PalestinaGeografia umana ed economica
di Anna Bordoni
A una stima del 2004 la popolazione della P. era di 3.699.000 ab., con una densità di 614,6 ab./km2. Sotto il profilo amministrativo è divisa in 16 governatorati, e le città principali sono il settore orientale di Gerusalemme (249.270 ab. stimati nel 2003), Gaza (361.650 ab. nel 2002), Hebron (147.300 ab.), Nablus (121.340 ab.), Jenin (32.300 ab.) e Gerico (18.240 ab.). La fecondità è elevatissima e arriva quasi a 5 figli per donna; di conseguenza l'alta natalità si traduce in un consistente accrescimento demografico (circa il 4% annuo) e in una quota di abitanti sotto i 15 anni di poco inferiore alla metà della popolazione complessiva. La speranza di vita alla nascita si aggira sui 73 anni. La situazione economica e sociale della P. resta assai precaria: la metà circa della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e il Paese sopravvive grazie agli aiuti internazionali.
Secondo una stima della Banca mondiale, tra il 1995 e il 2003 il PIL pro capite ha registrato un decremento medio annuo del 6,9%. La disoccupazione interessa un quarto della popolazione attiva e colpisce soprattutto i giovani, tra i quali la percentuale sale al 37-40%. I settori produttivi hanno risentito dello stato di conflitto permanente, in particolare il turismo è pressoché crollato e l'agricoltura è rimasta fortemente penalizzata dalla costruzione di una 'barriera difensiva di sicurezza' da parte di Israele (2002) sul versante cisgiordano, che spesso ha tagliato in due terreni produttivi.
di Silvia Moretti
Il lunghissimo e travagliato processo di pace israelo-palestinese conosceva, sul finire del 20° sec., un nuovo ma illusorio rilancio con l'accordo di Šarm al-Šayẖ (sett. 1999), che avrebbe dovuto condurre le parti a siglare nell'arco di un anno un trattato finale e risolutivo, secondo le linee indicate dagli accordi di Oslo del 1993. L'andamento dei negoziati, però, aveva evidenziato la crescente sfiducia dei palestinesi nei confronti della politica israeliana, tesa a rimandare nel tempo l'attuazione del processo cominciato a Oslo e a evitare di aprire una trattativa circostanziata sul futuro Stato palestinese e sulle controverse questioni del futuro di Gerusalemme e del rientro dei profughi. Subito dopo l'accordo di Šarm al-Šayẖ, comunque, Israele avviava il primo dei tre previsti ritiri dai Territori occupati (gli altri due erano programmati per il novembre 1999 e il gennaio 2000). La restituzione di ampie fasce di territorio cisgiordano all'Autorità nazionale palestinese (ANP) seguiva le linee dell'accordo siglato nel settembre 1995 a Washington, conosciuto come Oslo ii, che aveva diviso la Cisgiordania, a 'macchia di leopardo', in tre tipi di zone: A, sotto l'autorità palestinese (ma nella quale Israele manteneva il controllo sui movimenti in entrata e in uscita); B, sotto controllo congiunto (amministrazione civile palestinese, ma controllo militare israeliano per le questioni di sicurezza); C, sotto l'autorità israeliana. Il ritiro del settembre 1999 riguardava il 7% del territorio della Cisgiordania, che passava dalla zona C alla zona B. Il 25 ottobre veniva poi aperta una strada di collegamento tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, lunga 44 km (da Tar Kumiya, nelle vicinanze di Hebron, al checkpoint di Erez, nella Striscia); gli israeliani ne mantenevano il controllo assoluto (per es., permessi di transito per i palestinesi, checkpoints militari, e anche restrizioni del traffico).
Benché all'inizio di novembre venissero avviati a Rāmallāh i negoziati sull'intesa definitiva, la fine dell'anno segnava un peggioramento nelle relazioni tra le parti; il nuovo stallo, provocato dall'espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e dal crescente ricorso al terrorismo messo in atto da parte dell'organizzazione fondamentalista palestinese Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento della resistenza islamica, fondato a Gaza nel 1987), determinò l'ennesimo slittamento nel calendario dei ritiri dalla Cisgiordania. L'influenza di Ḥamās era notevolmente cresciuta nel corso degli anni Novanta; l'organizzazione, operante per lo più in clandestinità ma fortemente impegnata anche in attività assistenziali e di sostegno alla popolazione, andava ampliando il suo radicamento nella società, proclamando in modo aprioristico il rifiuto di ogni soluzione politica del conflitto. La sua propaganda, inoltre, era stata decisiva nell'incitare le piazze al fondamentalismo e alla violenza tanto contro Israele quanto contro esponenti di movimenti palestinesi più moderati.
