quali compaiono in bacini diversi, dimostrano l'esistenza d'una comunicazione fra questi. Esiste però, tra le varie teorie dell'evoluzione, la teoria dell'ologenesi enunciata da D. Rosa nel 1918, e più tardi applicata da G. Montandon alle razze umane, secondo la quale ogni specie prenderebbe origine, per evoluzione da cause interne, in tutti gl'individui della specie madre e quindi su tutta l'area occupata da questa (poligenismo ologenetico).
È chiaro che una concezione di questo genere, che lo stesso Rosa non ha mancato, del resto, di porre in rapporto con i fatti della biogeografia, e in armonia con la quale Ch. Fraipont e S. Leclerc hanno recentemente illustrato, anche cartograficamente, numerosi esempî di restrizioni di habitat, muterebbe sostanzialmente il significato paleogeografico dei fatti posti in luce dalla biogeografia e dalla paleobiogeografia. Le affinità faunistiche tra bacini diversi potrebbero infatti essere messe in rapporto, anziché con migrazioni da un centro di dispersione attraverso ponti continentali o con l'aiuto di correnti, con una contemporaneità dell'emersione delle terre (o di formazione dei mari) e quindi del loro popolamento (G. Colosi), le nuove specie avendo maggiori probabilità di affermarsi in regioni nuove e ancora spopolate.
In sostanza questa teoria, pur non alterando il valore fondamentale degli altri metodi della paleogeografia (arealgeologico, diastrofico, litologico, paleontologico pro parte) tende a infirmare l'importanza dei dati paleobiogeografici e biogeografici o per meglio dire a mutarne il significato. Ma queste nuove vedute non hanno avuto finora applicazione sistematica nel campo della paleogeografia.
Risultati principali delle ricerche paleogeografiche. - Non è possibile riassumere con la necessaria brevità i molteplici risultati raggiunti finora da un così complesso ramo di scienza quale è la paleogeografia. Più dunque a titolo di esemplificazione, che come una completa, se pur sommaria, esposizione, si accennerà ai principali tra questi risultati, sia nel campo della paleogeografia stricto sensu sia in quello della paleobiogeografia e della paleoclimatologia. Per i varî periodi e sottoperiodi in cui è divisa la storia della terra i trattatisti hanno cercato di ricostruire la carta della distribuzione delle terre e dei mari, delle catene montuose, dei vulcani, delle acque continentali, dei ghiacciai, ecc. Passeremo in rivista le condizioni paleogeografiche di qualcuno di questi periodi, notando che in generale i nomi indicanti continenti terminano in -is (o -ide), quelli indicanti mari in -ico. Già nel Cambrico, agl'inizî della storia della vita sulla Terra, si delinea, secondo la gran maggioranza dei paleogeografi (fig.1) l'esistenza di quattro grandi masse continentali: nell'emisfero nord il Continente Nordatlantico o Nordatlantide, comprendente l'America Settentrionale, la Groenlandia e le Svalbard; e la Paleartide a cavallo fra l'Europa e l'Asia; nell'emisfero australe la Sudatlantide abbracciante gran parte dell'America Meridionale e quasi tutta l'Africa; e la Maleside comprendente parte dell'Australia e della Malesia e forse connessa alla Paleartide. Questi ultimi due erano bagnati a sud dall'Antartico e separati dall'"Indico", che si spingeva a lambire le coste meridionali della Paleartide, mentre il Pacifico occupava il bacino attuale dello stesso nome, estendendosi largamente sull'Asia orientale, il Mediterranico (Mesogea) separava più o meno completamente i due continenti boreali dai due australi e l'Artico bagnava a nord i primi.
Nell'America Settentrionale due canali diretti secondo i meridiani si delineano: uno occidentale sull'allineamento delle Montagne Rocciose mette in comunicazione l'Artico col Pacifico, l'altro orientale, parallelo alla costa, va dal Labrador al Golfo del Messico (fig. 2).
Fino dal Cambrico superiore però si delinea una situazione che perdurerà a lungo successivamente, con l'emergere di un continente Gondwanide o Gondwana tra la Sudatlantide e la Maleside, costituendosi così un'unica massa continentale australe, che prende il nome di Holonotide: continente equatoriale di Haug o terra di Gondwana in senso lato. La somiglianza delle faune marine tra il distretto atlantico dell'America Settentrionale e l'Europa settentrionale dimostrerebbero facilità di comunicazioni tra i due lati del bacino e permettono al Haug di affermare l'esistenza di una provincia zoogeografica nord-atlantica caratterizzata da Olenus e Paradoxides; una provincia pacifica comprendente la Cina, l'Australia e l'America occidentale sarebbe caratterizzata invece dai generi Ceratopyge e Dicellocephalus. La vasta distribuzione del genere Archaeocyathus, noto nella Scozia settentrionale, nel Labrador e in Siberia, in Sardegna, in Spagna, in California, nell'Africa sud-occidentale e nell'Australia meridionale fa pensare a un clima uniforme - almeno nel Georgiano o Cambrico inferiore: la localizzazione di depositi terrigeni rossi nelle basse latitudini invece induce il Walther a supporre che a queste corrispondesse anche allora una zona di clima equatoriale, donde si dedurrebbe un principio di differenziazione climatica e una situazione dei poli non diversa dall'attuale.
Finalmente la scoperta di tilliti, cioè di argille glaciali con blocchi striati, in Norvegia, in Cina e nell'Australia meridionale può far pensare a un clima rigido in certe regioni della terra, ma si può anche spiegare diversamente, come un effetto della grande altezza delle catene montuose di recente emerse, in seguito alla fase orogenetica prodottasi alla fine del Precambrico. Il Cambrico è invece un periodo tranquillo per quel che riguarda sia il formarsi di nuove catene sia l'attività vulcanica ordinariamente connessa: colate basaltiche di scarsa entità sono tuttavia note in Boemia, nel Galles, a Terranuova e nella Colombia Britannica e intrusioni porfiriche nelle Ardenne.
