PALERMO
(gr. ΠάνοϱμοϚ; lat. Panormus; arabo Balarm; Panhormus, Panhormos, Panhormum, Palarmum nei docc. medievali)
Città di origine fenicia, oggi capoluogo della Sicilia e sede metropolitana, situata sul mar Tirreno, nella parte occidentale della conca d'Oro, e dominata a N dal monte Pellegrino.
Nel corso del sec. 3° a P. era già largamente introdotto il cristianesimo, come testimoniano gli ipogei cimiteriali che da quel secolo cominciarono a sorgere a porta d'Ossuna, sotto le Cappuccinelle e nei pressi dell'insediamento gesuitico di casa Professa; inoltre, la vasta necropoli cristiana, individuata tra le od. via Ruggero Settimo e piazza XIII Vittime, ha restituito suppellettili databili sino al 7° secolo.Grazie alle sue mura urbiche che sovrastavano i due corsi d'acqua - il Papireto e il torrente del Maltempo, detto poi Kemonia - con funzione di fossato, nel 440 P. resistette all'assedio dei Vandali, ma in seguito ne divenne preda. Nel 491 la città fu occupata dagli Ostrogoti senza opporre resistenza. Non sono note tracce di una qualche opera eretta durante il dominio di questa popolazione di religione ariana, che nel 535 dovette peraltro arrendersi ai Bizantini.Sotto il dominio bizantino la città sembra non aver subìto complessivamente significativi cambiamenti, mantenendo la forma e la dimensione racchiusa dalle mura dei nuclei originari della palaepolis e della neapolis classica. Non è pervenuta alcuna struttura riconoscibile dell'attività edilizia bizantina, menzionata peraltro da fonti letterarie, anche di età bassa. Nella parte alta della palaepolis, nell'area dell'od. palazzo Reale, altrimenti detto dei Normanni, era probabilmente ubicata la sede del potere temporale. Si sa inoltre che vi sorgeva un sontuoso edificio chiamato in seguito aula viridis. Vicina a questa si ergeva la chiesa di S. Maria dell'Annuziata, detta della Pinta, e quasi certamente vi iniziava anche la ruga Coperta; su modello bizantino (Bellafiore, 1966-1967), questo lungo porticato collegava la sede del potere temporale con la cattedrale del sec. 6° - eretta su una precedente, sorta sui resti di un tempio, forse nel sec. 4° - costruita immediatamente oltre il muro che separava la città vecchia dalla neapolis. Nelle vicinanze sorgeva la chiesa di S. Agata alla Guilla, che diede poi il nome alla porta urbica Shantaghāt degli arabi. Fuori delle mura, nelle grotte naturali o scavate nel banco tufaceo della ripa meridionale del Kemonia, si trovavano alcune sedi di culto: S. Ermete presso S. Giovanni degli Eremiti; Santa Parasceve e S. Pancrazio presso la casa Professa e Ss. Quaranta Martiri al Casalotto. Di uno xenodochium e di alcuni monasteri si ha notizia da Gregorio Magno (Registrum epistolarum, I, 9; II, 50; V, 4; VI, 41; IX, 35; IX, 171). Dominata militarmente da Bisanzio, la Sicilia divenne un tema del suo impero; ciò comportò la progressiva ellenizzazione della cultura isolana, che nei tre secoli di dominio bizantino diventò definitiva anche nel campo ecclesiale, ma segnò anche l'inizio del declino economico della regione.Nell'831 la città passò ai musulmani; sotto il nuovo dominio a P. si insediò l'emiro aghlabide e la città tolse così a Siracusa l'antico primato sull'isola. Favorita dal suo nuovo ruolo politico-amministrativo e militare, essa crebbe rapidamente e tumultuosamente, tracimando le mura urbiche con numerosi e popolosi quartieri esterni. Entrò nella storiografia urbanistica con la descrizione che ne fece Ibn Ḥawqal nel Kitāb ṣūrat al-arḍ nel 947: "[P.] si compone di cinque quartieri, non molto lontani [l'uno dall'altro], ma sì ben circoscritti che i loro limiti appariscono chiaramente". L'insieme di palaepolis e neapolis racchiuse dentro l'antica cinta muraria, aperta da nove porte, restava per un altro secolo l'unico nucleo fortificato, chiamato al-Qaṣr (Cassaro). L'antica via Marmorea (corrispondente all'od. corso Vittorio Emanuele, tra la cattedrale e via Roma) era diventata un mercato, mentre la cattedrale bizantina era stata trasformata in moschea.L'emiro con il suo dīwān si era probabilmente stabilito nella sede che era stata del potere bizantino, nella palaepolis, ora Ḥalqā ('recinto'). Pur avendo vicino al-Mu῾askar, "la stanza dei soldati" (Amari, 1880-1881, II, p. 47, n. 2), l'ubicazione della sede dell'emiro si rivelava poco sicura, in quanto immersa nella riottosa città; per questo nel 937 l'emiro Khalīl costruiva la sua cittadella vicino al promontorio che allora separava e proteggeva il seno interno del porto (od. piazza Marina), chiamata Khāliṣa. La scelta del sito rispecchiava la necessità di trovarsi separati da al-Qaṣr e vicino al mare. Di incerta ubicazione, Khāliṣa ha lasciato il suo nome al popoloso e molto più ampio quartiere della Calsa. Più a S, sempre oltre il Kemonia, si trovavano accostati due altri quartieri: Harāt al-Masjid ('quartiere della moschea', con riferimento a quella di Ibn Ṣiqlāb) e Harāt al-Jadīda ('quartiere nuovo'). A N-O di al-Qaṣr oltre il Papireto, tutta la fascia sino al mare era occupata dalla Harāt al-Ṣaqāliba ('quartiere degli Schiavoni'), con il porto. Degli edifici sorti a P. sotto il dominio islamico rimane ben poco di individuabile con certezza: i resti archeologici di una moschea nel complesso di S. Giovanni degli Eremiti, nonché i pochi resti del mastio di Castellammare che per i Normanni era palatium vetus (Ugo Falcando, Historia). Si tratta della più antica opera di controllo dell'ingresso al porto di cui si abbia notizia ed era costruito anche a custodia della catena portuale (Zorić, in corso di stampa). Sono probabilmente da attribuire al periodo del dominio islamico anche i resti sotterranei dei qanāt (Todaro, 1988), impianti tecnologici di alimentazione idrica aventi lontane origini persiane.Nel 1072 P. si arrendeva alle milizie normanne capeggiate dai fratelli Ruggero I (m. nel 1101) e Roberto I il Guiscardo (m. nel 1085). I nuovi dominatori non si insediarono nella cittadella di Khāliṣa, ma preferirono attestarsi nella Ḥalqā o Galca, al limite dell'opposta estremità di al-Qaṣr, dove, all'interno dell'antico muro che separava la penisola dalla terraferma, edificarono la loro cittadella, sede del nuovo potere. Consci di essere in Sicilia una stretta minoranza, i nuovi dominatori decisero di fortificare, chiudendole in un unico insieme, le parti economicamente più interessanti dell'area urbana. Il tracciato mistilineo della nuova cinta urbica, le cui mura si appoggiavano alle preesistenti opere fortificatorie, delle quali sfruttavano i tratti compatibili con il nuovo disegno, inglobava le più popolose borgate ereditate dalla dominazione islamica. Congiungendosi all'angolo sud-ovest del complesso della loro cittadella, che si era sviluppata all'interno delle