PALEOPATOLOGIA
Termine con cui viene designata una particolare disciplina che ha per oggetto lo studio delle manifestazioni morbose di età preistorica e antica; in tal senso la p. rappresenta il capitolo storico della moderna patologia.
Il neologismo fu introdotto nel 1892 da R. W. Shufeldt, che attribuì alla nuova disciplina il compito di descrivere tutti gli stati patologici rintracciabili sui resti di animali fossili o estinti. Descrizioni di tal genere, tuttavia, erano comparse già prima: la più antica, dovuta a J. F. Esper, risale al 1774 e riguarda l'osservazione di un caso di tumore maligno localizzato nel femore di un orso delle caverne vissuto durante il Quaternario inferiore. L'impulso alla costituzione di una disciplina realmente autonoma, dotata di propri materiali e propri metodi d'indagine, si sviluppò a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, soprattutto a seguito del focalizzarsi degli interessi di ricerca al campo più ristretto delle malattie umane. L'accesso al vasto materiale biologico preistorico e antico proveniente dagli scavi archeologici egizi rappresentò l'occasione che permise a vari antropologi di mettere a punto una metodologia medica atta al rilievo degli stati patologici sui resti umani antichi. Il primo che, con metodo scientifico, esaminò e descrisse lo stato di salute e le malattie di un vasto campione di popolazione umana antica (proveniente appunto dall'Egitto) fu sir M. A. Ruffer che in tal modo conferì alla p. la dignità di disciplina autonoma, ridefinendola come "la scienza delle malattie delle quali può essere dimostrata l'esistenza sui resti umani e animali dei tempi antichi" (1913). A ciò seguì un vero fermento di studi, tanto in Europa, dove nel 1930 vide la luce il primo trattato monografico di p. a opera del medico militare francese L. Pales, quanto in America, soprattutto grazie agli antropologi A. Hrdlicka, G. G. MacCurdy e R. L. Moodie. Un fondamentale incremento della ricerca paleopatologica si è registrato a partire dal 1960, dovuto soprattutto alle ricerche di A. T. Sandison, D. Brothwell e C. Wells in Inghilterra, di P. Janssens in Belgio, e di A. ed E. Cockburn negli Stati Uniti. La ricerca paleopatologica si è così sviluppata a livello mondiale in centinaia di centri specializzati, il cui collegamento è affidato alla Paleopathology Association, fondata a Detroit nel 1973, e al Journal of Paleopathology, fondato a Chieti nel 1986.
I materiali il cui studio consente di raccogliere informazioni sulle antiche malattie dell'uomo sono di natura variabilissima e possono venire schematicamente suddivisi in due gruppi: materiali diretti e materiali indiretti. I materiali diretti corrispondono ai resti biologici dei nostri antenati: si tratta prevalentemente, ma non soltanto, delle ossa provenienti da scavi archeologici o paleontologici. I tessuti molli mummificati, sebbene di più raro e circoscritto riscontro, sono una fonte particolarmente importante di informazioni paleopatologiche, in quanto possono riferirsi anche a malattie che non lasciano segni sulle ossa ma coinvolgono soltanto i tessuti molli, generalmente decomponibili subito dopo la morte. Fonti dirette sono anche quei materiali patologici che, per la loro natura e consistenza, possono conservarsi con una certa facilità durante i lunghi periodi d'inumazione. I calcoli di vari organi cavi, come il rene e la vescica, in quanto entità patologiche dure (spesso mineralizzate), sono stati costantemente ritrovati, durante lo scavo di sepolture umane antiche, dal paleopatologo chiamato a collaborare allo scavo archeologico. Allo stesso modo sono state a più riprese recuperate varie forme di ossificazioni patologiche tissutali, come quelle a carico di vasi arteriosi, di ematomi di organi molli, di tumori necrotizzati (emangiomi) o a tendenza calcifica (fibroleiomiomi uterini), di linfoghiandole coinvolte nei processi tubercolari. Fra i materiali definibili come diretti vi sono anche i resti, comunque conservati, di antichi parassiti. Molti insetti ematofagi, come pulci, pidocchi, zecche e acari, si sono talora conservati allo stato fossile, costituendo in tal modo una fonte importante di informazioni paleopatologiche comparative. Recenti scoperte hanno permesso addirittura di analizzare, anche dal punto di vista patologico, i resti di sangue contenuti nel tubo digerente di una zanzara fossile conservata nell'ambra pliocenica della Tanzania (Capasso). Anche molti parassiti microscopici possono essere rintracciati in contesti archeologici. Già nel 1913 Ruffer identificò i resti della Bilharzia haematobia in una mummia egizia risalente alla 20ª dinastia. Il continuo progredire di questi studi ha consentito l'isolamento di agenti patogeni sempre più piccoli, fino alla recente dimostrazione della presenza del virus del vaiolo in una mummia infantile napoletana di età rinascimentale (Fornaciari) e del Tripanosoma cruzi in una mummia peruviana di epoca precolombiana affetta da malattia di Chagas.