Nel Silurico l'assetto dei continenti varia a poco a poco verso quello che troveremo sviluppato nel Devonico; tre provincie zoogeografiche non molto marcate sono riconoscibili (nordeuropea, boema e americana), le differenze fra le quali tuttavia non sarebbero imputabili a differenze del clima, che sembra fosse uniformemente caldo su tutta la terra, come sarebbe dimostrato dalla distribuzione ubiquista dei coralli costruttori, mentre indizî di un clima arido sarebbero forniti dai depositi gessosi e salini della Siberia e degli Stati Uniti.
Verso la fine del periodo s'inizia nella parte occidentale dell'America Settentrionale, nell'America Meridionale, nel Galles e in Inghilterra una fase orogenetica (Caledoniana) accompagnata da trabocco di lave andesitiche, formazione di tufi, intrusioni diabasiche, granitiche, sienitiche, ecc., fase che avrà il suo maggiore sviluppo nel Devonico.
Nel Devonico (fig. 3) le masse continentali più importanti e generalmente ammesse sono tre: Nordatlantide (probabilmente saldata alla Scandide) e Angaride (Siberia orientale) nell'emisfero settentrionale, e continente equatoriale o Holonotide, risultante dalla fusione della Sudatlantide, della Gondwanide (stricto sensu) e forse della Maleside in quello meridionale. Continenti minori sono la Manciuride, la Neotropide (Colombia, Ecuador), la Mackenzide, la Siouxia, l'Honduride (America Settentrionale), ecc.
Oltre ai tre grandi oceani (Pacifico, Artico e Antartico) esiste la fascia trasversale del Mediterranico o Tethys di Suess (Mesogea di M. Douvillé, Mediterraneo centrale di Neumayr) donde si diparte verso nord, attraverso la Siberia occidentale il Mare Obico, verso sud lo stretto canale separante almeno in parte la Maleside dal resto dell'Holonotide. Anche gran parte dell'America Meridionale era occupata dal mare nel Devonico, mentre nell'America Settentrionale aree continentali emerse in corrispondenza dei Grandi Piani e delle Montagne Rocciose separavano almeno a tratti il Pacifico dal mare che bagnava le coste occidentali della Nordatlantide. Sono distinte una regione zoogeografica americana, contenente elementi sudamericani (Leptocoelia, Flabellites, Tropidoleptus carinatus, Vitulina pustulosa ecc.) che mancano nella provincia europea. Questa comunicava tuttavia col Mare Neotropico (Argentina, Brasile) attraverso il Sahara, dove si trovano commisti elementi neotropici e elementi mesogei. Le distinzioni introdotte entro i limiti del Devonico europeo (Erciniano e Renano) anziché essere in rapporto con distinzioni paleogeografiche tengono a differenze di facies. Nei rapporti del clima sono da ricordare le tilliti glaciali della montagna della Tavola (Capo di Buona Speranza) accennanti a una differenziazione dei climi (secondo taluni a una localizzazione colà del polo antartico); mentre la frequenza di colorazioni rosse negli strati lagunari o eolici (Old Red Sandstone), caratteristici specialmente di paesi ad alte latitudini nell'emisfero boreale, accennerebbero a una zona tropicale. La fase orogenetica iniziata alla fine del Silurico (fase caledoniana) si continua nel Devonico in Norvegia e in Scozia, donde trae il nome e dove la catena nuovamente formatasi si addossa con ampi carreggiamenti a quella più antica della fase huroniana. Catene montuose sorgono pure nella contea di Devon, nelle Ardenne, nel Taunus, in Turingia, in Moravia, ecc. Sulle piattaforme continentali si hanno contemporaneamente movimenti verticali di sommersione o di emersione (epirogenici) che restringono o ampliano la terra ferma: specialmente alla fine del periodo prevale un'ampia trasgressione. L'attività vulcanica è anche largamente diffusa nel Devonico, ancora in rapporto con l'orogenesi. La "vecchia arenaria rossa" della Scozia contiene dicchi di microgranuliti e espandimenti diabasici e andesitici o porfiritici. Anche nella Germania centrale e nel Devonshire prevalgono diabasi e melafiri coi loro tufi. Gli stessi tipi di rocce si ritrovano in Bretagna, nel Morvan, negli Altai, ecc.
La distribuzione delle terre e dei mari nel periodo Antracolitico non differisce di molto da quella del Devonico. Se prendiamo per esempio la cartina paleogeografica del Permico inferiore compilata da Arldt, (fig. 4), troviamo ancora nell'emisfero nord la Nordatlantide e l'Angaride o Angara, separate dal braccio di mare Volgico, che congiunge l'Artico con la Mesogea o Mediterranico. Nell'emisíero australe sta la Holonotide o Gondwana (lato sensu) estesa dal Brasile all'Africa (Sudatlantide) e da questa per Madagascar e l'India fino all'Australia (Gondwanide stricto sensu). Continenti minori occupano la Nuova Guinea, la Colombia (Neotropis) e l'Argentina con la Patagonia (Neonotide). Pacifico e Atlantico sussistono tuttora. La Maleside scompare nel Carbonico. Pur fra alternanze di avanzate e ritiri del mare, l'Antracolitico e specialmente il Carbonico medio e il Permico, segnano un periodo geocratico durante il quale il regime marino finisce per essere sostituito in molti luoghi, come nelle Dinaridi, nelle Montagne Rocciose e nella parte occidentale degli Stati Uniti, da un regime lagunare o addirittura da terre emerse.
