Palestina
Regione del Vicino Oriente limitata a O dal Mar Mediterraneo e a N dai contrafforti meridionali del Libano e dell’Antilibano, mentre incerti sono i confini dagli altri lati, nei quali si trapassa insensibilmente nelle zone aridissime del deserto siriaco a E e del Sinai a S. Difficilmente definibile come regione naturale, essa è piuttosto una regione storico-antropica, e come tale ha subito variazioni di ampiezza nel corso del tempo a causa delle alterne fasi di avanzata e di regresso dell’insediamento lungo i margini desertici e delle complesse vicende politiche del territorio.
Nel 3° millennio erano già presenti in P. stirpi semitiche. Quando e come vi giunsero non è noto; probabilmente fu un’occupazione pacifica, attuata più con l’infiltrazione che con la conquista violenta, analogamente a quanto avvenne nel millennio successivo con un’altra gente semitica, quella degli Amoriti, che si stanziarono nella parte settentrionale del Paese. Nel 2° millennio la P. fu sotto la giurisdizione dei faraoni d’Egitto, che la governarono per mezzo di luogotenenti locali, come prova la corrispondenza diplomatica di Tell el-Amarna (14° sec. a.C.). Dall’invasione dei «popoli del mare» ebbe origine nel 12° sec. a.C. l’insediamento dei filistei nella zona costiera meridionale.
Secondo la tradizione, gli israeliti, guidati da Giosuè e provenienti dall’Egitto, giunsero in P. verso il 13° sec. a.C. e a poco a poco conquistarono il Paese dividendolo tra le 12 tribù. Così divisi, e riuniti solo occasionalmente sotto il comando di giudici (restarono famosi Debora, Gedeone e Sansone), combatterono a lungo contro i vicini cananei e filistei. La critica storica affianca a questa visione tradizionale dell’antica storia israelitica la prospettiva di un’infiltrazione progressiva e pacifica, culminata nella costituzione di una confederazione di tribù attorno al comune santuario di Silo. L’instaurazione con Saul della monarchia (intorno al 1000), consolidata con David, diede agli ebrei la forza necessaria per imporsi definitivamente: l’ultima roccaforte cananea, Gerusalemme, fu conquistata da David e fatta capitale del nuovo Stato. Salomone, raccogliendo il frutto dell’abile politica paterna, poté dedicarsi a opere grandiose quali la costruzione del tempio e del palazzo reale a Gerusalemme; alla sua morte il regno si scisse in due: il regno di Giuda, meridionale, con capitale Gerusalemme, formato dalle tribù di Giuda e Beniamino; il regno d’Israele, settentrionale, formato dalle altre tribù, con capitale Samaria. I due Stati condussero vita autonoma per secoli, partecipando al gioco politico della Siria, alleandosi ora all’uno ora all’altro degli Stati aramaici (Soba, Damasco, Hamah) o fenici (Tiro), spesso rivali fra loro. Il regno d’Israele, travagliato da congiure dinastiche, nonostante la sua maggiore forza militare, a causa della sua posizione geografica cadde per primo sotto i colpi dell’impero assiro in espansione (722 a.C.). Nel 586 fu la volta del regno di Giuda, travolto dai babilonesi succeduti agli assiri: Nabucodonosor II conquistò Gerusalemme, la rase al suolo e ne deportò parte della popolazione in Babilonia. Con l’esilio ebbe termine l’antica storia autonoma della Palestina. Tuttavia continuò a vivere in essa una popolazione ebraica: a settentrione vi erano i samaritani, popolazione mista di israeliti rimasti nel Paese dopo la deportazione assira e di altre genti importate dagli assiri; a sud, dopo la conquista dell’impero babilonese da parte di Ciro (538 a.C.), che consentì il ritorno in P. ai discendenti degli esuli del 586, la comunità ebraica fu riorganizzata in forme più rigide e si affermò il clero di Gerusalemme.