I materiali indiretti sono rappresentati da tutte quelle fonti documentarie, letterarie e artistiche, la cui interpretazione in chiave medica può fornire informazioni sulla storia antica delle malattie dell'uomo. Per es. molte pitture e sculture egizie, greche, romane, sudamericane, raffigurano soggetti che appaiono colpiti da varie malattie rappresentando spesso una delle fonti iconografiche più ricche, anche se sempre di difficoltosa interpretazione, per quel che riguarda lo stato di salute di popoli antichi.
Lo studio in chiave medica di questo insieme eterogeneo di materiali ha permesso di dimostrare la grande antichità di molte malattie dell'uomo e di ricostruirne l'evoluzione nel corso di tempi lunghissimi. Molti taxa, appartenenti a quasi tutti i principali gruppi di malattie attuali, sono stati individuati e descritti anche su materiali antichi, tanto biologici diretti quanto indiretti.
Patologie individuate. - Fra le malattie congenite è stata individuata e descritta una moltitudine di anomalie ossee sia distrettuali che sistemiche. Fra esse meritano una menzione: il nanismo acondroplasico, i cui più antichi casi sino a oggi noti risalgono al Paleolitico superiore (Papasidero, Calabria); l'osteogenesi imperfetta, con casi risalenti alla 21ª dinastia egizia; il mongoloidismo, con casi tedeschi di epoca romana. Fra le centinaia di forme distrettuali rammentiamo la palatoschisi, individuata sia fra le popolazioni dell'Egitto antico sia fra quelle precolombiane peruviane e protostoriche europee, nonché, attraverso fonti scritte, nella Cina dell'epoca prevolgare. Di riscontro frequente in tutte le popolazioni umane antiche sono anche le anomalie distrettuali dello scheletro assiale, come la spina bifida e la costa soprannumeraria cervicale.
Fra le malattie traumatiche le fratture hanno avuto un ruolo importante. Le comunità umane paleolitiche di cacciatori-raccoglitori nomadi erano più esposte al rischio di traumi rispetto alle comunità mesolitiche e neolitiche di agricoltori sedentari. Ciò ha comportato, in generale e con le dovute eccezioni locali, che la frequenza delle fratture scheletriche è diminuita gradualmente dal Paleolitico in poi, per riaumentare, di colpo, qualche decennio fa, a causa della ben nota sinistrosità connessa con lo sviluppo dei moderni mezzi di trasporto nelle aree più industrializzate del pianeta. Anche la frequenza delle complicanze dei traumi scheletrici sembra aver subito un decremento apprezzabile durante gli ultimi due millenni: la percentuale di fratture con evoluzione in pseudoartrosi o con formazione di callo esuberante è dimostrata a partire dal Neolitico a oggi almeno per ciò che concerne l'Europa. Una particolare categoria di lesioni traumatiche è rappresentata dai traumi provocati volontariamente, anche a scopo terapeutico. Rammentiamo a questo proposito soprattutto la trapanazione del cranio, diffusamente praticata in varie parti del globo e in tutte le epoche a partire dal Paleolitico superiore (Marocco) fino ai giorni nostri (Africa centrale). In questa stessa categoria di lesioni rientrano anche le mutilazioni intenzionali, come le fratture dentarie e nasali prodotte a scopo punitivo (specialmente per castigare e contrassegnare ladri colti sul fatto) e le amputazioni di arti praticate a scopo terapeutico (v. anche chirurgia: Chirurgia dei primitivi, X, p. 139). Vanno infine menzionate le lesioni traumatiche prodotte da armi, come punte di freccia o spade, che possono rappresentare anche una causa di morte relativamente frequente in antiche popolazioni con abitudini guerriere.