mura occidentali della Galca e che costituiva il nucleo del palazzo Reale, la nuova cinta andava verso S-E per m 250 ca., e si piegava poi in direzione E/N-E sino ad attestarsi alle mura di Khāliṣa, nelle vicinanze del mare. Il ramo opposto, attaccato all'angolo delle mura della palaepolis sopra l'od. mercato delle Pulci, seguiva per m 400 ca. verso N-O l'od. corso Alberto Amedeo sino all'angolo occupato oggi dal palazzo di Giustizia, dove, per inglobare il popoloso quartiere di Seralcadi, svoltava proseguendo verso E, sino a comprendere anche il quartiere marittimo di Terracina nelle prossimità di Castellammare, il quale bloccava la cinta urbica all'angolo nord-est della città. Nel tratto del muro ancora visibile nel corso Alberto Amedeo sono tuttora leggibili i marchi dei lapicidi dell'età normanna (Zorić, 1987).Con l'insediarsi del sovrano nella Galca, al-Qaṣr riassunse le funzioni di centro direzionale: ne vennero espulsi i mercati e insieme la popolazione di origine semitica che li animava, in connessione con la costruzione dei grandi palazzi e delle chiese dei dignitari del nuovo potere. L'intervento riordinatore dei governanti normanni aveva investito subito anche l'area extra moenia. Nel quarto decennio del sec. 12°, l'ammiraglio Giorgio d'Antiochia faceva costruire a proprie spese a valle del guado del fiume Oreto un enorme ponte a sette arcate, tuttora esistente. Costruito in pietra, permetteva con ogni tempo un sicuro attraversamento alla magna via publica proveniente da Termini che, superandolo, puntava dritto verso porta termarum. Tra questa via e il monte Grifone, seguendo la passione dei signori musulmani per le ville suburbane, Ruggero II (1130-1154) faceva costruire il castello della Favara o Maredolce (Zorić, 1989). Con esso ebbe inizio la serie dei regi solatia disposti a corona nella conca d'Oro, come Zisa, Cuba, Cuba Soprana, Scibene, Altofonte. Almeno il primo di essi, Maredolce, è forse da analizzare anche come un razionale centro di azienda; il palazzo fortificato è stato infatti eretto su un terrapieno-banchina sporgente con tre lati dentro un ampio compluvio naturale, sbarrato poi a valle, come risulta dalla descrizione dei lavori di Romualdo Salernitano (Chronicon, a.1152-1153). Un razionale impianto di captazione costruito direttamente sulla Fawwāra ('sorgente') grande rendeva all'occorrenza possibile convogliare l'acqua altrove; se immessa invece normalmente nell'invaso, essa non alimentava soltanto un ameno e articolato lago di delizie con l'isola artificiale di fronte al palazzo, ma formava un'enorme riserva di preziosa acqua dolce indispensabile per irrigare anche massicciamente i terreni a valle nei periodi di scarsa piovosità. Dato che nell'Europa della prima metà del sec. 12° non sono note realizzazioni del genere, è possibile riferire questo intervento dimensionalmente a scala territoriale alla migliore tradizione della cultura medio-orientale e ciò malgrado i marchi dei lapicidi che costellano i conci delle murature della diga e del palazzo siano in maggioranza latini e greci. Oltre al solatium, a testimoniare la razionalità del re e la bravura dei suoi tecnici sopravvivono ancora la grande diga con l'inesplorato sistema di eduzione di acque che l'attraversa, l'isola e la struttura per la captazione dell'acqua.Forti del privilegio di legazia apostolica avuto da Urbano II nel 1098, il conte Ruggero I e i suoi eredi, dopo l'iniziale favore accordato ai monaci basiliani, potevano procedere alla rifondazione della rete di vescovadi con a capo i prelati latini pronti ad assecondare la loro politica di consolidamento della conquista. Tale linea utilitaristica implicava comunque massicci interventi nell'edilizia ecclesiastica e così per loro "la crociata in terra d'infedeli diveniva anche una crociata architettonica" (Di Stefano, 1955, p. XXI).I monumenti aulici dell'età normanna superstiti si situano lungo due principali correnti evolutive, generate dai diversi substrati culturali dominanti nell'isola già prima della conquista. I più rappresentativi edifici palermitani del periodo appartengono alla corrente di gusto 'islamizzante' dominante nella Sicilia occidentale. Sia l'architettura ecclesiastica sia quella laica mostrano alcuni caratteri comuni: la volumetria degli edifici è data da masse elementari, cubi o prismi, e dalle loro combinazioni fatte per accostamenti semplici. Nelle chiese a pianta basilicale, il 'latino' predominio volumetrico del presbiterio sulle navate è risolto con semplice accostamento di nitidi volumi. La fascia basamentale, spesso alta alcuni metri, è costituita da filari di grossi blocchi; il resto dei paramenti è fatto tassativamente con l'uso di blocchetti di pietra qiṭ῾ān tagliata (Ibn Jubayr, Riḥla), quel locale tufo quaternario che si prestava così bene alla lavorazione. La fattura e l'assemblaggio dei conci mostrano già dagli inizi la notevole precisione raggiunta da una maestranza libera (Zorić, 1987). I paramenti esterni hanno le superfici sopra la fascia basamentale animate da raffinati giochi di piatti rincassi delle multiple archeggiature cieche, che a loro volta spesso incorniciano le finestre. Tralasciando le poche feritoie che forano l'altrimenti compatta massa muraria del piano terreno, i vani delle finestre, di luce piuttosto modesta, si aprono sempre in alto, hanno l'imbotte a squadro e sono concluse con un arco a due centri; all'esterno esse sono sottolineate da uno o due rincassi. Nelle chiese i vani delle finestre erano quasi sempre schermati da spesse transenne costituite da lastre di stucco o di marmo, traforate a complessi disegni geometrici (Salinas, 1910). Più rare sono le notizie sulle transenne in lastre di piombo o, anche, in legno (Zorić, 1987).Gli archi sono a due centri e la loro costruzione comporta normalmente la formazione di due ghiere, delle quali l'interna è sempre leggermente arretrata; si sviluppano da alti piedritti e di norma poggiano su capitelli e colonne: queste sono sempre di riuso e spesso lo sono pure i capitelli, a volte anche rilavorati. Nel periodo più tardo si riscontra anche l'uso di pilastri tondi, tecnica costruttiva di provenienza nordica. Le volte sono generalmente a crociera, ma su ambienti lunghi si trovano spesso anche volte a botte. In ambedue i casi sono costruite a due centri. Le cupole sono emisferiche e risultano sempre rialzate, anche se questo all'esterno può essere mascherato da un tamburo. Le calotte sono costruite con anelli concentrici di piccoli conci accuratamente tagliati. All'esterno le cupole venivano sistematicamente protette con un apposito impasto impermeabilizzante, composto a base di calce spenta e farina di cocciopesto, che conferiva loro la ben nota e caratteristica