Paleontologia
(XXVI, p. 50; App. IV, ii, p. 725; V, iv, p. 24)
La p. ha conosciuto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale un notevole sviluppo, sia per la qualità e quantità di nuovi dati sia per i progressi delle tecniche di analisi dei fossili e delle loro giaciture. Lo sviluppo è stato sostenuto e sollecitato dall'impressionante avanzamento delle conoscenze in biologia e dalle profonde innovazioni nelle scienze della Terra. L'accresciuta conoscenza della dinamica degli oceani e dell'atmosfera, nonché del significato delle variazioni dei rapporti isotopici misurabili nei resti scheletrici fossili e delle strutture sedimentarie, ha reso possibili ricostruzioni paleoambientali più dettagliate.
Nuove prospettive nello studio della storia della Terra e delle distribuzioni delle piante e degli animali sulla sua superficie sono state offerte dalla rivoluzione che ha interessato la geologia con la definizione del paradigma della 'tettonica a placche'.
La misura del tempo geologico
La scala geocronologica è stata costruita ponendo gli eventi geologici e paleontologici in una successione temporale relativa: le rocce, con il loro contenuto informativo sulle vicende della Terra e sugli esseri viventi del passato, sono state ordinate in base ai loro rapporti geometrici che consentono di stabilire il rapporto cronologico tra i corpi rocciosi. La datazione relativa si fonda sul principio di sovrapposizione, per il quale lo strato deposto sopra un altro è più recente, e sul principio di correlazione (o principio della successione dei fossili), secondo il quale intervalli sedimentari caratterizzati dagli stessi resti fossili hanno la stessa età. Questo secondo principio può essere così formulato: gli organismi fossili si succedono in un ordine definito e perciò ogni periodo di tempo può essere riconosciuto dal suo contenuto fossile. Tale affermazione è valida se le comparse e le scomparse dei taxa (bioeventi) nelle successioni sedimentarie sono eventi unici non ripetibili. L'irreversibilità dei cambiamenti delle faune e delle flore nel tempo trova una spiegazione razionale nella teoria dell'evoluzione biologica.
I fossili sono stati e sono lo strumento più utilizzato nelle crono-correlazioni per la facilità del loro reperimento, ma la teoria evolutiva comporta in linea di principio che una nuova specie impieghi tempo per disperdersi nel suo territorio, e che quindi la superficie definita dal bioevento della sua comparsa sia diacrona. Tuttavia se si constata che più eventi paleontologici si ripetono con lo stesso ordine in successioni sedimentarie diverse e molto lontane tra loro, la correlazione dei bioeventi può essere considerata una buona approssimazione di una correlazione isocrona o cronocorrelazione; inoltre la velocità di dispersione delle nuove specie è, in genere, ritenuta sufficiente perché non vi siano differenze geologicamente significative nel tempo dei loro arrivi nelle varie aree, salvo la presenza di temporanee barriere geografiche o ecologiche che ritardino sensibilmente le migrazioni.
Un contributo risolutivo alla definizione delle cronocorrelazioni è venuto dall'integrazione dei dati paleontologici con quelli del paleomagnetismo e delle variazioni dei rapporti degli isotopi stabili di alcuni elementi. Il campo magnetico terrestre ha subito nel tempo numerose inversioni di polarità; nella storia geologica si sono alternati periodi a polarità normale, corrispondente a quella di oggi, e periodi a polarità inversa. Le inversioni della polarità sono un fenomeno avvenuto con tempi geologicamente trascurabili e sincrono su tutta la Terra. Le polarità dei campi rimangono registrate nelle rocce che contengono minerali ferro-magnetici, e sono quindi rilevabili in molte successioni di rocce sia vulcaniche sia sedimentarie. Le fluttuazioni del rapporto degli isotopi stabili, in particolare dell'ossigeno (¹⁸O/¹⁶O) e del carbonio (¹³C/¹²C), dipendono da cambiamenti del clima, della dinamica degli oceani e dell'atmosfera, e per il carbonio da variazioni della biomassa. I valori degli isotopi sono rilevabili direttamente sui carbonati di apparati scheletrici fossili. Le maggiori fluttuazioni rilevate riflettono eventi globali e permettono correlazioni isocrone. Nella maggioranza dei casi tuttavia l'assenza di elementi caratteristici non consente di riconoscere le stesse magnetozone e gli stessi stadi isotopici in successioni sedimentarie diverse. La correlazione di queste unità diventa possibile tenendo conto dei dati paleontologici, cioè dei loro rapporti stratigrafici con le biozone, che sono intervalli sedimentari temporalmente caratterizzati.