Nei mari le distinzioni paleobiogeografiche, non molto accentuate nel Carbonico inferiore, si fanno poi via via più marcate. Nel Carbonico superiore e nel Permico si distinguono: una provincia settentrionale (Russia, Asia centrale e America Settentrionale) con Omphalotrochus Whitneyi, Griffithides scitula, ecc.; una provincia equatoriale o mesogea con organismi a scheletro molto ricco in calcare, come Lyttonia, Richtofenia e Scacchinella, note nell'India, nelle Alpi, in Sicilia, e nel Texas; e finalmente una provincia australe (Australia e Nuova Zelanda) con Lamellibranchi (Liomyalina, Eurydesma) e Brachiopodi (Spirifer vespertilio, Martinia Darwini, Productus brachythaerus, ecc.) speciali, alcuni dei quali si spingono fino al Salt Range nell'India. Elementi nuovi di artici scendono nella zona europea dalla provincia boreale nel Permico medio e superiore, mentre in America e nella provincia equatoriale le faune locali si sviluppano senza introduzione di elementi esotici.
Marcatissime sono le differenze tra le faune terrestri permiche del Texas, dell'Europa e dell'Africa australe, così da far pensare ad una separazione non solo dell'Holonotide dalla Nordatlantide, ma anche (almeno in parte) dei due settori di quest'ultima: v. Neartide e Scandide. Esistono invece rapporti faunistici assai stretti fra i continenti a sud della Mesogea: l'area di abitazione di Mesosaurus si estende nel Carbonico superiore dall'Africa australe all'Uruguay e al Paraná, così che la separazione della Neonotide dall'Holonotide non è più antica del Permico. L'Holonotide o continente di Gondwana è caratterizzata a partire dal Carbonico, ma specialmente nel Permico, da una flora particolare, la flora a Glossopteris, Gangamopteris, Phyllotheca, Noeggerathiopsis, ecc., flora che si ritrova con caratteri identici in Australia, a Borneo, nell'Indocina, nell'India, nell'Africa meridionale, alle Isole Falkland, e nell'America Meridionale, e caratterizza così una provincia botanica australe, in contrapposto coi continenti dell'emisfero boreale, nei quali, dall'Europa alla Cina e dall'America Settentrionale all'Europa prevalgono invece felci, Sfenofillee, Equisetali, Lepidodendri e Cordaitali. Sono queste le piante cui è dovuta la formazione dei grandi depositi di carbon fossile della "cintura carbonifera", che si estende dalla Cina attraverso l'Europa centrale oltre l'Atlantico fino all'America Settentrionale. Nel Brasile meridionale e al Transvaal elementi delle due flore sono commisti; ma la flora a Glossopteris unitamente a certi rettili primitivi sudafricani (Pareiasaurus) penetra anche per vie imprecisate fino nel nord della Russia. L'esuberanza delle flore boreali, l'abbondanza in queste di piante con fusto alto e privo di anelli annuali, con foglie finemente divise, ecc., indicano, specialmente nella prima parte dell'Antracolitico, un clima uniformemente umido e caldo, tropicale, con cielo probabilmente coperto; la flora a Glossopteris povera di essenze con piante dalle foglie a lamina ampia e intera e dai fusti apparentemente non arborei, indica invece un clima meno caldo, e secondo taluni sarebbe addirittura una flora di tundra. Questa flora è in rapporto infatti con estesi e caratteristici depositi glaciali a tilliti, ciottoli striati, deposti su superficie polite e striate, che si riscontrano specialmente nell'Africa Australe, nell'India (Gondwana, Salt Range), nell'Australia (Tasmania, Queensland), nell'America Meridionale (Argentina, Uruguay, Brasile, Bolivia) e alle Isole Falkland, e che hanno dato argomento ad ammettere una fase glaciale permo-carbonica (glaciazione di Dwyka). D'altra parte, a cominciare dal Carbonico medio e superiore, ma soprattutto nel Permico, si osservano nella Russia orientale, nella Germania del Nord, nelle Alpi Meridionali, agli Stati Uniti depositi di arenarie e argille rosse con gesso e sale, che denotano un clima caldo e arido, di deserto o di steppa. La distribuzione di questi depositi, indicanti gli uni un clima corrispondente alla zona delle piogge equatoriali, gli altri a quella della tundra circumpolare, altri ancora (in parte un po' più recenti) a quella dei deserti e delle steppe intertropicali, è però assai difficile a spiegarsi con l'ipotesi di una glaciazione che avrebbe dato una calotta glaciale australe estesissima, mentre manca ogni traccia sicura di calotta boreale; più facile sembra a molti spiegare i fenomeni con l'ipotesi di spostamenti del polo, ove la si associ alla teoria della deriva dei continenti di Wegener, secondo la quale nel Permo-Carbonico i varî continenti formavano ancora un'unica massa (Pangea) in un'area ristretta della quale, in corrispondenza della convergenza dell'America Meridionale, dell'Africa australe, dell'India continentale, e dell'Australia, si sarebbe aggirato il Polo Sud, mentre a circa 90° da quest'area corre la "cintura carbonifera", prima fiancheggiata poi invasa dai depositi steppici (v. fig. 5). È infatti questo uno dei più brillanti argomenti invocati dal Wegener a sostegno della sua teoria.
Intensi ripiegamenti generano in questo periodo catene montuose sia nel paese di Galles, sia nell'Europa centrale (Francia, Boemia, Moravia), sia in molte parti dell'Europa mediterranea (Alpi Carniche, Asturie, Pirenei, Catena Betica) e dell'Africa del Nord (Atlante) sia infine nell'Asia centrale (Altai, Kuen Lun, Yünnan) nel Himālaya, nelle Montagne Rocciose, in Bolivia, nel Bacino delle Amazzoni, ecc. In Europa, là dove le pieghe dell'Antracolitico non furono cancellate dai movimenti successivi, prevalgono due direzioni: NO.-SE. (catena armoricana) e SO.-NE. (catena varisca o erciniana). Da quest'ultima trae il suo nome la fase orogenetica dell'Antracolitico (fase erciniana o armorico-varisca), la quale fu accompagnata da grandiosi fenomeni vulcanici in Scozia (basalti, labradoriti, andesiti, limburgiti, fonoliti, trachiti, picriti ecc.) in Bretagna, nel Harz, nelle Alpi Carniche, in Sassonia, in Turingia, ecc.