colorazione rosata. Un particolare tipo di struttura voltata in uso è quella delle muqarnas; esse non sono plasmate in gesso, come si è talora ritenuto, ma costruite in maniera veramente mirabile accostando i conci di pietra dal taglio assai complesso (Zorić, 1987).Il disinibito interesse dei Normanni per le altre culture ha generato una delle innovazioni più interessanti da loro introdotte: la fusione dell'organismo bizantino a pianta centrica e cupola con quello dell'aula basilicale di tradizione latina. Esempio di questa sintesi di altissimo valore estetico è la Cappella Palatina fatta costruire da Ruggero II nel palazzo Reale tra il 1130 e il 1140. La sua aula latina, a tre navate coperte da soffitti lignei lavorati a muqarnas, si innesta a un presbiterio che ha la struttura e la spazialità di una chiesa bizantina: avendo la stessa larghezza dell'aula, ha la zona centrale coperta da un'ampia cupola su nicchie angolari e l'abside centrale preceduta da un breve bema, mentre gli spazi laterali di protesi e diaconico sono absidati e coperti con volta a botte. I pavimenti sono di tipo cosmatesco, così come le lastre che racchiudono il coro; tutte le superfici murarie al disopra del lambris marmoreo sono rivestite, alla maniera bizantina, da mosaici con fondo oro, mentre i soffitti dell'aula sono ricoperti dal più grande ciclo di pitture islamiche di questo periodo (Monneret de Villard, 1950).Dai documenti risulta che nella Cappella Palatina si celebrava con ambedue le liturgie: la greca e la latina. Anche le altre chiese mostrano le predilezioni personali dei committenti: così S. Maria dell'Ammiraglio, o della Martorana, eretta ante 1143 dall'ammiraglio Giorgio d'Antiochia, mostra la cupola con tamburo esterno di derivazione siriaca; la contigua chiesa di S. Cataldo (1154-1160) - eretta da un altro ammiraglio, Maione da Bari - è articolata con quattro colonne che separano le tre navate e portano il rialzo di quella centrale: un prisma con tre cupolette, carico di echi pugliesi; la extraurbana chiesa di Santo Spirito, eretta dall'arcivescovo Gualtiero Offamilio (1169-1190) per i Cistercensi, con i suoi spogli pilastri rotondi, privi persino di capitelli, e con il suo semplice tetto a capriate, denuncia palesemente le esigenze estetiche dei destinatari, mentre la bicromia degli archi intrecciati sul fianco settentrionale e attorno alle absidi attesta piuttosto il gusto dell'arcivescovo committente: il fianco meridionale sul quale si innestava il chiostro, oggi perduto, era disadorno, secondo le norme proclamate da s. Bernardo di Chiaravalle. Il committente della chiesa di Santo Spirito, Gualtiero, era stato precettore di Guglielmo II e perciò indicato nei documenti con l'appellativo Offamilio (ὁ ΦαμίλιοϚ), titolo di corte che in seguito, letto erroneamente come of the mill, ha ingenerato malintesi sulla sua origine.Forse anche in competizione con lo stesso re, che stava erigendo la cattedrale di Monreale, Gualtiero demolì la vecchia cattedrale urbana e sullo stesso sito avviò l'erezione di un nuovo edificio. All'arcivescovo e al suo caput magister vanno attribuite alcune innovazioni costruttive: i due colonnati che separavano le tre navate erano formati da gruppi tetrastili di colonne granitiche, sormontati ciascuno da un abaco su cui poggiavano gli slanciati archi bicentrici a due ghiere. Queste strutture si conoscono, purtroppo, solo dalle incisioni e dalle descrizioni. La nuova chiesa era coperta da un tetto a capriate percorribile (Amato, 1728) e dipinto ed era dotata di un ampio corpo trasverso sporgente lateralmente e unificato con il presbiterio anche tramite le gallerie percorribili del cleristorio. L'enorme chiesa, che ebbe una prima consacrazione nel 1185, fu l'ultimo edificio notevole dell'età normanna a Palermo. Il prospetto occidentale fu definito solo nel Trecento, quando vennero aggiunte le quattro torri; era un cantiere aperto ancora nel 1453, allorché si costruì il portico meridionale.Nel successivo periodo svevo le uniche novità furono introdotte dai Francescani, che si erano insediati in una zona marginale, tra il porto e i quartieri degli arabi e degli ebrei. I loro edifici però furono distrutti nel 1224 dal vescovo e, successivamente, nel 1240 per ordine dell'imperatore Federico II di Svevia (m. nel 1250). Solo cinque anni dopo la sua morte i frati poterono cominciare la costruzione della chiesa dedicata al loro fondatore, edificio in cui, pur in presenza di elementi, come le finestre goticheggianti, appartenenti a una cultura di importazione, l'impianto generale si rifà alla tradizione tardoromanica siciliana della chiesa palermitana di Santo Spirito e della Badiazza di Messina; l'alto e molto sviluppato corpo trasverso è sporgente all'esterno, mentre le arcate su massicce colonne in pietra concia si allineano con quelle delle navatelle. Durante i secc. 14°-15° i muri delle navatelle vennero traforati dai portali di numerose e fastose cappelle private. Prima del sec. 16°, quando le navatelle furono voltate con crociere, l'intera chiesa era coperta con tetti lignei a vista dipinti.Dopo la morte di Federico II la Sicilia, per un secolo e mezzo, fu dilaniata dalle guerre. Nel 1266 il dominio dell'intera isola, e quindi di P., passò agli Angiò, che spostarono la loro capitale a Napoli. Con la venuta degli Aragonesi, a seguito della rivolta del Vespro del 1282 contro il dominio angioino, la nobiltà di crescente potenza anche economica, nel rifortificare i propri castelli e nel costruire le nuove dimore urbane, diede inizio allo sviluppo di un gusto decantatosi dall'eredità normanna. Infatti nella Sicilia occidentale l'influenza dello sperimentalismo gotico-cistercense dell'età di Federico II fu molto ridotto, forse anche per la quasi totale assenza della sua attività edificatoria, mentre vi era una forte presenza delle significative architetture di età normanna. L'esperienza architettonica sviluppatasi nel sec. 14° segnava un arretramento nella ricerca strutturale, mentre le maestranze creavano un loro nuovo e autonomo linguaggio. Alla fine del sec. 13° nel paesaggio urbano di P. dominavano i volumi delle torri del palazzo Reale, la mole della cattedrale e di qualche campanile e quella, isolata, di Castellammare. Esistevano ancora alcuni degli hospicia e qualche domus magna costruita da uomini di corte dei passati regni, ma la maggior parte del rimanente tessuto urbano era composto da un'edilizia piuttosto minuta di domuncule terrane e domus sollerate e di molti casalini diruti; risulta che persino il Cassaro si era andato spopolando.Con il sec. 14°, l'insediarsi nella città dei nuovi potentati portò a una notevole attività edilizia che spesso sconvolse il vecchio minuto tessuto. Anche le abbandonate