Le malattie da squilibri vitaminici, sebbene di difficile diagnosi sui materiali ossei antichi, sono di grande importanza storica, soprattutto per le dimostrate connessioni con il regime alimentare. L'ipovitaminosi C (scorbuto) era forse presente già in Mesopotamia, come sembra dimostrare l'interpretazione di talune fonti scritte. Essa era molto frequente fra gli antichi Maya che popolavano l'America Centrale fra il 500 e il 1000 d.C. in relazione alla grande diffusione del mais e dei suoi derivati come fattore dietetico locale. L'ipovitaminosi D (che produce una forma di rachitismo) era documentatamente presente nell'Europa settentrionale già dal Neolitico, mentre fonti scritte dimostrano che essa era presente in Cina già dal 3° secolo a.C. Tracce di ipovitaminosi D sono state documentate fra gli Indiani nordamericani già a partire dal 3° millennio a.C., mentre la malattia sembra essere stata assente fra i popoli preistorici centro e sudamericani.
Fra le malattie endocrine e metaboliche rammentiamo il gigantismo ipofisario, già invocato per spiegare le enormi dimensioni di ominidi fossili quali i cosiddetti Meganthropus e Paranthropus robustus. L'acromegalia è nota in Europa a partire dal Neolitico, mentre il nanismo ipofisario è stato ben documentato fra le popolazioni del Perù precolombiano e dell'Egitto dinastico. Il nanismo tiroideo (cretinismo), invece, endemico ancor oggi in ristrette aree dell'arco alpino occidentale, era già noto a Giovenale e a Plinio il Vecchio.
La patologia infiammatoria è nota soprattutto attraverso le localizzazioni ossee di germi: le osteomieliti e le periostiti sono infatti malattie ben note in paleopatologia. Esse, tuttavia, furono relativamente rare nelle comunità umane paleolitiche di cacciatori-raccoglitori nomadi. Con l'avvento delle abitudini agricole verso la fine del Paleolitico superiore si ebbe un incremento della frequenza delle osteomieliti, come unico segno osseo di un probabile incremento generale di tutte le malattie infettive; è verosimile che ciò sia in relazione al fatto che queste malattie abbiano potuto circolare con maggiore facilità nelle comunità umane stanziali che si formarono a seguito dell'adozione dell'agricoltura tanto nel vecchio come nel nuovo mondo. La tubercolosi è una forma specifica di patologia infiammatoria con localizzazione scheletrica prevalente alle epifisi delle ossa lunghe e alla colonna vertebrale. Studi di p. comparata e di microbiologia hanno permesso di dimostrare che il batterio causa della tubercolosi umana è una forma derivata dal batterio della tubercolosi bovina.
Molto significativamente i più antichi casi di tubercolosi umana risalgono al Neolitico del vecchio mondo: in quest'epoca e in questa regione della Terra, infatti, ebbe origine anche l'allevamento bovino. È possibile, pertanto, che con il conseguente determinarsi di un contatto diretto e ripetuto fra uomini e bovini si siano potuti verificare frequenti passaggi del bacillo della tubercolosi bovina all'uomo fino a giungere alla costituzione di una specie perfettamente adattata al nuovo ospite con l'acquisizione della capacità di passaggio diretto fra uomo e uomo. È significativo che la tubercolosi ossea, documentata paleopatologicamente a partire dal Neolitico nel vecchio mondo, sia rimasta sconosciuta nelle Americhe prima del contatto con gli europei, Vichinghi prima e Spagnoli più tardi. Infatti, sebbene in America Centrale e Meridionale l'allevamento del bestiame fosse stato adottato precocemente, esso coinvolse prevalentemente specie animali (come i lamidi) esenti da infezione tubercolare. Ciò spiega l'enorme sensibilità mostrata dagli Indiani d'America nei confronti del bacillo della tubercolosi umana: milioni morirono di tubercolosi negli anni immediatamente successivi ai primi viaggi intercontinentali di Colombo.
La lebbra, sebbene sia una malattia infettiva con scarso coinvolgimento scheletrico, è anch'essa ben nota dal punto di vista paleopatologico. Le più antiche notizie sono concentrate in Asia. Infatti molti ricercatori hanno rintracciato descrizioni della lebbra (o di una malattia assai simile) in scritti indiani risalenti al 600-400 a.C., e cinesi del 250 a.C. circa. Nei paesi del bacino mediterraneo la lebbra fu assente sino al 3° secolo a.C. circa; infatti lo studio paleopatologico di migliaia di mummie e scheletri egizi datati prima di quell'epoca non ha permesso sinora d'identificare alcun caso di questa malattia.
Le più antiche segnalazioni riguardano scheletri dell'oasi di al-Dākhlah, in Egitto, un vero e proprio lebbrosario (il più antico sino a oggi noto) risalente all'epoca tolemaica (330-05 a.C.). È verosimile, pertanto, che dai focolai asiatici, attivi probabilmente già durante il primo millennio a.C., la lebbra sia stata portata in area mediterranea da Alessandro Magno di ritorno dalla campagna d'India nel 327 a.C. Nel corso del Medioevo la malattia conobbe una grande diffusione in Europa e specialmente nei paesi settentrionali del continente (Inghilterra, Danimarca, Polonia); essa giunse in America solo in epoca post-colombiana.
