Vedi Palestina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Che cosa comprenda esattamente la definizione di Palestina o Territori palestinesi sarà chiaro soltanto se e quando avrà termine il processo politico e diplomatico apertosi nel 1991 con la Conferenza di Madrid e proseguito con la Dichiarazione di principi di Washington del 1993.
I territori corrispondenti allo stato di Israele e ai Territori palestinesi facevano parte di diverse unità amministrative dell’Impero ottomano: il sangiaccato indipendente di Gerusalemme e i sangiaccati di Nablus e di Akka, che comprendevano anche parte dell’attuale Libano meridionale, ambedue divisioni amministrative del vilâyet di Beirut. L’attuale estremo sud di Israele faceva parte del sangiaccato di Maan, parte del vilâyet di Damasco. La leadership palestinese e tutti i paesi arabi rigettarono la risoluzione n.181 delle Nazioni Unite del 1947 che prevedeva l’istituzione di uno stato ebraico, uno stato arabo e un territorio internazionalizzato sulla Palestina mandataria. La situazione che emerse dalla Prima guerra arabo-israeliana (1948-49, soprannominata Naqba, ‘catastrofe’, dagli arabi) sancì il fallimento della creazione di uno stato palestinese e stabilì il controllo dei territori palestinesi residui da parte di Egitto (Striscia di Gaza) e della Transgiordania (Cisgiordania o Riva occidentale, West Bank in inglese, al-Diffa al-Gharbiyya in arabo). La Cisgiordania fu poi annessa alla Transgiordania nel 1951 dal re Abdullah I, che creò così il regno di Giordania. Tale situazione – con l’intermezzo della Seconda guerra arabo-israeliana del 1956 per quanto riguarda la Striscia di Gaza – ha caratterizzato un periodo di circa venti anni, fino alla cosiddetta Guerra dei sei giorni (1967). Dal 1967 Israele ha controllato per un lungo periodo tutti i territori arabo-palestinesi.
Con gli accordi tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – dalla Dichiarazione di principi del 1993 agli Accordi di Hebron del 1997 – la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state divise in tre zone: la zona A sotto totale controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che è responsabile sia per la sicurezza, sia per l’amministrazione; la zona B è sotto amministrazione palestinese e controllo israeliano dal punto di vista della sicurezza; infine, la zona C posta sotto totale controllo israeliano. Questa situazione è mutata con la rioccupazione quasi completa della Cisgiordania da parte delle forze armate israeliane nel 2003, azione che il governo di Israele ha giustificato appellandosi alla ‘necessità’ di porre un freno a un’ondata di attentati terroristi suicidi da parte dei palestinesi. La situazione è stata ulteriormente complicata dall’abbandono unilaterale di Gaza da parte israeliana e dalla costruzione del muro, ossia un sistema di sorveglianza e sbarramento a molti strati che spesso va oltre la cosiddetta ‘Linea verde’, vale a dire la linea del cessate il fuoco, stabilita nel 1949.
Lo ‘stato in formazione’ costituito dall’Autorità nazionale palestinese (Anp, in arabo al-Sulta al-Wataniyya al-Filastiniyya) ha una struttura semipresidenziale: il presidente è eletto direttamente dal popolo, mentre il potere legislativo è esercitato dal Consiglio legislativo che dà anche la fiducia al primo ministro nominato dal presidente. Il sistema elettorale per il Consiglio legislativo è variato nel tempo: totalmente maggioritario a turno unico (un seggio per collegio) nelle prime elezioni, nel 2006 è stato modificato in senso misto – una metà dei seggi con il maggioritario, l’altra con il proporzionale (unica lista nazionale).