mura del Cassaro e parte delle strade di arroccamento accoglievano nuove costruzioni; non sono pochi gli edifici ancora ben individuabili per le loro caratteristiche tipologiche e formali. L'impianto urbano resta imperniato sull'asse centrale, la via Marmorea, a cui si aggiungono le due parallele (od. via Bandiera nel Seralcadi e via del Crocifisso nell'Albergheria): tutte scendono da O verso i nuclei commerciali e il porto. Acquistò rilievo anche l'od. via Alloro, che, travalicando l'economicamente forte allineamento di ruga Minei-strada di S. Francesco, collegava una porta del Cassaro - dietro la quale di lì a poco sarebbe sorto il palazzo Senatorio - con la porta dei Greci vicino al mare. A cavallo di quest'asse, tra le vie Merlo e Lungarini e il viridarium della Magione sorgevano numerosi palazzi, ancora riconoscibili, per quanto trasformati nei secoli o danneggiati dalle bombe.Nel 1317, nel pieno della contesa guerreggiata con gli Angioini, Federico II d'Aragona (1296-1337) ordinava il riassetto della cinta muraria, un'operazione che si protrasse nel tempo a causa dei danni subìti nei ripetuti assedi (Acta Curiae, 1984-1987) e che riguardò anche le porte urbiche; sopravvivono ancora la porta di S. Agata e quella di Mazara.Nel 1326, con la Prammatica reale vennero per la prima volta codificate le norme per la promozione del decoro della città e contro l'occupazione abusiva dello spazio pubblico (De Vio, 1706), che diedero un impulso alla costruzione dei nuovi palazzi. Emblematiche sono le due regali dimore erette dalle più potenti famiglie emergenti, i Chiaramonte, conti di Modica, e gli Sclafani, conti di Adernò. I primi, che erano diventati il perno della organizzazione nella vincente resistenza agli assedi e attacchi agli Angioini, costruirono a P., su un rialzo roccioso ai margini della Calsa e nelle vicinanze del porto, il loro hosterium, da cui il nome di Steri per il palazzo. Si tratta di un nitido parallelepipedo di ottima muratura (altezza m 20 ca.; lati m 3639): il corpo sopraelevato al lato nord, pur ripetendo lo schema originario, è della seconda metà del secolo (Spatrisano, 1972) e la mole si sviluppa attorno a un cortile porticato quadrato. Il volume del massiccio palazzofortezza è caratterizzato da due fasce orizzontali ben distinte: la prima è un'alta, liscia e arcigna fascia terrena con ben controllati e disadorni ingressi e l'altra, a una dozzina di metri dal suolo, ingentilita da un ampio nastro compositivo che avvolge tutt'attorno il piano nobile, è formata da due cornici che collegano tutte le grandi bifore - e le trifore che illuminavano la sala magna con il grande soffitto dipinto - quattro per ogni prospetto. La cornice inferiore è marcapiano e serve anche da davanzale alle finestre; la superiore collega le imposte di tutti gli archi e i pulvini sopra i capitelli delle bifore. Questo motivo caratterizza anche altri edifici coevi, come il palazzo in via S. Antonio, lo scomparso palazzo chiaramontano alla Guadagna, palazzo Galbes e palazzo Santamarina. Allo stesso tipo compositivo potrebbero ascriversi anche alcune torri campanarie, come quelle di S. Antonio, di S. Nicolò all'Albergheria, della cattedrale, oltre a quelle demolite di S. Nicolò la Calsa e di S. Giacomo la Marina, una finestra della quale è stata rimontata nel Mus. Archeologico Regionale. Le bifore e le trifore su colonnine, avendo gli archetti e i soprastanti archi di scarico composti a piani degradanti, hanno ogni rientranza segnata da una colonnina inalveata; sia gli archetti sia gli archi di scarico sono riccamente ornati con tarsie laviche. Ambedue i motivi costituiscono un'evoluzione della tradizione normanna. La sala magna del piano nobile mostra altre due trifore verso il cortile interno, con ghiera a denti di sega a forte risalto chiaroscurale e zig-zag di bastoni, caratterizzati da densa e scattante plasticità, che contrastano con la più serena, pacata espressività delle finestre dei prospetti (Spatrisano, 1972). Proprio questo particolare modo scattante e plastico caratterizzò una grande corrente di architettura nella Sicilia occidentale del sec. 14° e degli inizi del successivo, che è entrata nella storiografia sotto il nome di architettura chiaramontana (Agnello, 1969).L'altra facies dell'architettura del sec. 14° a P., quella più 'ritardata', nella quale sopravvive maggiormente il nitore volumetrico normanno, è rappresentata dal palazzo degli Sclafani. Ubicato immediatamente fuori delle mura della Galca, questo parallelepipedo è alto m 25 ca. e ha la pianta costituita da un quadrato di m 50 di lato: dimensione inedita per un palazzo privato dell'epoca. Anche se danneggiato da molteplici interventi di adattamento nel prosieguo del tempo e con un'ala del tutto distrutta, la figuratività originaria dell'insieme è ancora ben leggibile. Le aperture - quelle originali, ancora esistenti e visibili nei disegni di Brini (1885) - mostrano che l'originario organismo si sviluppava su tre piani d'uso: il piano terreno, il piano nobile e, sotto le coperture, quello dei cadetti. Monofore al piano terreno, le finestre con archi bicentrici sono bifore ai due piani superiori, distribuiti con rigore compositivo inusitato nei prospetti divisi verticalmente da piatte lesene. Queste, poste a uguale distanza, raggiungono l'altezza delle imposte che hanno gli archi bicromi delle bifore al piano nobile. Da lì, alternativamente, spiccano i grandi arconi a pieno centro, anch'essi bicromi, creando una fascia di archi intrecciati che raggiunge le bifore dell'ultimo piano. Questo rigoroso spartito verticaleggiante, dal punto di vista figurativo, echeggia la soluzione data ai volumi absidali della cattedrale normanna di Monreale.I resti di alcuni altri notevoli edifici mostrano la stessa ascendenza verticaleggiante, senza interruzioni orizzontali, come la torre del palazzo Conte Federico, i resti del palazzo S. Ninfa e il palazzo in piazzetta Due palme. Tutti hanno poche piccole e strette aperture al piano terreno, mentre il piano nobile si affaccia all'esterno con bifore (anche a coppie sovrapposte, come nel palazzo in via Protonotaro), eseguite spesso su un piano arretrato, ma incorniciate sempre da un unico ampio arco sul piano della facciata. Questo arco è di norma riccamente ornato o con tarsie laviche a disegno geometrico o con una o più ghiere composte da bastoni sia piegati sia spezzati a zig-zag ed è quasi sempre ribadito all'esterno da un arco sopraccigliare più sporgente. A questo tipo apparteneva anche la facciata occidentale della distrutta chiesa di S. Nicolò la Calsa.La cappella Sclafani (od. Porto e Riporto), accanto alla chiesa di S. Francesco d'Assisi, così come le cappelle dei Calvello e del beato Gerardo, allineate lungo il fianco sud della stessa, con le loro colonne inalveate e gli archi delle absidi con sovralzo, mostrano quanto fosse ancora viva la tradizione normanna, mentre i costoloni delle crociere su colonne angolari non sono dimentiche della appena passata esperienza federiciana. Per il sincretismo che pervade l'architettura della fine del sec. 14° è emblematica la piccola chiesa chiaramontana di S. Antonio Abate allo Steri. La stesura dei prospetti non si discosta da quella del contiguo Steri, mentre le finestre, come le slanciate crociere, sembrano gravitare nell'orbita del Gotico angioino di Napoli; l'abside poligonale nervata a ombrello sembra desunta da quella, oggi distrutta, di S. Francesco d'Assisi, del 1254 (Spatrisano, 1972).