Quanto è stato detto mostra la necessità di una stretta collaborazione tra paleontologi, geofisici e geochimici per fissare un'affidabile rete geocronologica, nella quale collocare le informazioni rilevate nelle rocce, e ricostruire così la storia della Terra. Questa collaborazione è andata crescendo negli anni recenti e ha portato a una più sicura utilizzazione della scala geocronologica relativa (fig. 1).
Per quanto si possa migliorare e rendere più fitta la rete geocronologica relativa, rimane la necessità d'incrementare e rendere sempre più affidabili le datazioni assolute, che danno l'età in anni delle rocce e dei fossili. Infatti le datazioni relative ci consentono di ordinare nel tempo gli eventi che hanno modellato la Terra e modificato i sistemi viventi, ma non ci permettono di descrivere le modalità e le velocità dei cambiamenti stessi. La dinamica dei fenomeni geologici e paleontologici può essere analizzata solo avendo la possibilità di misurare il tempo in modo costante, avendo cioè a disposizione un vero e proprio orologio geologico, il geocronometro.
La possibilità di utilizzare un geocronometro è stata offerta dal processo di decadimento radioattivo dei nuclei instabili di alcuni elementi, come per es. uranio, torio, potassio e carbonio. Le proprietà della radioattività, scoperte alla fine dell'Ottocento, sono state sfruttate per datazioni assolute soprattutto a partire dagli anni Cinquanta. A garantire l'affidabilità del geocronometro basato sulla radioattività è il fatto che il tasso di decadimento degli isotopi non subisce cambiamenti nelle diverse condizioni fisiche presenti nella crosta terrestre. Le datazioni radiometriche, pur essendo al momento le uniche misure del tempo in anni calcolabili in modo autonomo, tuttavia presentano limitazioni che ne riducono l'applicazione e, spesso, la precisione delle date ottenute. L'imprecisione delle misure radiometriche è dovuta a più fattori: errori analitici (metodi strumentali con sensibili errori di misura), incertezze nella costante di decadimento, possibilità che il sistema chimico non sia rimasto chiuso per tutto il tempo (aggiunta o perdita di isotopi dell'elemento progenitore e discendente), possibile azzeramento del geocronometro per trasformazioni chimiche della roccia, elevata improbabilità che le rocce databili radiometricamente coincidano con limiti geocronologici. Inoltre solo alcune rocce, come quelle ignee, fanno partire il geocronometro alla loro origine o in un momento assai prossimo a essa; nelle rocce sedimentarie l'età calcolata corrisponde a quella del cristallo, ma non a quella del granulo deposto nel sedimento. Alcuni metodi, legati a danni da radiazione, sono applicabili direttamente su materiale fossile e sedimentario, come le tracce di fissione e la risonanza paramagnetica (electro-spin-resonance), ma ancora non hanno un grado di affidabilità molto elevato. Per datare i fossili è largamente usato il metodo che si basa sull'isotopo instabile del carbonio, il ¹⁴C, ma la sua applicazione è limitata dalla brevità del tempo di dimezzamento, che consente datazioni non più antiche di 75.000 anni; inoltre alcune incertezze nell'uso di questo isotopo sono dovute alle correzioni da apportare ai valori calcolati, dato che la quantità di questo elemento nell'atmosfera non è costante nel tempo. Esistono varie altre metodologie di datazione assoluta non basate sul decadimento radioattivo, per es. la dendrocronologia, il metodo delle varve e quello della racemizzazione degli amminoacidi. Queste metodologie sono applicabili direttamente su materiale fossile e sedimentario, ma possono essere utilizzate, come il ¹⁴C, solo per datazioni recenti e hanno il difetto di essere influenzate dalle condizioni ambientali. Molti dei limiti delle datazioni radiometriche sono insiti nel metodo e quindi non eliminabili, ma le imprecisioni dovute alla qualità degli strumenti saranno molto probabilmente superate in tempi relativamente brevi.