Le due principali forze politiche palestinesi sono Fatah, il partito del presidente palestinese, Mahmoud Abbas, che controlla la Cisgiordania, e Hamas, il gruppo islamico che ha vinto le elezioni parlamentari del 2006 e quindi esercita il controllo sulla Striscia di Gaza dal giugno 2007, dopo la cosiddetta ‘battaglia di Gaza’ contro Fatah. I leader delle due formazioni hanno firmato nel maggio del 2011 e del 2012 un accordo – poi fallito – di riconciliazione che includeva la creazione di un governo ad interim di unità nazionale, responsabile per le prossime elezioni dell’assemblea legislativa dell’Anp, e la discussione sulla rappresentanza di Hamas nel Consiglio nazionale palestinese. Alla completa riconciliazione Fatah-Hamas si contrappongono tuttavia ancora diversi ostacoli. Nell’aprile 2013, il primo ministro Salam Fayyad, da sempre fortemente osteggiato da Hamas ma rispettato a livello internazionale, si è dimesso, apparentemente per questioni fiscali, ed è stato sostituito da Rami Hamdallah. Il reset nelle relazioni ha conosciuto un nuovo momento importante nell’aprile 2014 quando, dopo settimane di intensi dialoghi segreti a Gaza, Hamas e Fatah hanno trovato un accordo per l’istituzione di un governo di unità nazionale, poi ufficialmente insediatosi il 2 giugno. Un’intesa che ha rischiato di naufragare immediatamente a seguito dell’ultima guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas del luglio-agosto 2014, che ha provocato oltre 2200 morti da ambo le parti (una settantina circa gli israeliani uccisi) e 100.000 sfollati interni nella piccola lingua di terra incastonata tra Egitto e Israele. L’esperimento è però entrato in crisi circa un anno più tardi, quando nel giugno 2015 il primo ministro Hamdallah ha rassegnato le dimissioni su pressione di Abu Mazen. La decisione di parte di Fatah di far venire meno l´appoggio al governo di unità nazionale è stata motivata in primo luogo dall’impossibilità di rendere l’esecutivo operativo all’interno della Striscia di Gaza. Continui dissidi circa l’inclusione dei dipendenti del governo di Hamas a Gaza all’interno dell’Autorità palestinese, sui fondi per la ricostruzione della Striscia e, infine, sulle trattative parallele fra Hamas e Israele per un cessate il fuoco hanno portato alla decisione unilaterale di Fatah di ritirare il supporto per il governo di unità nazionale. I dissidi interni hanno portato al continuo rinvio delle elezioni che, al 2016, non si sono ancora tenute. Nel frattempo la Cisgiordania e Gerusalemme hanno visto un drammatico aumento della tensione a causa delle restrizioni unilaterali applicate dalle autorità israeliane per l’accesso alla Spianata delle Moschee in seguito a un accordo tra Israele e Giordania (ufficialmente custode dei luoghi santi musulmani della città) che ha escluso i rappresentanti palestinesi, i quali hanno accusato Israele di voler escludere gli arabi dai luoghi santi di Gerusalemme. Dal settembre 2015 le tensioni sono sfociate in una nuova ondata di violenza, con la partecipazione di numerosi giovanissimi palestinesi armati di coltello in attacchi contro civili israeliani, in quella che è stata denominata ‘Intifada dei Coltelli’. Alla fine di ottobre la violenza è rientrata anche grazie al mancato appoggio delle principali organizzazioni politiche palestinesi a una escalation che avrebbe potuto portare a una vera Terza Intifada. Il 29 novembre 2012, la Palestina è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come ‘stato non membro osservatore’ delle Un, passo simbolico molto importante per il riconoscimento dell’esistenza di uno stato palestinese all’interno della soluzione ‘due popoli, due stati’, promossa dalle Nazioni Unite sin dal 1948.
La situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi è a dir poco preoccupante. Alle violazioni compiute dalle forze di occupazione israeliane (detenzioni amministrative, espropri arbitrari, demolizioni di case, casi di tortura, ampliamento delle colonie ebraiche a Gerusalemme Est e in Cisgiordania), si aggiungono quelle perpetrate dagli uomini della sicurezza palestinesi: arresti arbitrari, violazioni della libertà di espressione, tortura, eliminazione di palestinesi accusati di collaborazionismo, e, infine, applicazione della pena di morte. Una situazione di confusione generale che ha favorito nuovamente l’insorgere di scontri a Gerusalemme Est – finora di bassa intensità – tra israeliani e palestinesi.