Il disseccamento del Mare Volgico determina fino dal Trias medio la fusione della Nordatlantide e dell'Angaride in un unico continente boreale, Holartide, che fronteggia l'Holonotide o continente di Gondwana (sensu lato), da cui lo divide lo stretto canale della Mesogea; ma già nel Giurassico medio (fig. 6) la Nordatlantide e la Paleartide (risultante dalla fusione della Behringide, dell'Angaride e della Scandiide) sono separate, e un braccio di mare apertosi tra l'Africa e Madagascar (Mare Etiopico) spezza anche l'unità del continente di Gondwana, formando da un lato la Sudatlantide o continente Africano-Brasiliano, dall'altro una Gondwanide (stricto sensu) o continente Australo-Indo-Malgascio, costituito da Madagascar (Lemuride), dalla Malesia (Maleside) e dall'Australia (Paleonotide); elementi destinati a separarsi alla loro volta prima della fine del Giurassico nel Calloviano (fig. 7), col formarsi del Mare Indico e del Mare Etiopico, che ai due lati della Lemuride mettono in comunicazione l'Antartico con la Mesogea. Questa si spinge fin nel cuore dell'Asia, mentre un lembo orientale della Sudatlantide rimane isolato a costituire la Farsia (Oman-Socotra-Migiurtinia). Dal punto di vista paleobiogeografico, oltre alla provincia Boreale (Artica) (donde scendevano verso il sud Cosmoceras e poi Aucella) all'Australe (donde salirono verso il nord le Trigonia) e alla Mesogea, con le sue regioni alpina e himalayana, ambedue caratterizzate da facies ammonitiche di mare caldo, profondo ed aperto (Phylloceras, Lytoceras), si può riconoscere l'esistenza di una regione etiopico-malgascia, neritica e marginale a lamellibranchi e brachiopodi, Dicoelites, ecc., analoga a quella nordafricana e cimmeriocaucasica, mentre le regioni malese, nipponica e andina assumono caratteri proprî.
Se il frazionamento del continente di Gondwana e la conseguente formazione dei primi abbozzi dell'Indico (Oceano Indiano) rimontano al Giurassico medio, il frazionamento della Sudatlantide e l'estensione dell'Atlantico verso il sud s'iniziano solo nel Cretacico medio. La carta paleogeografica del Cretacico medio-superiore (fig. 8) mostra nell'emisfero boreale le due grandi masse continentali Neartide (o Nordatlantide) e Paleartide o Continente Sino-Siberiano e una massa minore - la Tirrenide (Catalogna, Corsica, Sardegna, Provenza, Toscana), in quello meridionale i tre rottami della Holonotis e cioè: Paleonotide (Australia), Lemuride (Madagascar e Deccan) e Sudatlantide o Continente Africano-Brasiliano, nel quale ultimo si aprono due profonde insenature, l'una lungo la costa occidentale dell'Africa, l'altra nel bacino del Rio delle Amazzoni, separando la Sudatlantide in tre grandi lobi (secondo alcuni tre continenti distinti): Etiopide, Neonotide e Neotropide.
Dal punto di vista della paleobiogeografia nella seconda metà del Cretacico è facile identificare nella Mesogea (fig. 9) una provincia equatoriale, caratterizzata da Orbitolina e più tardi da Orbitoides, da coralli costruttori, da gasteropodi a grosso guscio e specialmente da lamellibranchi costruttori (Rudiste), faune che dalle regioni alpine e mediterranee, dal Himālaya, dalla Persia, dalla Melanesia si spingono a nord fino nel Bacino di Parigi, nelle Ardenne, in Boemia, ma non raggiungono né i Carpazî né la Crimea, né il Caucaso, né, in Asia, il Turkestān o il Giappone, mentre a sud, calcari e rudiste esistono in Somalia e nel Tanganykaland, ma non a Madagascar né nel Natal o nel Pondoland, né in Australia. Anche in America ritroviamo queste faune al Messico, nel Texas, alle Antille, ma non nel Delaware, nel Canada, in California, né nell'America Meridionale.
Nelle regioni che sono situate a nord e a sud della provincia equatoriale mesogea così definita, dovevano dunque esistere una provincia boreale e una provincia australe, probabilmente temperate, alle quali però non è molto agevole attribuire caratteri faunistici, che non siano quello negativo della mancanza di organismi costruttori: tuttavia nel Senoniano vi si riscontrano Belemnitella, Micraster, Ananchytes, Crania, Magas, forme della Creta Bianca, rare o assenti nella provincia equatoriale ed estese solo fino al nord delle Alpi, ai Balcani, alla Crimea, al Caucaso, nella Siberia, al nord della Persia, nell'Alasca, nella Coastal Plain americana, e nell'emisfero australe al Queensland. Nella provincia equatoriale si può introdurre una distinzione ulteriore in varie regioni, comunicanti ma distinte, e caratterizzate da forme particolari di rudiste: regione orientale (alpina e mediterranea, Anatolia, Persia) regione occidentale (Francia e Catalogna), regione americana (Messico e Texas). Una regione africana povera di rudiste, ma caratterizzata da Exogyra Overwegi, Roudaireia auressensis, Noetlingia, ecc., si estende dal Portogallo per l'Algeria, la Libia, l'Egitto, la Siria, fino al Belucistān e al Tibet, spingendosi a sud attraverso il Sahara fino all'Angola. Più uniformi sono naturalmente le faune batiali della Mesogea, con Stenonia, Stegaster, Cardiaster, Ovulaster, Offaster, ecc.