La vita della P. nelle epoche di Alessandro Magno, dei Diadochi e dei Tolomei è poco nota; la comunità israelitica, tutta raccolta intorno a Gerusalemme, si dedicò a una sistemazione della tradizione religiosa e a un approfondimento dei suoi valori spirituali. Con la battaglia di Panion (ca. 200 a.C.) la P. passò sotto il dominio dei Seleucidi, che, contrariamente alla politica di non intervento nelle questioni interne attuata dai Tolomei, vollero introdurre la cultura ellenistica, provocando la ribellione armata dei Maccabei contro Antioco IV Epifane, seguita dal riconoscimento della libertà religiosa per gli israeliti (168-135 a.C.). Più tardi alcuni discendenti dei Maccabei, gli Asmonei, crearono una dinastia regia che riconosceva solo nominalmente la sovranità dei Seleucidi, fortificarono il Paese e lo aprirono all’influenza ellenistica, che divenne massima con Erode il Grande (74-73 a.C.). Erode diffuse in P. la civiltà romana, costruì la città di Cesarea e riedificò Samaria, che chiamò Sebaste in onore di Augusto; anche Gerusalemme acquistò una nuova fisionomia con il teatro, il palazzo e il nuovo tempio, di gusto romano. Il processo di romanizzazione, continuato dai figli di Erode, si sviluppò ulteriormente con il passaggio della P. direttamente sotto il dominio romano. La ribellione del 66 d.C., seguita dalla distruzione di Gerusalemme (70) e dalla deportazione dei giudei, annullò ogni parvenza di indipendenza, e la P. divenne provincia romana, con il nome di Iudaea. Nel 132 una nuova ribellione, capeggiata da Bar Kokebah e protrattasi fino al 135, rese ancora più radicale la trasformazione del Paese: il nome fu soppresso e la P. si chiamò Syria Palaestina e Gerusalemme Aelia Capitolina. Nel 4° sec. d.C., con l’adesione di Costantino al cristianesimo, la P. conobbe una rivalorizzazione spirituale, come culla di quella religione, e divenne meta di pellegrinaggi: vi furono innalzate basiliche e monasteri; né le attività cristiane vennero meno dopo l’effimero tentativo di Giuliano l’Apostata di ricostruire il tempio giudaico. Diviso in due l’impero romano, la P. passò sotto la sovranità di Costantinopoli e per alcuni secoli conobbe grande prosperità, mentre si andava sviluppando il monachesimo. Nel 614, i persiani di Cosroe II devastarono la regione e la città di Gerusalemme, ma nel 628-629 furono respinti dall’imperatore Eraclio. Seguì la conquista araba: nel 637 il califfo ‛Omar entrò in Gerusalemme mettendo fine al dominio bizantino.
Gli arabi divisero la P. in due province militari: Filastin (Giudea e Samaria) e al-Urdunn (il Giordano); Gerusalemme, considerata sacra anche dai musulmani, dipendeva direttamente dal califfo. Sotto il dominio arabo (fino al 10° sec.) la P. godette di prosperità; le diverse dinastie di califfi (Omayyadi, Abbasidi) si mostrarono tolleranti verso ebrei e cristiani e continuarono i pellegrinaggi ai Luoghi santi; furono restaurati i santuari e Gerusalemme si arricchì di monumenti. Risale a questo periodo l’arabizzazione della P., specialmente dopo il saccheggio della Mecca da parte dei Carmati (929); numerose furono però anche le conversioni di cristiani e giudei all’islam. Nel 10° sec. cominciò per la P. un lungo periodo di guerre e di sconvolgimenti: furono dapprima i Fatimidi che, installatisi nell’Africa settentrionale e in Egitto, mossero alla sua conquista: dal 969 il Paese rimase sotto il loro dominio, nonostante l’intervento dell’imperatore Giovanni Zimisce (975). I Fatimidi furono nel complesso tolleranti verso i cristiani; solo il califfo al-Hakim mise in atto una feroce persecuzione che portò alla distruzione della chiesa del S. Sepolcro a Gerusalemme (1009). Molto intolleranti furono invece i turchi Selgiuchidi, che nel 1076 s’impadronirono stabilmente del Paese. Le violenze da essi perpetrate provocarono grande sdegno in Europa e furono non ultima causa delle crociate, che ebbero la P. come principale terreno d’azione. In seguito alla conclusione vittoriosa della prima crociata (1099: conquista di Gerusalemme), si costituì il regno latino di Gerusalemme che ripropose in P. gli schemi occidentali dell’organizzazione feudale. Nel 1174 il Saladino si proclamò sultano indipendente di Egitto e dichiarò la guerra santa ai cristiani: il regno latino fu progressivamente ridotto d’estensione e, dopo la riconquista di Gerusalemme (1189), cadde (1291) l’ultima roccaforte, S. Giovanni d’Acri. La P. restò sotto il dominio dei sultani mamelucchi d’Egitto fino alla conquista turca del 1517; dopo di allora, mentre in Egitto i mamelucchi, pur sottoposti alla sovranità di Istanbul, mantennero un notevole grado di autonomia, Siria, Libano e P. furono pienamente integrate nell’ambito dell’amministrazione ottomana. Questa si mostrò tollerante nei confronti delle numerose minoranze religiose presenti nell’area siro-palestinese: ebrei, cristiani delle diverse confessioni, drusi e musulmani non sunniti godettero complessivamente di un’ampia libertà di culto. A partire dal 18° sec., il ristagno economico, l’eccessiva pressione fiscale, le disfunzioni amministrative e militari provocarono un declino del potere imperiale, che si tradusse dapprima in una maggiore indipendenza dei governatori locali, poi in una crescente ingerenza delle potenze europee. Dopo la conquista di P. e Siria da parte di Muhammad ‛Ali (1831), fu l’intervento di queste ultime a ristabilire l’autorità del sultano nel 1840; nei decenni successivi la sempre più ampia penetrazione europea, sul piano economico, politico e culturale, accentuò le contraddizioni interne all’impero, contribuendo a porre le premesse per la sua disgregazione.