Negli ultimi anni è iniziato un nuovo metodo di analisi stratigrafica, la ciclostratigrafia, che si fonda sul riconoscimento delle fluttuazioni cicliche ad alta frequenza dei caratteri sedimentari e della struttura delle associazioni fossili. Tali fluttuazioni sono legate a cambiamenti ricorrenti del clima determinati dalle variazioni periodiche dei parametri orbitali terrestri (eccentricità dell'orbita, obliquità dell'asse terrestre e precessione degli equinozi). Non possiamo qui dilungarci nell'illustrazione del metodo; dobbiamo tuttavia sottolinearne l'importanza per la datazione dei limiti delle unità geocronologiche a partire da punti con età nota. È prevedibile che questi studi avranno nei prossimi anni un sensibile sviluppo e costituiranno una delle principali linee di ricerca degli stratigrafi.
In conclusione, il tempo geologico continuerà a essere strutturato in base a criteri di datazione relativa, ma con calibrature sempre più precise dei limiti cronologici delle unità. La geocronologia tenderà a identificarsi con una geocronometria. Ciò non farà diminuire l'importanza delle correlazioni tra i complessi rocciosi, e tra i metodi utilizzabili a questo scopo quelli biostratigrafici conserveranno ancora a lungo un ruolo fondamentale.
Il paradigma evolutivo
I rapporti sistematici fra le specie, i cambiamenti delle flore e delle faune nel tempo, l'adeguamento delle strutture morfo-funzionali ai modi di vita delle specie e la loro distribuzione geografica si spiegano con la teoria dell'evoluzione biologica. Dopo un confronto con altre ipotesi evolutive, negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento la teoria dell'evoluzione per selezione naturale, o teoria darwiniana, è stata universalmente accettata, in quanto esplicativa dei processi adattativi. Da allora le ricerche paleontologiche ne sono state profondamente influenzate.
Il nucleo centrale della teoria era rimasto quello già proposto intorno alla metà dell'Ottocento da A.R. Wallace e, in maniera molto più incisiva, da Ch. Darwin, ma si erano sviluppate robuste cinture protettive che aumentavano la sua capacità esplicativa e predittiva (neodarwinismo o teoria sintetica). Lo sviluppo della scienza genetica con i modelli di diffusione e affermazione dei geni nelle popolazioni ha rappresentato il principale contributo all'arricchimento della teoria, fornendo una spiegazione razionale della variabilità individuale e del processo di selezione (v. evoluzione, App. V).
Nei decenni successivi i genetisti e i biologi molecolari scoprivano comportamenti del genoma che hanno aperto varchi nelle protezioni della teoria e rimesso così in discussione il suo valore come teoria generale dell'origine della specie. È stato osservato che i geni subiscono per loro ragioni strutturali amplificazioni e riarrangiamenti di posizione con conseguenze strutturali tali da produrre la nascita di nuove specie.