Queste distinzioni biogeografiche sono certamente in rapporto con fatti climatologici; non è però da credere che le regioni boreali avessero un clima freddo; questo era piuttosto temperato, come lo dimostrano le flore del Cretacico superiore della Groenlandia, nelle quali mancano, è vero, le palme e sono ormai scomparse le cicadee (che esistevano ancora al Cenomaniano), ma sussistono tra le dicotiledoni predominanti, essenze di clima temperato e caldo-temperato.
Dal punto di vista del diastrofismo il Cretacico, a differenza del Giurassico, che fu un periodo talassocratico di grande tranquillità, è caratterizzato da movimenti ripetuti nelle regioni geosinclinali e da una contemporanea invasione del mare (trasgressione) nelle aree continentali, specialmente della zona equatoriale, trasgressione che si inizia nell'Aptiano e culmina nel Cenomaniano, mentre nel Cretacico superiore prevale un movimento opposto, d'inondazione nelle geosinclinali e d'esondazione nelle regioni tabulari. Il vulcanismo è attivo specialmente nei Pirenei (intrusioni granitiche e sienitiche), in Francia (lherzoliti accompagnate da fenomeni geyseriani), alle Antille (serpentine). Grandiose espansioni specialmente basaltiche coprenti centinaia di migliaia di kmq. di estensione in India, in Arabia, in Etiopia s'iniziano nel Cretacico superiore per continuarsi nel Terziario.
Nel Paleogenico (Eocene; figura 10) l'emisfero boreale appare diviso in tre masse continentali: Scandide (o massiccio scandinavo), Angaride, (o Continente Sino-Siberiano) e Neartide o Nordatlantide, i due ultimi forse comunicanti tra loro, mentre la Neartide (includente le Isole Britanniche) e la Scandide erano a volta a volta riunite o separate da un canale, che metteva in comunicazione il mare Scandico con l'Atlantico. Nell'emisfero australe Neonotide ed Etiopide secondo i più sono riuscite a sbarrare l'Atlantico meridionale (continente africano-brasiliano), ma frastagliate dal mare, che dalla Mesogea si spinge lungo le coste del Senegal fino al Capo Verde e dall'Antartico, lungo le coste africane, fino al Golfo di Guinea. Madagascar, che al principio del periodo comunicava con le coste dell'Etiopide, ne è poi separata dal mare Etiopico, che scende a formare il canale del Mozambico: essa forma con l'India Peninsulare un "arcipelago indo-malgascio" residuo della Lemuride. La Paleonotide infine riunisce la parte settentrionale e orientale dell'Australia alla Nuova Guinea e alla Nuova Zelanda. Persiste dal Golfo del Messico al Mediterraneo e dal Mediterraneo attraverso la Persia, il Tibet, la Birmania, e la Malesia, la fossa mesogea, caratterizzata ora dalle grandi Nummuliti, Assiline e Ortofragmine, dai coralli costruttori, dai cerizi giganteschi, da Velates Schmideliana, da una pleiade di echinidi: Conoclypeus, Amblypygus, Porocidaris, ecc.: faune neritiche di mari caldi, che dalla Mesogea si spingono a nord fin nel Bacino di Parigi, a sud fino a Madagascar, e che con la loro presenza alle Antille dimostrano di per sé l'esistenza di una costa sbarrante l'Atlantico meridionale a bassa latitudine, poiché certamente non poterono migrare lungo le coste della Neartide, troppo settentrionali; mancano infatti nell'Eocene del Maryland e della Coastal Plain, ove troviamo elementi boreali, comuni all'Europa occidentale e all'America orientale, come Venericardia planicosta.
Il Mare Etiopico si stacca dalla Mesogea in corrispondenza della Persia, dell'Arabia, dell'India, occupa la Somalia e lambisce le coste dell'Africa orientale, prolungandosi come si è detto per il canale di Mozambico fino all'Antartico; un secondo canale si delinea all'est degli Urali (canale Obico) e separa l'Angaride dalla Scandide, mettendo l'Artico in comunicazione con la Mesogea. La presenza di questo canale fa ritenere che le somiglianze riscontrate nelle faune mammologiche eoceniche di America e di Europa siano dovute a comunicazioni esistenti a nord dell'Atlantico, anche se gli Artiodattili hanno avuto origine, come si pretende, nell'Asia. D'altra parte la presenza di elementi africani come Orycteropodi e Hyracoidi nelle faune eoceniche di Patagonia conferma l'esistenza di un ponte attraverso l'Atlantico meridionale; a meno che si preferisca attribuire questi rapporti faunistici a una minor distanza dei continenti come è postulato dalla teoria di Wegener (fig. 11) o ammettere un popolamento indipendente, secondo il poligenismo ologenetico del Rosa. Se non è possibile dire qualcosa dei caratteri zoogeografici dell'Antartico si può affermare che l'Artico ospitava nell'Eocene generi anche oggi prevalentemente proprî di mari freddi: Astarte, Cyprina, Thracia, Axinus, forme che a volta a volta si spingono fino al Bacino di Parigi, e vi sono sopraffatte da elementi mesogei quando le comunicazioni tra i due bacini si fanno più facili. Intensi moti orogenetici accompagnati da attività vulcanica continuano nell'Eocene i moti iniziati nel Cretacico per raggiungere nell'Oligocene e nel Miocene il loro acme, onde possono essere considerati come prodromi della fase orogenetica alpina, che culmina appunto in quei periodi.