Anche le treponematosi umane (attualmente la sifilide, il bejel, la framboesia e la pinta) hanno una storia biologica di grande interesse e sono state oggetto di studi paleopatologici approfonditi che hanno condotto addirittura a una ricostruzione di un albero genealogico degli agenti patogeni delle varie forme umane attuali. Questo particolare interesse è anche suscitato da una diatriba storica: se la sifilide fu o meno importata nel vecchio mondo da Colombo di ritorno dai suoi viaggi in America. Le evidenze paleopatologiche tenderebbero a escludere a tutt'oggi la presenza della sifilide nel mondo precolombiano, mentre è contemporaneamente innegabile un'esplosione epidemica della malattia in Europa all'inizio del 16° secolo d.C.
Secondo una teoria, inizialmente proposta da Butler, è possibile che la spirocheta, causa della sifilide, rappresenti un'evoluzione relativamente recente di agenti eziologici che nell'uomo preistorico causavano altri tipi di treponematosi. La forma più arcaica potrebbe essere assimilata alla pinta, una treponematosi cutanea attualmente circoscritta al Sudamerica. I viaggi intercontinentali compiuti dagli Spagnoli fra il 15° e il 16° secolo potrebbero effettivamente aver prodotto uno scambio di spirochete con un conseguente potenziamento degli effetti patologici in Europa (Capasso).
Molte malattie infettive che, al contrario della sifilide, della tubercolosi e della lebbra, non lasciano segni specifici sulle ossa, sono assai meno conosciute dal punto di vista paleopatologico. È il caso della malaria che, pur essendo stata una malattia importante e diffusa nel mondo antico, ha lasciato poche testimonianze dirette. Di essa si trovano riferimenti scritti nelle fonti greche e romane (Grmek), ma è certo che la malattia ebbe ben più remote origini. I paleopatologi sono propensi a credere che i plasmodi, parassiti originariamente tipici delle ghiandole salivari delle zanzare, circolassero fra le zanzare e i nostri antenati preumani già nell'ambiente forestale africano del Quaternario inferiore e medio. Tuttavia le deforestazioni e gli interventi irrigui correlati all'avvento dell'agricoltura potrebbero aver favorito la differenziazione di insetti più strettamente e specificamente legati all'uomo e al nuovo ambiente prodotto dal suo insediamento e contemporaneamente potrebbero aver facilitato la selezione di plasmodi particolarmente aggressivi.
Le prove dirette di questa storia evolutiva sono scarsissime e limitate allo studio delle zanzare fossili e al rilievo di generici stati di anemia rilevabili sulle ossa umane antiche. Di più non si può dire: non si può valorizzare il reperto, relativamente frequente nelle ossa umane antiche, di un'iperostosi porotica, perché se è vero che il possibile collegamento di questa con un'ipertrofia del midollo osseo può denunciare un'anemia con ipossiemia, è anche vero che non è mai stata dimostrata una corrispondenza univoca tra l'iperostosi e un qualche particolare tipo di anemia. Potrebbero essere in gioco tanto l'anemia associata alla malaria quanto quelle associate ad altri tipi di malattie, come ipovitaminosi (stati malnutrizionali dell'infanzia) o anche le parassitosi intestinali. D'altra parte proprio queste ultime malattie sono state certamente molto diffuse nell'antichità. Uova e resti di vermi intestinali di vario genere (dalle tenie agli schistosomi, ai trichiuri e altro) sono stati ripetutamente segnalati sia nel contenuto intestinale di mummie (tanto del vecchio quanto del nuovo mondo), sia nei coproliti umani rinvenuti durante scavi archeologici.
Un capitolo di enorme interesse storico e medico è quello delle malattie neoplastiche. Sfortunatamente sono soltanto poche le forme neoplastiche che possono lasciare segni sulle ossa, e molti fattori agenti post mortem possono cancellare queste tracce ovvero dissimularle. Ciononostante i tumori primitivi dello scheletro sono stati documentati sulle ossa provenienti da scavi archeologici con una frequenza comparabile a quella con la quale queste stesse patologie sono presenti oggi. Si tratta certamente di malattie antichissime, come dimostra un caso di tumore primitivo dell'osso localizzato alla mandibola di un'australopitecina africana. Quasi tutti i tipi di tumori primitivi dello scheletro sono noti anche attraverso casi paleopatologici: si va dagli emangiomi agli osteocondromi, agli osteomi e − fra quelli maligni − agli osteosarcomi, ai condrosarcomi, ai sarcomi di Ewing, ecc.