Anche in campo paleontologico N. Eldredge e S.J. Gould proponevano nel 1972 un modello del processo evolutivo coerente con le novità degli studi genetici. Questi due paleontologi hanno dato una lettura della documentazione fossile rivoluzionaria rispetto a quella tradizionale dei neodarwinisti: le specie sarebbero state entità stabili interessate solo saltuariamente da improvvisi cambiamenti in popolazioni situate ai margini dell'areale delle specie madri, cambiamenti che avrebbero dato luogo alla nascita di nuove specie. Per i neodarwinisti le specie sarebbero state invece sottoposte a una continua azione della selezione naturale, tendente a ottimizzare gli adattamenti; le stasi sarebbero state causate dall'opera di forze selettive stabilizzanti. Senza negare l'esistenza di specie nate per la somma di piccole differenze individuali scelte dalla selezione naturale (specie filetiche), Gould ed Eldredge hanno considerato questo meccanismo decisamente subordinato a quello da loro proposto. Per i seguaci della teoria di questi due paleontologi, detta degli 'equilibri intermittenti', la forza selettiva che ha influito nella storia della vita è quella che ha agito a livello delle specie. L'evoluzione biologica sarebbe un fatto quasi esclusivamente macroevolutivo: la microevoluzione avrebbe prodotto differenze tra popolazioni della stessa specie, ma non sarebbe stata generalmente in grado di saltare la barriera specifica.
Dopo la presentazione del nuovo modello si è innescato fra i paleontologi un acceso dibattito che ha coinvolto anche i neontologi. Il dibattito non si è ancora esaurito, ma un risultato è stato comunque raggiunto: la teoria darwiniana non può più essere considerata una teoria generale dell'origine della specie ma solo una teoria esplicativa dei processi adattativi.
Ai paleontologi si impone il compito di verificare se le teorie proposte sono capaci di spiegare il maggiore numero possibile dei fatti osservati nella documentazione paleontologica e geologica, ma per questo è necessario incrementare la quantità e la qualità delle informazioni. Con il maggiore dettaglio e affidabilità possibili, dovranno essere ricostruite catene di progenitori-discendenti e analizzati i modi e i tempi dei cambiamenti morfo-funzionali delle strutture; tutte le volte che sarà possibile, i dati dovranno essere quantificati e i cambiamenti descritti con modelli matematici di tipo lineare o non lineare e stocastico. L'interpretazione dei fenomeni adattativi che hanno interessato i sistemi viventi non può prescindere dalla ricostruzione sempre più dettagliata delle variazioni ambientali e paleogeografiche della Terra. Si rende quindi necessaria in futuro una maggiore integrazione delle ricerche dei paleontologi con quelle degli altri specialisti delle scienze della Terra.
In conclusione, l'inizio del terzo millennio vedrà i paleontologi impegnati ad affinare i rapporti sistematici dei taxa (utilizzando quando possibile anche informazioni ottenute con analisi di biologia molecolare - calcolo di distanze genetiche), ad approfondire le analisi morfo-funzionali degli apparati scheletrici, a definire le correlazioni tra le strutture morfologiche e i vincoli imposti ai loro cambiamenti, infine a cercare modelli matematici idonei a descrivere i fenomeni di cambiamento strutturale dei biosistemi.
Nell'ultima decade del Novecento alcuni biologi hanno indirizzato la loro attenzione allo studio delle proprietà auto-catalitiche dei composti organici, e alla capacità di questi di auto-organizzarsi in sistemi ordinati più complessi. L'evoluzione è vista come un processo che avviene in prossimità del limite fra l'ordine e il disordine: i sistemi viventi, spinti verso uno stato caotico, avrebbero la possibilità di riorganizzare le proprie strutture biologiche in modo da raggiungere una nuova condizione ordinata, e quindi sopravvivere. Questo modello potrebbe avere implicazioni di notevole portata nelle interpretazioni della storia della vita: potrebbe spiegare meglio del darwinismo il fatto che i piani strutturali fondamentali degli organismi, che sono andati complicandosi nel tempo, si siano in pratica tutti conservati, modulandosi in vario modo nelle varie fasi della storia geologica. Il problema fondamentale, ancora irrisolto, è se l'evoluzione biologica sia determinata più dal caso o dalla necessità. È certo comunque che le proprietà auto-catalitiche e auto-organizzative dei composti organici hanno importanti conseguenze sulle ipotesi relative all'origine della vita, conferendo un carattere di necessità al passaggio dall'evoluzione chimica a quella biologica.