Il 2000 fu l'anno che segnò in qualche modo la fine del processo di pace iniziato a Oslo. Il fallimento dei negoziati di Camp David tra Israele e l'ANP (luglio) portò alla luce la distanza sempre maggiore tra le parti e le forti (e mai chiarite) ambiguità di tutta la trattativa. Infatti, al di là delle posizioni inconciliabili su Gerusalemme e sui profughi, la dottrina di sicurezza nazionale degli israeliani, grazie a cui questi, in considerazione delle proprie esigenze di difesa, avevano reiteratamente sospeso il ritiro dell'esercito dai Territori, aveva drammaticamente frustrato le aspettative della popolazione palestinese, che in base a quegli accordi si attendeva di ricevere già nel periodo transitorio dell'accordo circa il 90% dei Territori. All'inizio dell'estate del 2000, invece, solo il 12,1% della Cisgiordania era sotto il pieno controllo palestinese (zona A), mentre il 26,9% era nella zona B e il 61% nella zona C. A Camp David Israele mostrò l'intenzione di restituire tra il 91 e il 97% della Cisgiordania, ma spezzandola in tre tronconi, privi di qualsiasi continuità territoriale tra di loro. Anche le clausole proposte per la sicurezza apparivano inaccettabili ai negoziatori dell'ANP: smilitarizzazione dello Stato palestinese, controllo israeliano lungo il Giordano e alle frontiere tra il futuro Stato e gli altri Stati arabi. La rigidità mostrata a Camp David dal presidente palestinese Y. ̔Arafāt, fermamente intenzionato a non scendere a patti sul diritto del suo popolo alla restituzione dei Territori, può dunque trovare una spiegazione nella crescente frustrazione della popolazione palestinese, che mai come avvenne negli anni 1993-2000 aveva visto drammaticamente peggiorare le proprie condizioni di vita: raddoppiamento del numero dei coloni israeliani sia a Gaza sia in Cisgiordania; costruzione di 30 nuovi insediamenti e relativa confisca di oltre 160 km2 di terra; strangolamento dell'economia palestinese tramite l'espropriazione di fattorie e pascoli; sradicamento di decine di migliaia di ulivi e alberi da frutto; drenaggio delle risorse idriche; demolizione di case e infrastrutture. Secondo Amnesty International, all'inizio del 2000 gli accordi di Oslo avevano determinato la creazione in Cisgiordania di 227 aree sotto il totale o parziale controllo dell'ANP, geograficamente separate e in maggioranza estese su meno di 2 km2, con checkpoints israeliani in entrata e in uscita. Alla fine del settembre 2000, nei giorni in cui secondo il calendario stabilito tra le parti i palestinesi avrebbero dovuto dichiarare la nascita del loro Stato, la Cisgiordania risultava così divisa: 17,2% zona A, 23,8% zona B, 59% zona C. Nello stesso periodo scoppiava a Gerusalemme la seconda intifāḍa, denominata al-Aqṣā dal nome, appunto, di una delle moschee di Gerusalemme Est, situata nel terzo luogo santo dell'Islam, al-Ḥaram al-Sharīf (il nobile santuario, noto anche come Spianata delle moschee). Il 29 settembre, giorno successivo alla visita del leader del Likud A. Sharon al sito religioso venerato da entrambe le religioni (per gli ebrei la Spianata è il Monte del Tempio), scoppiarono i primi disordini: dopo la preghiera del venerdì alcune migliaia di fedeli musulmani affollarono la Spianata, dove si verificarono violenti scontri con le forze di polizia israeliane (6 vittime palestinesi e oltre 200 feriti). La protesta dilagò a macchia d'olio, trasformandosi rapidamente in una rivolta generalizzata per l'indipendenza, e fu duramente repressa dal governo israeliano. Ma a differenza della prima intifāḍa, caratterizzata da scontri di piazza, manifestazioni popolari e azioni non violente di disobbedienza civile, l'intifāḍa di al-Aqṣā vide da subito, da parte dei palestinesi, un largo impiego di armi da fuoco e un massiccio ricorso ad attentati e attacchi suicidi contro civili e militari.