Dopo la fine della Prima guerra mondiale la P. fu affidata in mandato alla Gran Bretagna e nel territorio palestinese venne inclusa la regione desertica fra il Mar Morto e il Golfo di Aqabah, mentre l’area a E del solco di al-Ghür fu assegnata nella parte più settentrionale (Golan) alla Siria (mandato francese) e per il resto alla Trans;giordania (mandato inglese); lungo il Mediterraneo i confini palestinesi furono segnati a sud di Gaza dalla frontiera tradizionale con l’Egitto e a nord di San Giovanni d’Acri da quella con il mandato francese del Libano. L’impegno assunto dal governo britannico – con la dichiarazione Balfour (➔ Balfour, Arthur James) del 1917 – di facilitare in P. la creazione di una sede nazionale per il popolo ebraico provocò una serie di proteste, di incidenti e di attacchi agli insediamenti ebraici (sfociati nel 1936 in una vera e propria rivolta), protrattisi fino al 1939, quando la Gran Bretagna ritirò il piano iniziale, presentando un nuovo progetto per la creazione, entro 10 anni, di un unico Stato palestinese indipendente che garantisse gli interessi essenziali di entrambe le comunità. La crisi riesplose con violenza dopo il 1945; l’Assemblea generale delle Nazioni unite approvò (1947) un piano di spartizione della P. fra uno Stato ebraico, uno arabo e una zona, comprendente Gerusalemme, da sottoporre ad amministrazione fiduciaria dell’ONU, e la cessazione del mandato britannico entro il 1° agosto 1948. Il progetto fu respinto dagli arabi; le forze militari sioniste occuparono ampie zone del previsto Stato arabo e alla fine del conflitto oltre il 75% della P. era stato conquistato da Israele, mentre lo Stato arabo-palestinese non aveva potuto costituirsi.
Dopo il 1948, pertanto, la storia della P. venne a identificarsi, in larga misura, con quella dello Stato di Israele. Malgrado questa situazione la popolazione arabo-palestinese riuscì a mantenere un sentimento di identità nazionale e fin dagli anni Cinquanta i palestinesi diedero vita a una resistenza culturale, politica e militare. Gli attacchi condotti dalle zone di raccolta dei profughi e le rappresaglie israeliane che li seguivano contribuirono a innescare sia la guerra del 1956 sia quella del 1967 (➔ arabo-israeliane, guerre). Per quanto riguarda i rapporti fra Israele e gli Stati arabi, la guerra «dei Sei giorni» aprì la strada a una sempre più esplicita trasformazione del contenzioso dall’originaria contestazione dell’esistenza dello Stato ebraico alle condizioni per la pace con esso. Per quanto riguarda la resistenza palestinese, l’ampiezza della sconfitta subita dagli eserciti arabi e l’estensione del controllo di Tel Aviv all’intero territorio dell’ex mandato posero le premesse per una sua crescita e trasformazione. I palestinesi del settore orientale di Gerusalemme entrarono a far parte della popolazione araba israeliana: qualificati come «residenti permanenti», ottennero la possibilità di accedere alla cittadinanza israeliana, ma solo una minoranza ne fece richiesta. Tutti gli altri furono sottoposti a un regime di amministrazione militare che li escludeva dai diritti civili e politici. Tale situazione fu aggravata negli anni successivi dallo sviluppo di un processo di colonizzazione della Cisgiordania e di Gaza mediante insediamenti israeliani, dalla progressiva acquisizione di terre e risorse idriche da parte di questi ultimi e delle forze di occupazione, e dalle misure repressive adottate dall’amministrazione militare. Dopo il 1967 la resistenza palestinese registrò una rapida crescita e affermò la sua autonomia dagli Stati arabi.