L'idea dell'origine accidentale della vita, una fortuita combinazione di composti organici, era entrata in crisi con le scoperte di micro-organismi fossili attribuibili al gruppo dei cianobatteri, organismi già in possesso di un discreto grado di complessità, in rocce con un'età di circa 3,5÷3,8 miliardi di anni. Poiché le condizioni del nostro pianeta, originatosi con il sistema solare 4,6 miliardi di anni fa, non consentivano fino a circa 4÷3,8 miliardi di anni il mantenimento di composti organici complessi, il tempo disponibile per dare origine casualmente alla vita (evento con una bassissima probabilità di accadere) non poteva più essere ritenuto sufficiente. Questa difficoltà non si pone per le ipotesi di un'origine extraterrestre della vita o per quelle che prevedano condizioni che hanno favorito e accelerato il processo biochimico. Tra le prime, quella che ha avuto maggiore credito è l'ipotesi proposta nel 1978 da F. Hoyle e N.C. Wickramasinghe: i primi organismi si sarebbero originati fra le polveri cosmiche nello spazio interstellare; il tempo non rappresenterebbe più un problema per l'età ben più vecchia dell'universo, almeno tre volte superiore a quella del sistema solare. A sostegno della loro ipotesi, i due autori hanno portato una serie di dati, tra i quali maggiore peso ha la provata presenza nello spazio interstellare di molecole organiche e di microscopici oggetti dotati di una struttura complessa a base di composti del carbonio, che potrebbero rappresentare dei micro-organismi. Questi avrebbero raggiunto la Terra trasportati da comete o a seguito dell'incontro con una nube galattica. Il secondo gruppo di ipotesi, che considera ancora la Terra come il luogo d'origine della vita conosciuta, invoca l'azione catalizzatrice dei minerali argillosi e le condizioni favorevoli alle sintesi organiche presenti nelle sorgenti idrotermali, specie in quelle sottomarine (vent). La proprietà auto-catalitica e auto-organizzativa dei composti organici offre una spiegazione semplice del fenomeno e ammette la possibilità che la vita si sia originata in altre parti dell'universo là dove le condizioni ambientali sono o sono state simili a quelle della Terra. I paleontologi possono portare un contributo alla soluzione del problema dell'origine della vita incrementando le informazioni sui fossili più antichi e sugli ambienti da loro abitati.
Caratteristiche e periodicità delle crisi biologiche
L'evoluzione ha prodotto continuamente nascite ed estinzioni di specie. Lo studio della dinamica di questi eventi presenta delle difficoltà determinate dai possibili errori nella valutazione dei dati. Le cause più frequenti di distorsione dei risultati delle analisi sono dovute a problemi di tipo tassonomico (molteplicità dei criteri usati), a squilibri nella quantità delle informazioni disponibili per area e per età, ai limiti della risoluzione cronometrica, alla possibilità di interpretare come estinzioni reali delle pseudoestinzioni. Una specie si considera estinta quando tutte le sue popolazioni sono scomparse senza lasciare discendenti; se si ha continuità filetica con differenziamento di una nuova specie, la scomparsa del progenitore rappresenta una pseudoestinzione. Inoltre vi sono casi di taxa ritenuti estinti che sono stati ritrovati in rocce più recenti o ancora viventi in aree rifugio (per es. Neopilina galatheae, appartenente al gruppo dei monoplacofori, che si considerava scomparso dall'antico periodo Devoniano, è stata raccolta vivente in acque profonde dell'Oceano Pacifico nel 1952), e che danno vita al cosiddetto fenomeno Lazzaro. Per minimizzare gli effetti di queste cause d'errore gli studiosi della dinamica delle comparse ed estinzioni dei taxa, e quindi delle variazioni della diversità globale nel tempo, utilizzano i dati relativi a categorie tassonomiche superiori alla specie, in particolare i generi e più frequentemente le famiglie.