Bibl.:
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Il 1143, data che ricorre nell'iscrizione in greco posta alla base della cupola della Cappella Palatina, laddove re Ruggero II, con citazioni magniloquenti e persino erudite, si qualifica il committente dell'edificio (Kitzinger, 1992, p. 11), segna la soglia del nuovo ingresso dell'immagine dipinta, monumentale, a P. dopo la lunga latitanza subìta durante i tre secoli della dominazione islamica (I Normanni, 1994, pp. 256-257; Federico e la Sicilia, 1995, p. 3); reintegrazione che avvenne tramite la veste luminosa e preziosa del medium musivo in una stagione ricca di febbrile attività. Nell'arco di ca. un decennio (1143-1154), vennero realizzati i mosaici del presbiterio della Cappella Palatina e quelli nella chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio, per la committenza, questi ultimi, di Giorgio d'Antiochia, ammiraglio di Ruggero (Kitzinger, 1990).Nella Cappella Palatina il sistema s'incentra in una serie di immagini di santi disposti in ordine gerarchico: dalla figura chiave di Cristo alla rappresentazione di coloro che nel corso dei tempi hanno svolto segmenti del piano divino volto alla redenzione dell'uomo: i profeti, gli evangelisti, una nutrita serie di martiri ritratta sugli intradossi degli archi che sostengono la cupola, santi guerrieri e sante, collocati in modo da poter essere visti direttamente dal re che assisteva alle funzioni dalla loggia della parte nord del transetto. Completano lo schieramento gerarchico i santi medici e una serie di Padri della Chiesa e di santi vescovi. Su questo sistema di immagini, corrispondente al sistema classico bizantino, s'innesta la seconda componente, che consiste in una sequenza di scene che illustrano la Vita di Cristo su un impianto che mutua quello che è il canone del ciclo delle Feste, quale era venuto determinandosi a Bisanzio nel corso dell'11° e 12° secolo. Rispetto al ciclo canonico bizantino delle Dodici feste, la sequenza nella Cappella Palatina comprende l'aggiunta della scena della Fuga in Egitto e l'evidente lacuna di due scene essenziali: la Crocifissione e l'Anastasi. Ma queste ultime, secondo l'acuta esegesi di Kitzinger (1949; 1992, pp. 13-15), è assai probabile che facessero parte del piano originario e fossero collocate nell'ala nord, ai lati della loggia reale, al posto dei mosaici di fattura moderna raffiguranti soggetti del tutto arbitrari rispetto al contesto di epoca ruggeriana; il programma iconografico si conclude in modo organico con l'Ascensione nella volta dell'ala nord e la Pentecoste nella volta dell'ala sud.Nella scelta e nella disposizione dei soggetti, la decorazione della chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio dipende nella sostanza da quella della Cappella Palatina e, in modo particolare, dai mosaici del tamburo, del quadrato centrale e dell'ala sud del transetto (Kitzinger, 1990; 1992, p. 12). Tuttavia, vengono meno, talora, i nessi semantici attivi nel sistema della Cappella Palatina, specie per ciò che concerne il rapporto fra piano della prefigurazione veterotestamentaria e ciclo cristologico (Kitzinger, 1990), e sbiadisce il profilo ideologico, così influente nel sistema della Cappella Palatina.Nonostante i vincoli di dipendenza, dal punto di vista stilistico i mosaici ruggeriani della Cappella Palatina e i mosaici della chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio non sono fra loro assimilabili, ma rivendicano sufficienti margini di indipendenza sì da far postulare la copresenza a P. di diversi cantieri musivi, attivi a poche centinaia di metri nello stesso giro di anni (Kitzinger, 1986). Improntati ambedue a declinazioni stilistiche interne al linguaggio bizantino più puro, il ciclo della Cappella Palatina si contraddistingue per un impianto delle scene più aulico, e prezioso, il quale ha la sua controprova, a livello di materiali, nell'uso rarissimo delle tessere d'argento e della madreperla, mentre i mosaici di S. Maria dell'Ammiraglio, dal disegno comunque controllatissimo - si veda per es. la figura dell'Annunziata -, si qualificano per la loro aura più distesa, per l'ariosità delle superfici meno affollate e punteggiate dalla rigogliosa presenza di alberi, per una dominante cromatica dalle glauche tonalità (Kitzinger, 1990).La seconda stagione musiva a P. coincise con gli anni del regno di Guglielmo I (1154-1166) e comprese espressioni d'arte profana e d'arte sacra. Rare testimonianze del primo filone sono i mosaici con scene di caccia campiti sulle pareti della c.d. sala di Ruggero nel palazzo Reale (Demus, 1949), gli esigui frammenti superstiti nella torre Pisana (Kitzinger, 1983b) e il fregio, raffinatissimo, sulla parete di fondo della sala della Fontana nel palazzo della Zisa (Demus, 1949). All'altro filone appartengono la sequenza dei mosaici con scene della Genesi - dalla Creazione fino alle Storie di Giacobbe - sulle pareti della navata centrale della Cappella Palatina e la sequenza di scene della Vita dei ss. Pietro e Paolo nelle navate laterali. L'attribuzione dei mosaici a Guglielmo I trova conforto nell'affermazione contenuta in una fonte coeva, il Chronicon di Romualdo, arcivescovo di Salerno (1153-1181), e acquista senso in una lettura globale della Cappella Palatina quale si è venuta delineando nel crogiolo del lavorio critico, teso a far luce sulle funzioni dell'edificio e sul corredo di decorazioni e arredi. Di recente è maturata la convinzione (Tronzo, 1997) secondo la quale la Cappella Palatina nacque e svolse in periodo ruggeriano il doppio ruolo di santuario (ala orientale) e di sala del trono (ala occidentale), per poi successivamente elidere la funzione profana e riunificare l'invaso sotto la comune ed estesa funzione di cappella. In quest'ottica, una soglia importante è segnata dall'esecuzione dei mosaici, i quali non sono da intendere come una semplice prosecuzione del programma di immagini messo in atto nel presbiterio, ma come una scelta ex