L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (➔ OLP) divenne l’organismo unitario della resistenza palestinese, nell’ambito del quale tutti i gruppi politico-militari erano rappresentati. Come una sorta di Stato in embrione, l’OLP si diede nel 1964 una Costituzione (Carta nazionale palestinese, modificata nel 1968), un Parlamento (Consiglio nazionale palestinese), un governo (Comitato esecutivo, eletto dal Consiglio nazionale), strutture amministrative, sanitarie, scolastiche, culturali. La rete organizzativa e militare della resistenza fu sviluppata soprattutto in Libano e, fino al 1970, in Giordania. Espulsa nel 1971 dal territorio giordano, l’OLP dovette concentrare la maggior parte delle proprie forze nel Libano, che risultò ancora più esposto alle violente incursioni israeliane, contribuendo a scatenare la guerra civile che insanguinò il Paese (1975-91). L’egemonia di al-Fatah tra i gruppi della resistenza si tradusse, a partire dal 1969, nella regolare rielezione del suo leader, Y. ‛Arafat, alla presidenza del Comitato esecutivo dell’OLP. Il programma di quest’ultima prevedeva la costituzione di uno Stato palestinese indipendente sull’intero territorio dell’ex mandato e la lotta armata contro Israele come mezzo principale per ottenerlo. A partire dal 1974, tuttavia, l’OLP assunse come obiettivo intermedio la costituzione di uno Stato indipendente nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 (Cis;giordania e Striscia di Gaza) e, pur non rinunciando alla lotta armata, si mostrò sempre più disponibile a perseguire una soluzione politica e diplomatica della questione palestinese. Nel 1974 l’OLP fu riconosciuta dall’ONU come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese e negli anni successivi dalla maggior parte degli Stati e da numerose organizzazioni internazionali; dal 1976 divenne membro a pieno titolo della Lega araba. Malgrado questi successi, la sua posizione fu indebolita dopo il 1977 dalla decisione dell’Egitto di concludere una pace separata con Israele, che gli consentisse di recupe;rare il Sinai: gli accordi di Camp David (1978) lasciarono irrisolta la questione palestinese, ma negli anni successivi Tel Aviv poté dislocare le proprie forze verso il fronte settentrionale e accentuare la pressione sul Libano, puntando a una liquidazione definitiva delle basi dell’OLP. Tale obiettivo fu parzialmente raggiunto con l’invasione del Paese nel 1982 e l’occupazione della sua parte meridionale fino al 1985, seguita dal mantenimento del controllo israeliano su una «fascia di sicurezza» all’estremo Sud del territorio libanese. Le strutture organizzative e militari dell’OLP furono in gran parte disperse, il quartier generale fu spostato a Tunisi. A una rinnovata unità della resistenza contribuì la rivolta della popolazione palestinese (➔ intifada) esplosa a Gaza e in Cisgiordania nel 1987, che richiamò l’attenzione internazionale sulla grave situazione dei territori occupati e rilanciò il ruolo dell’OLP sullo scenario mediorientale.