Le curve, che danno l'andamento dei valori delle comparse e delle estinzioni, presentano continue oscillazioni; su un andamento di base con oscillazioni minori si distinguono ripetute oscillazioni con ampiezza significativamente maggiore. La media generale delle comparse è più alta di quella delle estinzioni, per cui la diversità globale è andata crescendo, anche se i suoi valori hanno subito brusche e ripetute cadute (seguite però, in breve tempo, da rapide riprese).
L'elevato e concentrato numero di estinzioni che ripetutamente ha interessato la vita nel suo corso storico è un fenomeno ormai riconosciuto e accettato dai paleontologi con la definizione estinzioni di massa. Cinque sono state le crisi biologiche più severe: alla fine dell'Ordoviciano (circa 438 milioni di anni fa), nel tardo Devoniano (tra 375 e 355 milioni di anni), alla fine del Permiano (tra 255 e 250 milioni di anni - termine dell'era paleozoica), nel Triassico (tra 210 e 205 milioni di anni) e nel Cretaceo (65 milioni di anni fa - termine dell'era mesozoica). La durata delle fasi d'intensa crisi non è ancora ben definita, ma in molti casi sembra che sia stata compresa tra 0,5 e 5 milioni di anni. Le percentuali stimate delle specie scomparse durante queste fasi hanno valori compresi tra 76 (crisi del Cretaceo e del Triassico) e 96 (crisi del Permiano). Certamente tali stime sono viziate da vari tipi di errori, ma danno comunque l'idea di quanto intense siano state quelle 'estinzioni di massa'.
Le cause delle estinzioni possono essere raggruppate in alcune categorie generali: caratteristiche chimico-fisiche dell'ambiente, fattori biologici (competizione ecologica, predazione, patologie) e cause accidentali. È evidente che non si può porre un limite netto fra cause chimico-fisiche e cause biologiche: competizione, predazione e diffusione di agenti patogeni dipendono dalla disponibilità delle risorse che a loro volta sono condizionate dal clima. I fattori accidentali, ma anche quelli più strettamente biologici, sono responsabili di estinzioni localizzate (estinzioni regionali), mentre gli eventi globali sono per lo più dovuti a cambiamenti generalizzati del clima (variazioni nella circolazione oceanica e atmosferica e nei caratteri della paleogeografia). Le molte variabili in gioco rendono assai difficile per il paleontologo ricostruire con ragionevole certezza le cause di estinzione di singole specie, ma la formulazione di ipotesi generali sulla dinamica delle estinzioni è possibile solo grazie alla documentazione fossile.