Conseguenza della sconfitta araba del 1948 è stato l’emergere del problema dei profughi palestinesi, che si concentrarono nei campi di Gaza, della Cisgiordania, della Transgiordania (ora Giordania), del Libano e della Siria. I profughi erano poco più di 750.000 negli anni Cinquanta. Secondo le stime più recenti di Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sostenere i profughi palestinesi), questi sono almeno cinque milioni (anche se la maggior parte non vive più nei campi).
Allo stadio attuale il paese che ospita il maggior numero di persone di origine palestinese è la Giordania; seguono Cisgiordania e Gaza, Israele, Libano e Siria. Dal punto di vista giuridico, sono considerati rifugiati i palestinesi della Giordania, del Libano, della Siria e degli altri paesi arabi e, solo una parte, quelli della Cisgiordania e di Gaza. Una parte di questi ultimi e degli arabi israeliani non sono inseriti in questa classificazione, rendendo difficile una definizione di società palestinese. Quel che si è configurato negli anni è invece una pluralità di società o di spezzoni di essa, costituiti dai palestinesi e/o dai profughi. Ancora oggi, inoltre, continua a essere rilevante il numero di emigranti verso paesi più lontani, costretti dalle difficili condizioni di vita.
La situazione dei profughi è particolarmente dura in Libano, dove ogni forma di integrazione è stata resa impossibile dalla divisione del potere lungo linee comunitarie. Soprattutto per ciò che concerne la Striscia di Gaza, inoltre, l’alta densità abitativa determina una situazione ancora più grave per l’amministrazione dei Territori.
Dal punto di vista della religione i palestinesi di Cisgiordania e di Gaza sono in gran parte musulmani sunniti (97%) e per il resto cristiani. Sono presenti varie confessioni cristiane, in maggioranza greco-ortodossi, cui seguono il rito cattolico, siriaco e armeno. I drusi sono pressoché assenti poiché demograficamente concentrati nei territori israeliani.
Dal punto di vista economico i Territori palestinesi sono dipendenti da Israele, oltre che dagli aiuti provenienti dall’estero (più di 2 miliardi di dollari nel 2013, circa l’11% del pil nazionale), in particolare da Europa e Usa.
I divieti imposti da Israele influiscono inevitabilmente sulle condizioni economiche dei Territori palestinesi. Secondo l’Unctad, l’organismo delle Nazioni Unite posto a controllo del commercio, l’Anp perde ogni anno oltre 300 milioni di dollari di potenziale gettito fiscale a causa delle importazioni non tassate che passano per Israele.
Nella Striscia di Gaza, in particolare, dopo la presa di potere da parte di Hamas nel 2007, Tel Aviv ha di fatto chiuso i valichi di accesso al territorio palestinese, causando gravi danni all’economia e la chiusura di molte attività industriali e commerciali. Tutto ciò ha fatto impennare il tasso di disoccupazione alimentando al contempo un’economia parallela e illegale che passa attraverso i tunnel sotterranei tra il nord Sinai egiziano e Rafah. Sebbene le forze di sicurezza egiziane abbiano distrutto circa l’80% dei 1500 tunnel – utilizzati anche per il contrabbando di armi – le autorità del Cairo non sono ancora riuscite a interrompere questo flusso clandestino da e verso Gaza.
Allo stesso tempo, l’economia della West Bank non versa in condizioni economiche migliori. La Cisgiordania ha risentito della costruzione del muro che la separa da Israele, come misura cautelare contro il proliferare di attentati suicidi all’interno del territorio israeliano. Ciò limita i movimenti tra i Territori e Israele e gli ingressi dei palestinesi in territorio israeliano per motivi di lavoro. Prima della costruzione del muro che separa Israele dalla Cisgiordania, molti palestinesi avevano permessi speciali per oltrepassare quotidianamente il confine mentre attualmente si registrano maggiori restrizioni.