novo, in sostituzione di un diverso assetto decorativo consono alla funzione dell'ala occidentale quale sala del trono. Tale assetto è stato ricomposto nel suo insieme e nelle sue componenti, rintracciando il senso di lacerti figurativi tuttora esistenti, di elementi altrimenti anomali alla luce di una fonte d'eccezione, l'omelia di Filagato da Cerami, pronunciata nella ricorrenza della festa dei ss. Pietro e Paolo di un anno non precisato, ma certamente anteriore alla data di morte di Ruggero (Kitzinger, 1975). A connotare in modo laico, e non cristiano, la sala del trono furono chiamati l'altrimenti scandaloso soffitto dalle mille scene profane, dipinto da artisti di cultura islamica, il pavimento, il rivestimento a lastre di marmo e fasce di mosaico delle pareti, nonché l'assenza di un ingresso centrale sulla parete occidentale (Tronzo, 1997) e l'ostensione di drappi di seta, "intessuti d'oro e di diversi colori", secondo le parole di Filagato (Patera, 1980), da immaginare al posto dei mosaici di soggetto vetero e neotestamentario, la cui scelta ed esecuzione venne a segnare vistosamente la nuova funzione religiosa della già sala del trono, insieme ad arredi liturgici della portata del pulpito e del candelabro pasquale (Tronzo, 1997).Per ciò che riguarda le scelte sul piano iconografico, nonché gli esiti legati al montaggio delle scene e dei singoli elementi, è palese la messe di rapporti che stringe insieme i cicli guglielmini della Cappella Palatina e i cicli della cattedrale di Monreale (Demus, 1949; Kitzinger, 1960; Borsook, 1990), senza, tuttavia, che se ne possano disconoscere le significative differenze sull'uno e sull'altro piano (Kitzinger, 1960). Risulta, invece, appartato e di non agevole collocazione cronologica il pannello con Cristo in trono tra i ss. Pietro e Paolo sulla controfacciata. Ritenuto di epoca ruggeriana (Brenk, 1990), assai più probabilmente è da collocare in tarda età guglielmina (Tronzo, 1997, p. 70ss.), se non in anni ancora posteriori.Appartiene alla fabbrica della cattedrale, rinnovata dall'arcivescovo Gualtiero Offamilio, l'assai guasto mosaico con la Theotókos in trono con il Bambino seduto sulle ginocchia, nella nicchia a coronamento del portale del Gambara, sotto il portico meridionale (Andaloro, 1993, pp. 57-59), mentre è del tutto decontestualizzato il frammento musivo con la Vergine in atteggiamento di orante, proveniente dalla cattedrale e ora al Mus. Diocesano, per il quale non è da escludere, in base a ragioni di carattere stilistico, una provenienza dalla cattedrale pregualteriana (Andaloro, 1993, pp. 60-62).Assai scarse sono le testimonianze della pittura murale. Fra queste, appaiono di particolare interesse i resti superstiti sulle pareti della c.d. aula araba nel complesso di S. Giovanni degli Eremiti, dove il frammento figurativo meno rovinato restituisce le immagini di due santi ai lati di una mutila Theotókos in trono d'impianto monrealese, e l'affresco con l'Odighítria in trono, staccato dalla c.d. cripta della Cappella Palatina e collocato nel nartece della medesima cappella (I Normanni, 1994, pp. 255-262).La pittura su tavola superstite di epoca normanna gode di una situazione eccezionale e anomala. Infatti, comprende due categorie di opere, improntate, ciascuna, a un diverso linguaggio figurativo e predisposte a una differente funzione. Della prima classe fanno parte, innanzitutto, le pitture del soffitto nella navata centrale e nelle navatelle della Cappella Palatina. Esse costituiscono il complesso di dipinti di fattura e radice islamica più integro, vasto e articolato che sia pervenuto (Monneret de Villard, 1950), dal programma iconografico di non univoca interpretazione ma, comunque, di natura laica e regale; ne è indiscutibile la matrice figurativa puramente musulmana, benché non sia unanime la valutazione in merito alla sua particolare inflessione, se fatimide (Monneret de Villard, 1950) o iranica (D'Erme, 1995). Inoltre, sono da ricordare i residui di altri soffitti dipinti di fabbriche palermitane: della cattedrale gualteriana, delle chiese della SS. Trinità della Magione e di Santo Spirito (Lanza, 1941; Andaloro, 1993). Seppure fatiscenti (quelli della cattedrale) o frutto di massicci rifacimenti dopo gli eventi bellici (quelli della Trinità; Andaloro, 1993) sono tali da consentire di cogliere alcuni caratteri specifici: il perdurare del genere anche in tarda età normanna, seppure in forme assai meno complesse e secondo un repertorio di radice esclusivamente decorativa; l'adozione da parte di committenti come Matteo d'Aiello o l'arcivescovo Gualtiero di una politica dell'immagine sobria e assai meno invasiva rispetto ai modelli prediletti dai dinasti normanni, precedenti e coevi; e, soprattutto, la pertinenza del genere, secondo un piano di divisione dei generi che rimase invariato nel corso del sec. 12°, per cui l'esclusiva dei mosaici risulta essere pertinente alle maestranze bizantine e l'esclusiva dei soffitti dipinti alle maestranze islamiche (I Normanni, 1994, pp. 255-262).Nella seconda classe rientrano invece le opere dei maestri di cultura bizantina, cui si possono riportare i dipinti su tavola a soggetto religioso cristiano. Di questi prodotti è superstite un esemplare assai significativo, l'Odighítria, databile al 1171, proveniente dalla chiesa distrutta di S. Maria de Latinis, per la committenza di Matteo d'Aiello, conservata al Mus. Diocesano (Federico e la Sicilia, 1995, nr. 17, pp. 443-448). La lettura di documenti e inventari, come il Tabularium regiae ac imperialis capellae collegiatae, risalente al 1309, lascia intendere come gli edifici normanni dovessero essere ricchi di icone dipinte, in armonia con la tradizione liturgica bizantina, parzialmente bizantina o non insensibile all'impianto bizantino.Alle esigenze dettate dall'adozione della liturgia occidentale rispose l'attività dello scriptorium latino palermitano, la cui individuazione è frutto dei fondamentali studi di Buchthal (1955; 1956) e di Daneu Lattanzi (1954; 1955; 1964; 1966; 1976). A esso, certamente attivo per più di un trentennio, è stato ricondotto un esiguo numero di manoscritti - da prima del 1154 (Liber Cantus Chori; Madrid, Bibl. Nac., Vit. 20-4) a prima del 1189 (Evangeliario; Monreale, Bibl. De Torres, 8) -, il cui apparato decorativo è in genere alquanto parco, partecipe tuttavia di uno straordinario sincretismo culturale alla confluenza di imprestiti bizantini, sia diretti sia mediati attraverso gli scriptoria del regno latino di Gerusalemme (Buchthal, 1957), e di elementi di marca islamica (Daneu Lattanzi, 1955) e transalpina, segnatamente inglesi (Daneu Lattanzi, 1955, 1966; Pace, 1977). Il più noto dei codici, e fra i più significativi, è l'Expositio