Il 15 novembre 1988 il Consiglio nazionale palestinese proclamava lo Stato di Palestina (con capitale Gerusalemme) e nel dicembre ‛Arafat riconosceva esplicitamente Israele di fronte all’Assemblea generale dell’ONU; entro la metà del 1989 lo Stato di Palestina (del quale ‛Arafat fu eletto presidente) era stato riconosciuto da oltre 90 nazioni. Tali sviluppi furono seguiti, fin dal 1989, da ripetute iniziative di pace, ma queste continuarono a scontrarsi con l’ostilità di Tel Aviv. La situazione si sbloccò solo quando Israele e OLP giunsero infine a un riconoscimento reciproco e firmarono a Washington (accordi di Oslo, 13 settembre 1993) una Dichiarazione di principi che stabiliva che attraverso numerose tappe, in un arco di tempo non superiore ai 5 anni, si sarebbe dovuto giungere alla convivenza tra i due popoli in due diversi Stati, in base al principio della restituzione dei territori occupati alla rappresentanza palestinese in cambio della pace. Secondo le linee di un nuovo accordo, siglato il 28 settembre 1995 a Washington da ‛Arafat e I. Rabin, la Cisgiordania veniva divisa a macchia di leopardo in tre tipi di zone: zona A, sotto il controllo palestinese; zona B, sotto il controllo congiunto israelo-palestinese; zona C, sotto il controllo israeliano. Nell’aprile 1996 il Consiglio nazionale palestinese approvò l’eliminazione di tutti i passaggi presenti nella Carta nazionale palestinese relativi alla distruzione di Israele. Solo nel gennaio 1997, però, fu effettuato il ritiro parziale delle forze israeliane da Hebron, ma il complessivo deterioramento delle relazioni israelo-palestinesi portò di fatto a una sospensione del processo di pace. Il perdurante blocco del processo negoziale favorì un’ulteriore crescita dell’opposizione islamica, espressa in particolare dal movimento politico integralista Hamas. Una svolta significativa si ebbe, nell’ottobre 1998, con l’apertura a Wye Plantation (Maryland) di una trattativa tra ‛Arafat, B. Netanyahu e B. Clinton, e con la partecipazione di re Husain di Giordania, che si concluse il 23 ottobre alla Casa Bianca con la firma ufficiale di un Memorandum. Nel 1999 ‛Arafat e il nuovo primo ministro israeliano E. Barak siglarono un accordo per rilanciare il processo di pace, impegnandosi a porre fine al negoziato entro il settembre del 2000, data in cui era previsto il passaggio di circa il 40% dei territori della Cisgiordania sotto il controllo totale o parziale dell’Autorità nazionale palestinese (ANP). Il nuovo stallo, provocato dall’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e dal crescente ricorso alla violenza da parte di Hamas, determinò l’ennesimo slittamento nel calendario dei ritiri israeliani. Nel 2000 il fallimento dei negoziati di Camp David tra Israele e la delegazione dell’ANP portò alla luce la distanza sempre maggiore tra le parti e le forti ambiguità mai chiarite di tutta la trattativa.
Alla fine del settembre 2000 scoppiava a Gerusalemme la seconda intifada, detta di al-Aqsa. La rivolta fu duramente repressa dal governo israeliano. Nel corso del 2001 andarono ancora peggiorando le condizioni di vita della popolazione dei territori e si intensificarono, dopo la formazione del governo di unità nazionale del leader del Likud A. Sharon, le azioni militari israeliane di rappresaglia. Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e a Wash;ington il livello dello scontro tra israeliani e palestinesi crebbe ancora e si moltiplicarono gli attacchi suicidi di terroristi palestinesi contro civili israeliani. Nel 2002 i territori palestinesi, ripetutamente chiusi e occupati dall’esercito israeliano nel corso del 2001, furono invasi dai bulldozer e dai carri armati. Dopo un temporaneo ripiegamento delle truppe israeliane, alla fine del giugno 2002 quasi tutte le città della Cisgiordania erano state nuovamente occupate o circondate, mentre un intervento del presidente statunitense G.W. Bush condizionava la nascita dello Stato palestinese al rinnovamento della sua leadership. Nel periodo 2002-06 Israele (che nell’agosto 2005 sgomberò unilateralmente la Striscia di Gaza) costruì un muro di protezione contro il terrorismo che avrebbe dovuto seguire i confini stabiliti dall’ONU nel 1967, ma che nei fatti realizza ampie incursioni in territorio palestinese. Abu Mazen, salito al potere (2005) dopo la morte di ‛Arafat (2004), non riuscì a impedire la vittoria elettorale di Hamas (2006), responsabile di un’esasperazione del conflitto con Israele, che provocò l’incursione dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, e di una vera e propria guerra civile con al-Fatah nelle strade di Gaza. La formazione di un governo di solidarietà nazionale guidato da I. Haniyeh non valse a riportare la pace fra le due fazioni e nel giugno 2007 la P. si divise in due: la Cisgiordania sotto il controllo di Abu Mazen e al-Fatah, e la Striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas. Al perdurare del lancio di missili da Gaza verso Israele, il governo israeliano rispose con ripetute incursioni aeree, la chiusura di tutte le frontiere e il blocco degli approvvigionamenti e infine, fra dicembre 2008 e gennaio 2009, con l’occupazione militare. I colloqui di pace fra Abu Mazen e il premier israeliano B. Netanyahu sono ripresi dopo alcuni mesi con la mediazione degli Stati Uniti, ma fra perduranti resistenze da parte di entrambi gli interlocutori.