Nel 1973 un paleontologo statunitense, L.M. Van Valen, pubblicò una ricerca ampiamente documentata sulla probabilità di estinzione dei taxa in funzione della durata della loro esistenza. Egli elaborò curve di sopravvivenza di taxa, per lo più generi e famiglie, appartenenti a gruppi sistematici che occupavano una stessa zona adattativa; le curve sono risultate con una buona approssimazione log lineari (i dati si disperdono in modo rettilineo su un piano cartesiano semilogaritmico), mostrando che la probabilità di un taxon di estinguersi è indipendente dalla durata della sua esistenza. Van Valen interpretò i risultati delle sue analisi come effetto della continua rottura degli equilibri tra le specie delle comunità: le specie in competizione tendono ad aggiustare costantemente i loro adattamenti, con la conseguenza che le estinzioni si distribuiscono casualmente nel tempo, e la probabilità di sopravvivere o scomparire rimane nel tempo uguale e costante entro i gruppi sistematici. L'ipotesi di Van Valen è nota come teoria della Regina Rossa, un personaggio del racconto di L. Carroll Attraverso lo specchio. Essa ha suscitato dibattiti ed è stata oggetto di numerose critiche; è difficile infatti ritenere che la probabilità di estinzione delle specie entro i gruppi si sia mantenuta uguale nel tempo nonostante le marcate variazioni d'intensità dei cambiamenti ambientali e, quindi, delle crisi biologiche. Gli stessi risultati analitici di Van Valen si ottengono anche se i valori della probabilità d'estinzione variano, purché tutti i membri del gruppo sistematico abbiano gli stessi valori di probabilità durante le varie fasi di cambiamento; in altre parole è sufficiente che le estinzioni avvengano sempre con una distribuzione casuale rispetto all'età dei taxa. L'argomento merita ulteriori approfondimenti per le interessanti implicazioni, quali, per es., la maggiore importanza dei fattori fisici nel dirigere la dinamica delle estinzioni, dato che questi colpiscono in genere in maniera più casuale.
Un'attenzione anche maggiore è stata posta dai paleontologi alle estinzioni di massa. Tra queste, oltre alle cinque già citate precedentemente, vanno incluse dall'inizio del Paleozoico (circa 570 milioni di anni fa) almeno altre dieci crisi di entità minore, ma comunque tali da portare all'estinzione varie famiglie di taxa. L'interesse per questi fenomeni ha ricevuto un nuovo impulso dopo che, all'inizio degli anni Ottanta, la crisi del Cretaceo è stata attribuita agli effetti dell'impatto sulla Terra di un asteroide di circa 10 km di diametro. Vi sono molti dati a favore della caduta di questo asteroide, ma vi sono forti dubbi che questa sia stata la causa della grande crisi cretacea: gli eventi di scomparsa non risultano essere tutti sincroni, come il modello prevederebbe, e molti taxa erano già in forte declino milioni di anni prima della fine del periodo. Tentativi di spiegare altre estinzioni di massa con cadute di corpi extraterrestri sono praticamente falliti. L'ipotesi degli impatti si accorda, tuttavia, con le conclusioni di D.M. Raup e J.J. Sepkoski, per i quali i principali eventi d'estinzione degli ultimi 250 milioni di anni si sono verificati con una periodicità stimata su base statistica intorno a 26 milioni di anni. Valore questo non molto diverso da quello calcolato per gli intervalli che separano gli eventi di caduta di grossi corpi extraterrestri risalenti al passato geologico. Ma i test statistici utilizzati da Raup e Sepkoski sono reputati da molti paleontologi insufficienti perché la loro ipotesi si possa considerare credibile.
Le grandi crisi biologiche potrebbero essere state determinate dall'effetto di più cause concomitanti, che avrebbero dato luogo a ripetute situazioni catastrofiche per gli equilibri della biosfera. Vi sono evidenze di cambiamenti ambientali globali avvenuti in tempi che dal punto di vista geologico sono così rapidi da sembrare istantanei. Come esempio emblematico può essere segnalato il cambiamento, avvenuto circa 900.000 anni fa, nel ritmo dei cicli climatici che da una periodicità di circa 40.000 anni sono passati a una di 100.000; il fenomeno è dimostrato dall'andamento della curva dei rapporti isotopici dell'ossigeno. Questo cambiamento ha avuto marcate conseguenze sulle comunità biologiche con la scomparsa di numerose specie e vari generi.
Una domanda che i ricercatori continuano a porsi è se le grandi crisi biologiche abbiano avuto un ruolo determinante o meno nel dirigere la storia della vita, almeno nelle sue linee generali. Altro interrogativo importante posto da queste analisi è se il sistema Terra-Vita sia andato stabilizzandosi sempre più nel tempo, cioè se vi sia stata una diminuzione nei periodi geologici più recenti del tasso medio delle estinzioni.
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