orationis dominicae (Parigi, BN, nouv.acq.lat. 1772), probabilmente l'esemplare originale e di lusso del commento al Padre Nostro scritto da Maione di Bari per il figlio Stefano, eseguito fra il 1154 e il 1160. Fra i più tardi è il Messale gallicano (Palermo, Arch. storico diocesano, 1), per il quale sono condivisibili i legami indicati con espressioni dell'ultima stagione figurativa normanna: dai mosaici di Monreale agli smalti della croce-stauroteca di Cosenza (Mus. Tesoro dell'Arcivescovado; Fobelli, 1993). Insieme con il profilo di uno scriptorium latino a P., è parimenti frutto di ricerche recenti l'attribuzione allo stretto entourage della corte, probabilmente quella di Guglielmo I o di Guglielmo II, della Cronaca di Giovanni Skilitze (Madrid, Bibl. Nac., Vit. 26-2; I Normanni, 1994, pp. 267-268).La produzione di manufatti tessili, ricami e oreficerie può orgogliosamente additare come atto di nascita il mantello in sciamito operato, ricami in oro e seta, perline, oro e smalto cloisonné, filigrana a vermicelli, di Ruggero II (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer), datato al 1133-1134 nell'iscrizione cufica ricamata in oro lungo l'orlo curvilineo. Nell'officina reale di P. in epoca normanna furono prodotti tessuti di straordinaria qualità e oreficerie, sulle cui caratteristiche informa l'Epistola ad Petrum Panormitane ecclesie thesaurarium di Ugo Falcando (sec. 12°). Fra i tessuti sono da ricordare i paramenti eseguiti per Ruggero II e per Guglielmo II (la c.d. tunicella blu, il cingulum, le calze, l'alba; Vienna, Kunsthistorisches Mus., Schatzkammer), usati successivamente per le cerimonie dell'incoronazione dell'imperatore del Sacro romano impero, nonché alcuni tessuti di provenienza sepolcrale, fra i quali la perduta veste regale di re Ruggero, che permette che sia a essa accostata la serie dei cinque frammenti che servirono da fodera per il mantello del 1133-1134 (I Normanni, 1994, pp. 288-290). Le grandi borchie che ornano il manto ai lati dell'allacciatura sono il primo felice esempio di quella categoria di smalti dalle caratteristiche tecniche, decorative, stilistiche peculiari di tanta produzione orafa palermitana, al pari di altri elementi, quali la filigrana a vermicelli e i cestelli d'oro per il fissaggio delle perle (I Normanni, 1994, pp. 273-277). Ne sono ulteriore testimonianza la fibula del c.d. ripostiglio di Montecassino (Roma, Mus. Naz. Romano, Medagliere), la finissima croce-stauroteca di Cosenza (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 109-114) e la coperta dell'Evangeliario di Alfano (Capua, Tesoro della Cattedrale).La scultura d'epoca normanna a P. comprende espressioni molteplici, in taluni casi di genere e tipologia rari; tra la serie di lapidi tombali di marmo, corredate da iscrizioni, il più delle volte plurilingue, la più nota è quella del 1149, eretta sulla tomba di Anna, madre del chierico Grisanto, nella chiesa di S. Michele de Indulciis (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia, attualmente esposta nel palazzo della Zisa). Una ricca epigrafe, redatta in latino, greco, arabo e giudeo-arabo, si dispone in quattro distinti settori intorno alla croce dai bracci uguali e patenti formata da tessere, in massima parte di porfido e verde antico (Rocco, 1994, pp. 146-150). Allo stesso gusto per la decorazione a mosaico, a opus sectile, per le superfici spezzate e ricomposte, si conformano classi di manufatti diversi: le stesure pavimentali, i rivestimenti marmorei parietali e gli elementi dell'arredo liturgico ben conservati nella Cappella Palatina (Tronzo, 1997) e altrove, come nella chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio. Sono ben note le porte di bronzo sul lato occidentale della Cappella Palatina, dalle eleganti cornici in foglie d'acanto e protomi leonine (Cadei, 1990, pp. 357-372; Tronzo, 1997, pp. 77-78). È, invece, quasi sconosciuta la porta, risalente certamente all'impianto ruggeriano, della cappella medesima, con pannelli in legno e borchie di bronzo, che si apre nel braccio meridionale del transetto (Tronzo, 1997, pp. 43-44).Il gusto per l'intaglio del legno, secondo predilezioni iconografiche e modi stilistici di pura tradizione islamica, emerge in un gruppo di manufatti, fra i quali si ricordano i pannelli di una porta nella chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio (Ćurčić, 1990, p. 40), il pannello isolato e i lunghi stipiti di casa Martorana, oggi conservati a palazzo Abatellis.Le tombe di porfido nella cattedrale di Cefalù giunsero nella cattedrale di P. per volere di Federico II nel 1215, a eccezione della tomba di Ruggero II, già in situ. Per quest'ultima, elementi quali il carattere non unitario delle lastre di porfido che ne formano l'urna, lo stile saldamente plastico delle cariatidi che la reggono e che coincide con l'inflessione del linguaggio mediterraneo a una data che ruota intorno agli anni ottanta, la somiglianza tipologica della cassa con il sarcofago dell'arcivescovo Gualtiero Offamilio (m. nel 1190) e le novità ideologiche sottintese suggeriscono una cronologia che non può essere agganciata all'anno di morte di Ruggero II (1154), ma intorno al 1187, in rapporto organico con il piano-cattedrale, ideato, promosso e realizzato dall'arcivescovo Gualtiero (Gandolfo, 1993, pp. 248-250). Attinse invece a un'altra tradizione, più concretamente locale, una linea scultorea che a P. annovera esempi come l'architrave del portale settentrionale di S. Maria dell'Ammiraglio (Ćurčić, 1990, p. 38) e il fusto del candelabro pasquale nella Cappella Palatina, ascrivibile all'avanzata età normanna (Tronzo, 1997, pp. 83-90).Con l'avvento della dinastia sveva, il segno di cambiamento più vistoso sul piano dei fatti figurativi è dato coglierlo nella caduta verticale del potere dell'immagine monumentale. Chiusero i cantieri musivi e gli artisti si avviarono verso un esodo che li vide impegnati fuori della Sicilia (I Normanni, 1994, pp. 255-262; Andaloro, 1995), a eccezione di alcune occasioni, come la mosaicatura dei baldacchini delle tombe di Ruggero e di Costanza d'Altavilla intorno al 1215 (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 33-43) o come i probabili interventi nella volta della c.d. sala di Ruggero nel palazzo Reale o nella sala della Fontana nel palazzo della Zisa (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 12-14).L'immagine pittorica non si eclissò completamente ma, seppure in modo diradato, comparve in contesti meno aulici e affollati, specie negli anni a cavallo fra 12° e 13° secolo. L'affresco staccato con la frammentaria Crocifissione nella chiesa della SS. Trinità della Magione (Paolini, 1979) può convenientemente aspirare a una datazione protosveva, intorno al 1197 (Federico e la Sicilia, 1995, p. 10); non diversamente possono essere datate le due rare tavolette d'iconostasi con la Risurrezione di Lazzaro, il Compianto sul Cristo morto e l'Anastasi provenienti dall'abbazia di S. Martino delle Scale e conservate alla Gall. Regionale della Sicilia (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 460-465). Si colloca nel corso dei primi decenni del Duecento la tavola con l'Odighítria - una tempera su pergamena - dalla chiesa di S. Nicolò all'Albergheria, oggi presso il Mus. Diocesano (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 449-452).