Sotto il profilo macroeconomico, i Territori hanno visto negli anni Novanta del secolo scorso una certa crescita, che però è coincisa, negli anni della seconda Intifada, con un crollo del pil pro capite, che solo dal 2005 ha iniziato a crescere di nuovo, superando i 10.000 dollari nel 2012. L’economia palestinese è dominata dai servizi (anche il turismo, soprattutto in alcune città come Betlemme, è un’importante fonte di introiti, anche se dipendente dalle condizioni di sicurezza), mentre l’industria rimane sottosviluppata. Il settore agricolo soffre della difficoltà di approvvigionamento idrico e degli ostacoli alle esportazioni, dovute alla chiusura dei valichi, particolarmente rilevanti per quanto riguarda la Striscia di Gaza. L’approvvigionamento idrico, in particolare, rimane uno dei problemi più gravi della popolazione palestinese e una delle cause che mantiene vivo il conflitto con Israele.
L’Anp segue le politiche economiche delineate nel ‘Piano di riforma e di sviluppo palestinese’ (inizialmente pensato come piano fiscale di durata triennale), elaborato per una conferenza tra i donatori della Palestina tenutasi a Parigi nel 2008. Il tentativo è di consolidare le finanze, aumentare la pressione fiscale e limitare la spesa pubblica, per ridurre la dipendenza dagli aiuti e per stimolare la crescita, attraverso investimenti nel settore privato. Ciononostante le autorità locali non sono state in grado di recepire tali indicazioni e anziché tagliare la spesa pubblica sono riuscite invece a moltiplicarla fino a dover pagare, tra Gaza e West Bank, circa 140.000 lavoratori del pubblico impiego. A Gaza, invece, le politiche economiche dell’amministrazione di Hamas, vincolate dall’embargo e da sanzioni bancarie, si concentrano soprattutto sulla promozione dell’autonomia economica e sull’ottimizzazione della distribuzione delle risorse ammesse da Israele ed Egitto. Tuttavia, anche durante il periodo in cui la Fratellanza musulmana (vicina a Hamas) era al potere in Egitto, le autorità di Gaza hanno continuato a subire gravi vincoli finanziari e logistici. Una situazione che è venuta definitivamente meno con il governo del presidente egiziano al-Sisi, in carica dal giugno 2014, il quale ha messo da parte ogni vincolo solidaristico esistente con le fazioni islamiste locali attuando invece una politica restrittiva nei confronti delle autorità della Striscia.
La valutazione delle forze di sicurezza palestinesi è particolarmente difficile. Rispetto alla situazione complicata che ha fatto seguito all’istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, caratterizzata da una molteplicità di milizie e di comandi, oggi il quadro delle forze di sicurezza sembra essersi relativamente semplificato, grazie all’istituzione di un centro di potere a Gaza e uno a Ramallah, in Cisgiordania. In seguito alle elezioni del 2006 e alla vittoria di Hamas, nel 2007 è scoppiata una breve guerra civile che ha visto prevalere Hamas nella Striscia di Gaza e l’Olp (sostanzialmente Fatah e gruppi a essa vicini) in Cisgiordania. Da allora si ha una situazione di divisione dei Territori palestinesi, che si ripercuote sulla sicurezza dei Territori stessi.
La vittoria in Egitto della Fratellanza musulmana nel 2012, organizzazione da cui proviene Hamas, aveva portato a un progressivo rafforzamento di quest’ultima sul piano politico, a discapito dell’Anp del presidente Abu Mazen. Tuttavia, da quando Mohammed Mursi è stato deposto dai militari nel luglio 2013, c’è stata un’indicativa intensificazione dei controlli lungo il valico di frontiera tra l’Egitto e Gaza, finalizzata anche a ridurre il contrabbando di armi. Proprio da questi tunnel via Sudan arrivavano forniture continue di armamenti di fabbricazione iraniana, utilizzati da Hamas nel corso degli ultimi conflitti per attaccare lo stato ebraico. Questa ha dimostrato dunque di avere capacità belliche maggiori rispetto al passato e di poter impiegare razzi in grado di raggiungere Gerusalemme e Tel Aviv.