È probabilmente ai primordi del Neogenico (v.), e più precisamente dal Miocene (fig. 12) che il continente Africano-Brasiliano o Sudatlantide o Archelenis si sprofonda in gran parte, e l'Atlantico meridionale, mettendo l'Antartico in comunicazione con la Mesogea, viene a separare la Neonotide (America Meridionale) dall'Etiopide (Africa). Anche l'Oceano Indiano e il Pacifico assumono, all'ingrosso, nel Miocene i loro contorni attuali; il Mar Rosso però non si è ancora formato, e la Mesogea, almeno verso la fine del periodo, risulta distinta in tre segmenti: uno antilleano, il secondo indo-pacifico, il terzo mediterraneo con fauna in parte autoctona, in parte inquinata da elementi provenienti dagli altri due settori. Certi organismi litorali, come ad esempio gli Scutellidi, permettono tuttavia con la loro localizzazione, di definire particolari regioni o distretti (fig. 13). Neartide e Paleartide sono separate ormai dall'Atlantico settentrionale, di cui lo Scandico fa parte integrante, spingendosi fino nel Golfo Anglo-Belga con le sue faune di tipo prevalentemente boreale: Saxicava arctica, Lucina borealis, Astarte, Isocardia, cetacei, pinnipedi, ecc.
Le Isole Britanniche sono saldate alla Paleartide e separano il fondo di questo golfo dal bacino celtico della Mesogea. L'Europa riceve cospicue aggiunte alle sue faune mammologiche dall'Egitto e dall'Asia (Proboscidiani, Rinoceronti, Suidi, Antilopi, Giraffe, Orsi, Iene, Scimmie antropomorfe) e anche dall'America Settentrionale (Equidi, Leporidi) per la via dello stretto di Behring e dell'Asia. Sotto l'aspetto paleobiogeografico la Mesogea è tuttavia ben caratterizzata dalla distribuzione di Lepidocyclina e Vliogypsina; ma i coralli coloniali sono in gran decrescenza nel settore mediterraneo dove, a partire dall'Oligocene, non si riscontrano quasi più calcari costruiti, salvo qualche limitato edificio dovuto ai briozoi e copiosi calcari fitogeni (a nullipore). Grandioso è nel Miocene lo sviluppo dei fenomeni orogenetici, che determinano la formazione di quasi tutte le maggiori catene montuose oggi esistenti (fase alpina) accompagnati e specialmente seguiti nel Pliocene dalla formazione di numerosi ed estesi vulcani (fig. 14).
Nel Neogenico superiore o Pliocene (fig. 15) la terra ha assunto un aspetto simile a quello odierno: solo qualche istmo collega ancora alla terraferma qualche regione destinata a divenire insulare: così le Isole Britanniche sono collegate alla Francia, separando localmente il Golfo del Crag anglo-belga a fauna boreale dall'Atlantico temperato, ma è tutt'altro che sicura l'esistenza, ammessa da alcuni, di un istmo tra la Scozia e la Groenlandia, in corrispondenza della soglia di Wyville Thomson; anche le Azzorre erano forse collegate alla penisola iberica e un continente, avanzo dell'antica Tirrenide, occupava gran parte del Tirreno; la Corsica, la Sardegna, le isole dell'Arcipelago Toscano ne sono i relitti ultimi. Le zone costiere della Spagna, della Francia, del Marocco, dell'Algeria erano invece invase dal mare, così pure gran parte della penisola italiana, ai due lati della dorsale appenninica; la Toscana, secondo il Dainelli, era in gran parte un arcipelago (fig. 16). Il Mediterraneo orientale alla sua volta era una terraferma (Egeide) con estesi laghi d'acqua dolce; ma un braccio di mare si spingeva fino all'Egitto. Il Mar Rosso si forma solo alla fine del Pliocene, o meglio all'inizio del Pleistocene. Ceylon è unita all'India, le isole della Malesia alla penisola Malese, il Giappone con Formosa alla Cina, e in America le Antille si saldano allo Yucatán, mentre un braccio di mare in corrispondenza forse degli stretti di Mc Clure, di Melville, di Barrow e di Lancaster, mette in comunicazione il mare di Beaufort con la baia di Baffin e separa la Neartide dalla Groenlandia. In qualche parte, come nella Carolina, nell'istmo di Tehuantepec, in California, sulla costa N. dell'Alasca, il mare penetra un poco entro terra; invece l'esistenza dello stretto di Behring non da tutti è ammessa nel Pliocene. Altre regioni ove il mare pliocenico penetra entro terra sono le basse valli del Paraná e delle Amazzoni.
Sotto l'aspetto paleobiogeografico e climatologico le condizioni del Pliocene sono assai simili alle attuali. La provincia equatoriale taglia fuori ormai interamente il Mediterraneo che, congiunto agli oceani solo dallo stretto di Gibilterra, angusto e poco profondo nel Terziario superiore, ha una fauna ad affinità atlantiche, molto simile all'attuale. Dei pochi relicti mesogei come Clypeaster tra gli echinidi e numerosi Peetinidi, Perne, Mitre, Scalarie, ecc. tra i molluschi, i più si estingueranno localmente con l'inizio del Pleistocene; ma i coralli costruttori sono già nel Pliocene interamente scomparsi dai suoi lidi, come le palme dalle sue coste. Da una provincia boreale di cui poco ci è noto provenivano però certamente un gran numero di specie, affini o identiche a forme artiche attuali, che, come si è accennato ripetutamente, scendono a popolare nel Pliocene il Mare del Nord, il quale deve essere considerato come parte integrante di quella. Anche la fauna pliocenica della Carolina differisce notevolmente da quella tropicale del Golfo del Messico e delle Antille, e contiene elementi boreali, onde si può considerare di tipo temperato o temperato-freddo. D'altra parte la Patagonia e il Chile sono invasi da una fauna pacifica ad affinità neo-zelandesi, che sembra accennare all'esistenza di una provincia australe distinta. In complesso si può ritenere che la temperatura media delle regioni polari sia notevolmente e gradualmente diminuita durante il Neogene.