È a P. che videro con ogni probabilità la luce, fra il 1195 e il 1197, il Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli (Berna, Bürgerbibl., 120 II) e le sue cinquantatré miniature, attraversate da una pluralità affascinante di mescolanze stilistiche, forti ricordi cassinesi, sedimenti tardoantichi e ottoniani (I Normanni, 1994, pp. 263-269; Federico e la Sicilia, 1995, p. 6). La possibilità di una produzione di codici miniati in Sicilia, e in particolare a P., in età federiciana e manfrediana è questione tuttora aperta. Indizi di ordine stilistico permettono di non escludere l'origine siciliana di un capolavoro come la Bibbia conservata a San Daniele del Friuli (Civ. Bibl. Guarneriana, 3), ma è soprattutto la presenza a P. di molti codici miniati, datati o databili in epoca tardosveva, a far propendere verso l'ipotesi di una loro produzione siciliana e palermitana - come per es. la Bibbia del 1285 ca., conservata nella Bibl. Centrale della Regione Siciliana (I.C. 13; Federico e la Sicilia, 1995, pp. 405-412), legata al gruppo ben noto delle Bibbie manfrediane - o, nel caso dei codici inglesi e francesi, ora presso la Bibl. Centrale della Regione Siciliana (I.F.6-7; I.D.13; I.E.4; I.E.5), di una loro presenza a P. in antico (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 415-439).Il frammento di seta a Hannover (Kestner-Mus.), grazie all'iscrizione speculare "Operatum in regio ergast(erio)" che lo accompagna e al motivo compositivo consistente in una rota, attesta l'operosità delle officine di corte agli inizi del Duecento e, insieme, il rinnovamento del repertorio nei riguardi della tradizione di età normanna, com'è attestato da una classe cospicua di tessuti che godono di una solida attribuzione in direzione palermitana. L'anno di morte di Enrico VI (1197) costituisce il terminus ante quem per i resti del suo corredo funerario (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 93-95), divisi fra P. (Mostra Permanente del Tesoro della cattedrale) e Londra (British Mus.), mentre la serie delle aquile smaltate, riutilizzate nel paliotto c.d. dell'arcivescovo Carandolet, ora nella Mostra Permanente del Tesoro della cattedrale, databili intorno alla metà del Duecento (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 127-130), si pone sul crinale ultimo dell'età federiciana. D'altra parte, il motivo a filigrana ricorrente nella corona di Costanza d'Aragona (ante 1222), conservata presso la Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale - oggetto di una recente approfondita rivisitazione -, e nei frammenti del manto di Costanza (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 59-74, 83-84), palesa il suo carattere specifico e di lunga durata nell'ambito delle officine palermitane. Diversamente, il perduto frammento di collare di Costanza fa intravedere uno scambio con esperienze orafe d'Oltralpe (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 87-89).Nella produzione delle cassette d'avorio, se continuano a perpetuarsi i motivi dipinti, cari al repertorio figurativo già in auge in età normanna, non manca, come nel caso del cofanetto eburneo nel tesoro della Cappella Palatina, l'irrompere di scene più complesse e sincretiche con cacce e figure sacre (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 170-173).Ai pochi anni corrispondenti alla dominazione angioina in Sicilia non sembra possa riferirsi l'esecuzione di alcuna opera, a eccezione, forse, della produzione di quella particolare classe di placche smaltate delle quali ben cinquantuno sono riutilizzate nel citato paliotto Carandolet (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 130-132).L'età aragonese vide rarefarsi ulteriormente la trama dei fatti figurativi, specie nella parte centrale del Trecento, e perdersi quella linea di riconoscibilità che è un elemento distintivo dell'età normanna e sveva. E, tuttavia, alcuni indizi portano a cogliere nella politica artistica promossa dalla dinastia la volontà di rendere visibili i collegamenti con la matrice sveva. Sono significativi al riguardo i restauri compiuti sulle stesure musive fra paretina occidentale e parete nord della navatella settentrionale nella Cappella Palatina. I restauri, documentati da iscrizioni datate 1345 e 1350 (Demus, 1949, p. 30), non sono più individuabili perché successivamente sostituiti, mentre sono ancora visibili gli stemmi aragonesi aggiunti nel mosaico della controfacciata.Alla fine del sec. 13° risale l'esecuzione, di fattura locale, dei sei medaglioni con smalti opachi e traslucidi, quattro dei quali sono utilizzati nel paliotto Carandolet (Federico e la Sicilia, 1995, pp. 132-133). Assai semplificata appare la plastica, sia nei rilievi raffiguranti l'Annunciazione, ai lati del busto di Cristo benedicente entro un clipeo sulla fronte del sarcofago di Federico d'Antiochia (cripta della cattedrale), sia in quelli più tardi sulla fronte del sarcofago di Guglielmo, duca di Atene, oggi conservato nella cappella delle tombe reali nella cattedrale.Nel corso del Trecento giunsero a P. opere di varia origine: l'intenso Crocifisso ligneo doloroso nella cattedrale (Andaloro, 1993); la piccola icona con la Vergine Haghiosorítissa stilisticamente afferente alla galassia della pittura attorno a Paolo Veneziano, oggi alla Mostra Permanente del Tesoro della Cattedrale; la Madonna dell'Umiltà di Bartolomeo Pellerano, del 1346, conservata alla Gall. Regionale della Sicilia; la tabella di Antonio Veneziano con il necrologio del 1388 per S. Niccolò Reale, ora al Mus. Diocesano, e S. Anna Metterza di Jacopo di Michele da Pisa, detto Gera, anch'esso al Mus. Diocesano (Bresc-Bautier, 1979, pp. 74-75). Ma l'episodio figurativo di gran lunga più complesso iconograficamente, gustoso e umorale stilisticamente è costituito dalla grande impresa del soffitto della sala Magna nel palazzo dello Steri, eseguita fra il 1377 e 1380 (Bologna, 1975), l'opera per eccellenza dell'autunno del Medioevo figurativo a P. insieme al molto più tardo Trionfo della Morte conservato nella Gall. Regionale della Sicilia.
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