Dopo la tregua con Israele del 2012 e la perdita del prezioso alleato egiziano nel 2013, per evitare di rimanere isolata nella regione Hamas ha parzialmente rivisto il suo schema di alleanze all’interno del quadro mediorientale, passando dal campo sciita composto da Iran, Hezbollah e dalla Siria di Assad, all’‘asse sunnita’ e legandosi soprattutto a Turchia e Qatar, al momento gli unici sponsor politici ed economici di Hamas. Soprattutto le relazioni tra Gaza e Qatar hanno conosciuto un miglioramento netto in virtù sia della visita dell’ottobre 2012 dell’allora emiro Abdullah al-Thani nella Striscia, sia con la protezione politica – la sede dell’ufficio politico in esilio di Hamas è stata spostata da Damasco a Doha – ed economica della fazione islamista (gli al-Thani, tra le altre cose, sono stati il maggior donatore internazionale per la ricostruzione post-guerra a Gaza del luglio-agosto 2014 offrendo oltre un miliardo di dollari). Per quanto riguarda il governo dell’Anp, i tentativi di dialogo con il governo israeliano, per lungo tempo in stallo, sono ripresi nel luglio 2013, grazie anche all’intervento del segretario di stato americano John Kerry; ma abbandonati in pochi mesi a causa della crisi di Gaza e dell’aumento del peso politico dei partito di destra contrari alle trattative in seguito alle elezioni politiche israeliane nel giugno 2015. Allo stato attuale è improbabile che si arrivi nel breve e medio termine a una soluzione sulla formula ‘due popoli, due stati’ che è alla base del processo diplomatico avviato a Madrid.
Una delle questioni da risolvere per la costituzione statuale palestinese è relativa all’efficienza delle forze locali nel controllare i territori, dal momento che l’instabilità diffusa crea problemi anche di sicurezza interna, che l’Anp fronteggia a fatica. Tali difficoltà sono emerse nuovamente durante l’esplosione di violenza iniziata nell’ottobre 2015 durante la quale alcuni giovani palestinesi, quasi tutti sotto i vent’anni, hanno preso parte ad attacchi improvvisi contro civili israeliani.
La separazione territoriale che divide Gaza dalla Cisgiordania si è riflessa nel tempo anche nel loro sviluppo storico e culturale. Da sempre più vicina all´Egitto per cultura e dialetto (mentre in Cisgiordania si parla tradizionalmente un dialetto di tipo levantino), la Striscia di Gaza è rimasta sotto il controllo diretto del Cairo dall’armistizio del 1949 fino alla Guerra dei sei giorni del 1967. Da quel momento è entrata a far parte dei cosiddetti ‘Territori occupati dallo stato di Israele’, il quale ha iniziato a costruirvi insediamenti ebraici che, al momento della loro massima espansione, contavano circa 10.000 abitanti. Secondo il processo di Oslo lanciato dopo la fine della Guerra fredda, Gaza sarebbe dovuta diventare parte del futuro stato palestinese insieme alla Cisgiordania. Nel 1994 gli israeliani cominciarono a ritirarsi progressivamente dalla Striscia, lasciandone il controllo alla provvisoria Autorità nazionale palestinese (Anp). Il ritiro israeliano si è concluso nel 2005 con lo sgombero unilaterale degli insediamenti, il primo di queste dimensioni da parte delle autorità israeliane. Da quel momento il territorio della Striscia di Gaza è passato sotto il controllo dell’Anp, anche se Israele continua a esercitare la propria autorità su aspetti fondamentali come la gestione dell’anagrafe e dello spazio aereo, delle acque territoriali e dei confini. Il controllo del’Anp sulla Striscia è durato però solo due anni. Nel 2006 le elezioni politiche vedono a sorpresa la vittoria di misura di Hamas che ha in Gaza la sua roccaforte principale. L’impossibilità di raggiungere un accordo con Fatah sulla formazione del governo porta a scontri armati tra le due formazioni che culminano nel giugno 2007 con la presa di Gaza da parte dei militanti di Hamas e l’uccisione o l’espulsione di tutti i sostenitori di Fatah dalla Striscia. Da quel momento Gaza diventa un