Il gennaio 2001 fece registrare il fallimento di nuovi negoziati, svoltisi a Taba (Egitto). Nel corso del 2000 e del 2001 le condizioni di vita della popolazione dei Territori andarono ancora peggiorando, in particolare nei campi profughi (isolamento delle zone abitate, restrizioni alla circolazione, revoca dei permessi di lavoro, chiusura di scuole e università, linee telefoniche e condotte idriche interrotte per lo scavo di trincee israeliane), mentre si intensificavano, soprattutto dopo la formazione di un governo di unità nazionale diretto da Sharon (marzo 2000), le azioni militari israeliane di rappresaglia. Dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 a New York e a Washington crebbe il livello dello scontro tra israeliani e palestinesi. In dicembre ̔Arafāt, non più considerato da Sharon un interlocutore valido per il negoziato di pace, veniva confinato nel suo quartier generale a Rāmallāh (la Muqāṭa̔a), guardato a vista dall'esercito israeliano. Si moltiplicavano inoltre, indiscriminatamente, gli attacchi suicidi di terroristi palestinesi. Nel marzo del 2002 altissimo fu il numero dei civili israeliani uccisi, circa settanta, vittime di attentati compiuti in alberghi, bar, autobus, centri commerciali: una vera e propria strategia del terrore, che vedeva impegnati, oltre ad Ḥamās, i guerriglieri del Ǧihād islamico e la Brigata dei martiri di al-Aqṣā, un gruppo terrorista collegato ad al-Fatāḥ e nato subito dopo lo scoppio della seconda intifāḍa, la cui iniziale impronta laica andava via via attenuandosi. Nel marzo-aprile 2002 i Territori, ripetutamente chiusi e occupati dall'esercito israeliano nel corso del 2001, furono nuovamente invasi dai carri armati e dai bulldozer (operazione Scudo difensivo). Tūlkarm, Jenin, Rāmallāh, Betlemme e Kalkilya furono oggetto di lunghi e devastanti attacchi; a Betlemme i combattimenti sfociarono nell'assedio israeliano alla Chiesa della Natività, al cui interno si erano nascosti alcuni militanti e terroristi palestinesi. Dopo oltre un mese di trattative l'assedio si concluse il 10 maggio, grazie alla mediazione dell'Unione Europea; pochi giorni prima era stato liberato anche ̔Arafāt, da cinque mesi prigioniero nella Muqāṭa̔a.
In giugno la crisi appariva senza via d'uscita: tutte le maggiori città della Cisgiordania, che erano state nel frattempo sgomberate, venivano rioccupate o circondate dall'esercito israeliano, e un intervento del presidente degli Stati Uniti G.W. Bush condizionò la nascita dello Stato palestinese al rinnovamento della sua leadership, incrinando così fortemente l'autorità di ̔Arafāt. Ma fu soprattutto la decisione israeliana di costruire una 'barriera difensiva di sicurezza' tra Israele e la Cisgiordania ad azzerare il lungo percorso negoziale tra le parti (v. fig.). Tra agosto e settembre il livello di violenza crebbe ancora, in particolare a Gaza, dove si concentrò l'azione repressiva di Israele. Il 19 settembre, rivendicato da Ḥamās e dal Ǧihād islamico, un attacco suicida su di un autobus a Tel Aviv provocò 6 morti e oltre 50 feriti; l'attentato fu considerato dal governo israeliano responsabilità dell'ANP e in particolare di ̔Arafāt, colpevole di non aver saputo fermare il terrorismo. Di conseguenza fu avviata una sistematica distruzione degli edifici nella Muqāṭa̔a, dove ̔Arafāt venne nuovamente confinato; alle parole di condanna della comunità internazionale si associò, seppur esprimendo dei distinguo, anche l'amministrazione Bush. Il 29 settembre il governo Sharon levò l'assedio, ridando piena libertà di movimento ad ̔Arafāt. Poche settimane prima, il 14 agosto, il governo aveva approvato il percorso definitivo della prima fase di costruzione della barriera (fase A), i cui lavori preliminari erano già stati avviati in giugno: circa 140 km, dal checkpoint di Salem, a nord di Jenin, fino alla colonia di Elkana, nella