Un ulteriore raffreddamento e deterioramento del clima è la caratteristica più saliente del successivo Pleistocene. La terra ha ormai assunto un assetto paleactologico quasi identico all'attuale; qualche differenza relativamente modesta consiste nell'esistenza di ponti continentali tra la Gran Bretagna e la Francia, tra la Sicilia, Malta e la Tunisia, tra l'Elba e la Toscana. La sommersione dell'Egeide determina la formazione del Mediterraneo orientale. La formazione del Mar Rosso mette per breve tempo questo settore del Mediterraneo in comunicazione con l'Oceano Indiano, ma le ripercussioni del fenomeno sulla composizione delle faune sono modeste, se mai piuttosto nel senso dell'introduzione di elementi mediterranei nel Mar Rosso che di migrazioni nel senso opposto. Nella fauna attuale del Mar Rosso l'Issel novera non meno di 30 specie o varietà rappresentative di forme mediterranee, e mancanti sulle rimanenti coste africane, onde la loro trasmigrazione si deve ritenere avvenuta direttamente. Altri ponti esisterebbero tra il Deccan e Ceylon; tra le penisole di Malacca, Giava, e Borneo; tra il Giappone e la Corea; tra la Nuova Siberia e la terraferma. Un ponte Groenlandia-Isole Britanniche sembra ormai escluso, e cosi pure una comunicazione stabile tra Alasca e Camciatca, le faune terrestri dell'Asia orientale e dell'America Settentrionale essendo molto diverse, e il passaggio dei pochi elementi migrati essendo potuto avvenire sulla banchisa, sbarrante lo Stretto di Behring durante l'inverno. Tanto l'Atlantico quanto il Pacifico comunicano così ormai liberamente col Mare Artico, donde gli "ospiti nordici" (Cyprina islandica, Mya truncata, Chlamys islandica, Tellma perfrigida, ecc.) migrano fino al Mar di Sicilia, spinti dai ghiacci che dalle calotte artiche dovevano galleggiare sull'Atlantico fino a latitudini assai basse.
Col favore di un clima freddo e piovoso gran parte dei continenti (specialmente nell'emisfero boreale dove essi circondano il polo) è infatti invasa a più riprese dai ghiacciai. Al momento della massima estensione di questi (fig. 17) vaste calotte coprono interamente Groenlandia e Islanda, gran parte dell'America Settentrionale e dell'Europa, fino al 40°-50° lat. Nell'emisfero australe ha una vera calotta solo l'Antartide; la Patagonia, la Tasmania e la Nuova Zelanda, al pari delle catene montuose di più basse latitudini fino sotto l'equatore (Kenya, Kilimangiaro, Ruvenzori, Ande dell'Ecuador), sono occupate da ghiacciai montani molto più vasti degli attuali e distribuiti anche in catene montuose che oggi ne sono prive, come gli Appennini, l'Atlante, le Sierre spagnole, i monti di Corsica e di Sardegna, della Nuova Guinea, ecc. Tanto larghe estensioni, come sono specialmente quelle delle grandi calotte boreali, perennemente coperte di ghiaccio, dovettero determinare la formazione di aree di alta pressione, capaci alla loro volta d'influire (fig. 18) sul regime dei venti e delle correnti marine dell'Atlantico settentrionale. Così la traiettoria abituale dei cicloni fu deviata verso S. e questi s'instradarono sulla Francia e sulla Germania, tra le Alpi cioè e la calotta scandinava, o, più comunemente, sul Mediterraneo. Anche la piovosità sull'Africa settentrionale e centrale ne risultò accresciuta: gli studî del Gautier sugli "uadi fossili" e sulle faune residuali del Sahara mostrano come quello che oggi è il più arido dei deserti fosse nel Pleistocene una steppa. F. Haas, E. Schwarz e altri hanno cercato di ricostruire cartograficamente quello che doveva essere il reticolato idrografico dell'Africa al principio del Pleistocene (fig. 19). Né meno intense sono, com'è noto, le ripercussioni sulla distribuzione delle faune: i cosiddetti "ospiti nordici" terrestri (mammut, rinoceronte ticorino, renna) si spingono in Europa fino alle latitudini di Treviso, di Bucarest, di Mentone (fig. 20), risalendo a N. fra una glaciazione e l'altra; il grande pinguino scende fino alla Puglia, il ghiottone, oggi confinato in Norvegia, in Lapponia, in Russia, in Siberia, in Groenlandia, si trova fossile nelle caverne della Spezia e dell'Istria, mentre ospiti alpini come la marmotta, la lepre bianca, lo stambecco, il camoscio, calano fin quasi alla pianura in Liguria e in Toscana. La distribuzione geografica di parecchi organismi vegetali e animali è facilmente spiegabile ove sia posta in rapporto con ripetuti ampliamenti o restrizioni di habitat, in seguito ai complessi fenomeni del Pleistocene; così la biogeografia viene in aiuto della paleogeografia e della paleoclimatologia.
L'Olocene - dopo il ritiro dell'ultima grande glaciazione - non è testimonio di notevoli fatti paleactologici: con la fine del Pleistocene il contorno dei mari e dei continenti è ormai in gran parte stabilito; solo in qualche paese, come in Scandinavia, si verificano spostamenti di dettaglio; alquanto più marcate le vicende climatiche connesse con le cosiddette fasi di ritiro dei ghiacciai e rilevate dallo studio dei pollini nelle torbiere, dei resti vegetali dei travertini, ecc. Ma qui si arresta il compito del paleogeografo e s'inizia quello del geografo e dello storico.