territorio indipendente dall’Anp sotto il controllo di Hamas. La reazione israeliana al colpo di mano non si fa attendere. Israele inizia il blocco dei confini della Striscia impedendo l’entrata e l’uscita di persone e merci con la collaborazione dell´Egitto sul confine meridionale. Contestualmente iniziano le operazioni militari di Hamas contro Israele, soprattutto con il lancio di razzi contro il territorio israeliano. Tale situazione si è prolungata senza sostanziali variazioni fino a oggi, intervallata solo da operazioni militari israeliane contro la Striscia nel 2008, 2009, 2011, 2012 e 2014, di solito in risposta all’intensificarsi del lancio di razzi da parte dei militanti di Hamas contro i centri abitati israeliani. Tali operazioni, in particolare l’operazione ‘Protective Edge’ del 2014, hanno causato gravi danni alle infrastrutture e alle abitazioni della Striscia. La ricostruzione è stata inoltre rallentata significativamente dal blocco all’entrata di materiali da costruzione e macchinari che secondo le autorità israeliane potrebbero essere utilizzati per la costruzione di armamenti o tunnel militari. La mancanza di materie prime per le industrie e la drammatica mancanza di abitazioni hanno portato a una grave crisi economica e umanitaria all’interno della Striscia. Secondo le organizzazioni internazionali operanti sul luogo circa l’80% degli abitanti di Gaza sopravvive grazie agli aiuti internazionali mentre il tasso di disoccupazione si attesta al 43% (63% per i giovani). Nel settembre 2014 le Nazioni Unite hanno costituito, d’intesa con il governo israeliano e quello palestinese, il ‘Gaza Reconstruction Mechanism’, un piano di 5,4 miliardi di dollari volto a permettere la ricostruzione delle abitazioni e delle infrastrutture produttive andate perdute durante le operazioni militari degli ultimi anni. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite la sua applicazione procede però a rilento. Con l’attuale quantità giornaliera di materiali a cui Israele permette attualmente l’accesso ci vorranno 19 anni per riparare solo ai danni dell’operazione ‘Protective Edge’ e 76 per riuscire a costruire una casa per tutti gli abitanti di Gaza che ne sono privi.
Approfondimento
Si deve rispetto al presidente palestinese Abbas per il suo ruolo negli Accordi di Oslo, per il suo rifiuto di ogni forma di violenza e di ricorso alle armi, per la sua coerente scelta di negoziare con Israele, sulla base della strategia “due Stati per due popoli”, per essere arrivato alla creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, i recenti sondaggi dimostrano un crollo della sua popolarità, ridotta al 38% e con il 65% che ne richiede le dimissioni.
La ragione è semplice: alla scelta negoziale di Abbas non ha corrisposto un’adeguata volontà israeliana di fare concessioni e di raggiungere un accordo, e la stessa capacità negoziale del presidente palestinese è stata ingabbiata da troppe resistenze interne e internazionali. Ciò ha provocato il fallimento dell’iniziativa di pace del Segretario di Stato Usa John Kerry, nell’aprile 2014, il blocco del processo di pace, la rinuncia a risolvere il conflitto, limitandosi a cercare di gestirlo. La leadership palestinese ha cercato di reagire a questo stallo, tentando la via del riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, attraverso l’Un e le sue istituzioni (ultima la Corte penale internazionale dell’Aia), e ha ottenuto alcuni successi, quali il riconoscimento da parte dell’Assemblea Generale dell’Un, nel novembre 2012, dello Stato palestinese come “Osservatore permanente, in qualità di Stato non membro”, con una schiacciante maggioranza. Ma per un voto non è riuscita, nel dicembre 2014, a raggiungere il quorum di 9 su 15 votanti necessario per far approvare dal Consiglio di Sicurezza la bozza di risoluzione che prevedeva il riconoscimento della sovranità dello Stato di Palestina e il ritiro israeliano dalla Cisgiordania entro il 2017.