Queste malattie furono generalmente poco frequenti nell'antichità, se si eccettua il caso del cosiddetto osteoma del cranio, un'escrescenza bottoniforme di osso compatto che arrivò a colpire percentuali notevoli di talune popolazioni antiche (per es. il 2,2% del Pueblo Indico sudamericano precolombiano). Il maggiore interesse paleopatologico per le malattie neoplastiche, tuttavia, gravita attorno alla questione dell'antichità dei carcinomi. Effettivamente questi tumori sono documentabili con difficoltà sulle ossa umane lungamente inumate, per l'interferenza di aspetti pseudopatologici. Infatti possono teoricamente essere studiati solo quei carcinomi che danno metastasi scheletriche (classicamente soprattutto i carcinomi della tiroide, della mammella, dei reni e della prostata). Ciononostante lesioni scheletriche riconducibili a metastasi da carcinomi sono state dimostrate molto raramente in materiale osseo umano antico. D'altra parte neanche lo studio dei materiali mummificati (per es. i moltissimi di provenienza egiziana) ha consentito d'individuare tracce di carcinomi in numero tanto rilevante da poter essere paragonato all'attuale situazione epidemiologica. Evidentemente i carcinomi sono stati in passato patologie più rare di quanto non lo siano attualmente. Ciò è in larga misura correlato al fatto che i carcinomi colpiscono un'età, generalmente quella compresa fra i 50 e i 70 anni, che veniva raggiunta raramente nelle antiche popolazioni. Cosicché la riscontrata rarità paleopatologica dei carcinomi, più che a un'effettiva minore frequenza di queste malattie in passato, è da collegarsi senz'altro alla scarsità con la quale la fascia degli ultracinquantenni era rappresentata nelle antiche popolazioni.
Fra le malattie di particolare interesse paleopatologico vanno infine rammentate le patologie dentarie, sia per le dimostrate connessioni con le abitudini alimentari, sia per la grande frequenza che attualmente alcune di esse hanno raggiunto. Segnatamente la carie dentale che, se oggi colpisce fino all'80% della popolazione dei paesi industrializzati, è risultata rarissima nell'uomo fino al Paleolitico superiore e completamente assente negli antenati non ancora appartenenti alla nostra specie. Con l'avvento dell'agricoltura la carie aumentò di frequenza soprattutto a seguito di un incremento della frazione glicidica presente nella dieta (farine di cereali coltivati), ma anche grazie a un progressivo, generale ingracilimento dei denti in relazione a una diminuita richiesta funzionale dell'organo della masticazione, impegnato nel trattamento di cibi sempre meno coriacei e laboriosi da masticare.
Nel complesso, lo studio paleopatologico dei resti umani antichi ha consentito di dimostrare che le malattie, come qualsiasi altro fenomeno del mondo vivente, sono state e sono in costante evoluzione, e che tutte le malattie dell'uomo hanno tra loro stretti rapporti e sono tutte strettamente correlate sia con gli ospiti che con l'ambiente, così da costituire nell'assieme un'unità biologica (che M. D. Grmek ha chiamato ''patocenosi'') inserita nell'ecosistema umano. Nell'ambito della patocenosi le malattie nascono (recente è il caso dell'AIDS) e scompaiono (è il caso della gravissima encefalite letargica all'inizio del 20° secolo), si spostano sulla superficie del pianeta (com'è accaduto per la tubercolosi dopo i viaggi di Colombo) e cambiano le loro caratteristiche epidemiologiche (è il caso dei carcinomi in relazione all'invecchiamento della popolazione). Inoltre le malattie mutano anche le loro caratteristiche cliniche e anatomopatologiche in relazione a cambiamenti climatici (com'è probabilmente accaduto per le treponematosi), in relazione a migrazioni umane e animali, a variazioni delle abitudini di vita e di lavoro (com'è avvenuto per i mutamenti della patocenosi connessi all'avvento dell'agricoltura e dell'allevamento). La conoscenza di questo complesso di variazioni subite dal nostro stato di salute è indispensabile anche per comprendere le leggi di mutamento e di evoluzione nel tempo delle malattie dell'uomo, e del loro adattamento ai cambiamenti dell'ecosistema umano. Una tale conoscenza è acquisibile solo attraverso l'applicazione di metodologie mediche allo studio dei resti umani antichi, cioè solo attraverso la paleopatologia.
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