Bibl. C. Gemmellaro, Aperçu de la constitution géognostique et orographique de la Sicile, in Bull. Soc. géol. fr., VI (seduta del 7 sett. 1834), Parigi 1835; G. Balsamo-Crivelli, Schizzi geologici dell'Italia, Milano 1850; A. Boué, Über die Palaeo- Hydro- und Orographie der Erdoberfläche, in Sitzb. math. naturw. Cl. der k. Akad. Wiss., Vienna 1850; O. Heer, Untersuchungen über das Klima und die Vegetationsverhältnisse des Tertiärlandes, Winterthur 1860; G. Capellini, La formazione gessosa di Castellina marittima e i suoi fossili, Bologna 1874; R. Etheridge, Anniversary Adress of the President. Geological Society of London, in Quart. Journ. Geol. Soc., XXXVII, Londra 1881; C. J. Mayor Forsyth, Die Tyrrhenis, in Kosmos, XIII (1883); M. Neumayr, Die klimatischen Verhältnisse der Vorzeit, Lipsia 1889; H. von Ihering, Die Paläogeographie Südamerikas, in Ausland, LXVI (1893); W. Kobelt, Zoogeographie und Erdgeschichte, XXX, 1894; F. Sacco, Essai sur l'orogenie de la Terre, Torino 1895; F. Canu, Essai de Paléogéographie, Parigi 1896; T. C. Chamberlin e R. D. Salisbury, Geology, I: Geologic Processes and their Results, New York 1894; II: Earth History, New York 1896; H. Douvillé, in Bull. Soc. géol. fr., XXVIII (1900); M. Boule, Lémuriens et Lémurie, in La Géographie, XIII (1906); A. de Lapparent, Traité de Géologie, 5ª ed., Parigi 1906; W. D. Matthew, Hypothetical outlines of the Continents in Tertiary Times, in Bull. Amer. Mus. Nat. Hist., XXII (1906); M. Semper, Die Grundlagen Paläogeographischer Untersuchungen, in Centralbl. Min. Geol. Pal., 1908; J. Walther, Geschichte der Erde und des Lebens, Lipsia 1908; Th. Arldt, Paläogeographie und Seismologie, in Geogr. Zeitschr., XV (1909); A. Penck e E. Brückner, Die Alpen im Eiszeitalter, Lipsia 1901-1909; E. Suess, Das Antlitz der Erde, I, Lipsia 1892, 2ª ed.; IIIb, 1909; Th. Arldt, Methoden unds Bedeutung der Paläogeographie, in Petermann's Mitt., LVI (1910); W. R. Eckardt, Paläoklimatologie, Lipsia 1910; Ch. Schuchert, Paleogeography of North America, in Bull. Geol. Soc. Amer., XX (1910); E. Haug, Traité de Géologie, II: Les periodes géologiques, Parigi 1908-11; T. Taramelli, L'epoca glaciale in Italia, in Atti Soc. it. progr. sc., IV (1911); W. R. Eckardt, Klima und leben (Bioklimatologie), Lipsia 1912; M. Semper, Paläoklimatologie, in Kandwört. Naturw., VII (1912); G. Stefanini, Contributo degli studi echinologici ad alcuni problemi di paleogeografia, in Riv. geogr. ital., XIX (1912); K. Andrée, Die paläogeographische Bedeutung sedimentpetrographischer Studien, in Petermann's Mitt., LIX (1913); L. Germain, Le problème de l'Atlantide et la géologie, in Ann. de Géogr., XXII (1913); F. Haas e E. Schwarz, Die Entwicklung des afrikanischen Stromsystems, in Geol. Rundsch., IV (1913); K. Andrée, Paläogeographie, in Naturw. Wochenschr., XXX (1915); E. Dacqué, Grundlagen und Methoden der Paläogeographie, Jena 1915; F. Kossmat, Paläogeographie, Lipsia e Berlino 1916; Ch. Schuchert, Atlantis the lost Con tinent, in Geogr. Rev., III (1917); J. Del Pan, Paleografía de los Mamìferos cuaternarios de Europa y Norte de Africa, Madrid 1918; D. De Rosa, Ologenesi, Firenze 1918; G. Stefanini, Les progrès recents des études paléogéographiques, in Scientia, XII (1918); W. R. Eckardt, Die Paläoklimatologie, in Handb. d. biol. Arbeitsmethod., parte 10ª, Vienna e Berlino 1921, fasc. 3; W. Koppen e A. Wegener, Die Klimate d. geol. Vorzeit, 19124; G. Stefanini, Relation between American and European tertiary Echinoid faunas, in Bull. geol. soc. of America, XXXV (1924); A. Wegener, La genèse des continents et des océans, Parigi 1924; G. Colosi, Il popolamento delle terre emerse e i fattori delle grandi trasmigrazioni, in L'Universo, VIII, Firenze 1924, p. 4; G. Stefanini, Molluschi e Brachiopodi calloviani del Caracorùm (Spediz. ital. De Filippi), s. 2ª, VI (1928); J. W. Gregory, The Geological History of the Atlantic Ocean, in Quart. Journ. Geol. Soc., LXXXV, ii, Londra 1929; G. Dainelli e P. Videsott, Il mare pliocenico nella Toscana settentrionale, in Mem. Geol. geogr., I, Firenze 1929-30; A. Sestini, Il mare pliocenico nella Toscana meridonale, ibid., II (1931); A. C. Seward, Plant Life through the Ages, Cambridge 1931; E. Minucci, Il mare pliocenico nella Campania, in Mem. geol. geogr., III, Firenze 1932-33; Kirk Bryan e R. C. Cady, The pleistocene Climate of Bermuda, in Amer. Journ. of sc., XXVII (1934); F. Kerner-Marilaun, Paläogeographie mit besonderer Rücksicht auf die Fehlerquellen, Berlino 1934.