La leadership dell’Olp quindi non riesce a portare avanti la sua strategia negoziale, a procedere su quella del riconoscimento internazionale e non ha una strategia alternativa da proporre. Ciò crea una crisi di credibilità e di fiducia e un distacco crescente dall’opinione pubblica palestinese. In questo contesto si è sviluppato il fenomeno dei lupi solitari, individui o gruppi isolati che attaccano i civili ebrei, armati di coltello o scagliandosi loro addosso con le auto, provocando un alto numero di vittime e di feriti. Un fenomeno che i servizi di sicurezza israeliana trovano estreme difficoltà a controllare. Un fenomeno certamente da condannare, come ogni atto di terrorismo rivolto contro la popolazione civile. È tuttavia evidente che la scelta del premier israeliano Netanyahu di gestire il conflitto invece che provare a risolverlo mostra tutti i suoi limiti e la sua pericolosità.
L’impasse in cui si trova Abbas è aggravato da due fattori: la persistente frattura con Hamas, con la conseguente divisione tra Cisgiordania e Gaza, e la sempre più grave crisi all’interno della Autorità Nazionale Palestinese e di al-Fatah. Dopo il colpo militare del 2007 di Hamas a Gaza, che ha inferto un colpo durissimo alla credibilità della rivendicazione nazionale palestinese, numerosi sono stati i tentativi di ricreare una unità interpalestinese, a partire dall’Accordo della Mecca del 2007, patrocinato dall’Arabia Saudita, all’ultimo, raggiunto a Gaza nell’aprile 2014, che prevedeva nuove elezioni parlamentari e presidenziali, e la riunificazione con Gaza, e anche l’elezione di un nuovo Consiglio Nazionale dell’Olp, con l’ingresso nell’organizzazione di Hamas e del Jihad islamico. Si giungeva così nel giugno successivo alla formazione di un nuovo governo tecnocratico ad interim, guidato dal premier uscente Rami Hamdallah. Ma la realtà è che questo governo e questo accordo non hanno mai funzionato veramente, perché nessuna delle due parti vi è realmente interessata: Fatah non vuole rischiare di perdere le elezioni, di rinunciare al controllo dell’enorme flusso di aiuti internazionali che ancora arrivano in Palestina, e soprattutto al controllo dell’Olp, aprendola alle due organizzazioni islamiche. Hamas dal canto suo non vuole rinunciare al controllo di Gaza, in cambio di future elezioni che non si sa se si potranno tenere e il cui esito potrebbe ancora una volta non essere rispettato, come accadde nel 2006 dopo la vittoria di Hamas. I continui annunci di accordi interpalestinesi sembrano diretti più a soddisfare le rispettive opinioni pubbliche, sempre più disorientate e confuse, che a corrispondere alla reale volontà delle parti.
A ciò si aggiunge il sempre più aspro scontro dentro al-Fatah, dove un numero sempre maggiore di esponenti contesta l’autoritarismo del presidente Abbas, denuncia la corruzione e chiede la sua sostituzione, con la nomina di nuovi dirigenti alla testa dell’Olp e della stessa Autorità palestinese. Una delle accuse ricorrenti è la continuazione della collaborazione con le autorità israeliane in materia di sicurezza, che malgrado tutto procede a pieno ritmo e senza crisi. Ma la realtà è che quella collaborazione serve anche Abbas per fronteggiare i tentativi di Hamas di prendere il potere anche in Cisgiordania.
Completano il quadro le defenestrazioni di personalità come Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell’Olp e Jamal Zakout, leader storico della prima intifada; l’espulsione da al-Fatah di Sufian Abu Zaida, storico leader di Gaza; le critiche di altri leader storici, come Jibril Rajoub, vice segretario del Comitato Centrale di al-Fatah ed ex capo dei servizi di sicurezza in Cisgiordania, nonché dell’ex primo ministro riformatore Salam Fayyad. Su tutti si staglia l’ombra di Mahammed Dahlan, già capo della sicurezza a Gaza fino al colpo di Hamas, che può contare sull’appoggio degli Emirati e, a quanto pare, dello stesso presidente egiziano Al-Sisi. La vecchia leadership dell’OLP è ormai logora, ma non si intravede chi possa incarnare il possibile ricambio e quali potrebbero essere le sue future scelte.
di Janiki Cingoli