zona centrale della Cisgiordania, inclusa l'area dove si trova la città palestinese di Kalkilya, situata proprio alla frontiera tra Israele e la Cisgiordania. Kalkilya veniva chiusa in una sorta di ghetto, circondata com'era dalla recinzione, che a nord e sud della città compiva due profonde incursioni in Cisgiordania per inglobare alcuni importanti insediamenti israeliani, ma anche diversi terreni agricoli palestinesi, ormai raggiungibili dai legittimi proprietari solo previa concessione di permessi di transito. Fu organizzato un unico checkpoint per controllare l'entrata e l'uscita dalla città, che contava allora più di 40.000 residenti, ma che nei mesi seguenti alla costruzione della recinzione fece registrare un primo esodo di circa 6000-8000 abitanti, alla ricerca di un lavoro. Le tre fasi successive di costruzione della barriera furono approvate tra il 2003 e il 2005, e andarono a chiudere, da nord a sud, tutta la Cisgiordania; la recinzione, spesso discostandosi significativamente dalla linea dell'armistizio del 1949, la cosiddetta Linea verde, veniva a inglobare, almeno temporaneamente, numerose porzioni di territorio palestinese.
Nel 2003, a conclusione di un processo iniziato dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, la figura di ̔Arafāt appariva ormai fortemente delegittimata: da sponde opposte ma coincidenti, Ḥamās e il governo israeliano avevano concorso a erodere e compromettere la sua rappresentatività politica. Decisa a radicalizzare lo scontro e a 'islamizzare' la causa palestinese, Ḥamās era riuscita a penetrare sempre più in profondità nella società palestinese, raccogliendo adesioni non solo nelle fasce più disagiate della popolazione ma anche tra i ceti emergenti più acculturati, come gli studenti delle università (in particolare quella di Bir Zeit, nei pressi di Rāmallāh). La crisi dirompente del vecchio gruppo dirigente di al-Fatāḥ (che si riverberava su tutte le strutture politiche dell'ANP) rischiava di marginalizzare questa organizzazione, ostaggio di faide personali, di gravi episodi di corruzione e del potere esorbitante dei vertici dei servizi di sicurezza, una rete fitta e quasi inestricabile di numerosissimi apparati, gestiti arbitrariamente e spesso in concorrenza tra loro. La struttura di Ḥamās, distribuita sul territorio con consigli direttivi democraticamente eletti, rendeva sempre più evidente la natura nepotistica della gestione dell'ANP, in mano a poche grandi famiglie. Le responsabilità di ̔Arafāt in questa gestione clientelare e poco trasparente del potere e la crescente pressione internazionale lo spinsero a istituire nel marzo 2003 il ruolo di primo ministro, che fu affidato in aprile al moderato Abū Māzin (̔Abbās Maḥmūd al-̔Aqqād), uno dei fondatori di al-Fatāḥ. La genericità del mandato conferito al primo ministro e le tensioni evidenti con ̔Arafāt per la spartizione dei poteri, portarono tuttavia rapidamente alle dimissioni di Abū Māzin (sett.). Nei mesi del suo mandato israeliani e palestinesi erano tornati, se pur brevemente, al tavolo delle trattative, ed era stata accantonata, per manifesta inattuabilità, la cosiddetta road map, il piano di pace presentato nell'aprile 2003 da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e ONU, che stabiliva per il 2005 la data di nascita del nuovo Stato palestinese (v. israele).
Le proteste contro la gestione affaristica e autoritaria di ̔Arafāt esplosero nella prima metà del 2004, prima tra i vertici di al-Fatāḥ (febbr.) per la mancata riforma interna dell'organizzazione, poi nelle piazze di Gaza (luglio), dove i manifestanti lamentavano l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, la sempre più diffusa corruzione e i comportamenti estorsivi dei servizi di sicurezza. La crescente pressione interna su ̔Arafāt, artefice di riforme solo superficiali, non placò il caos che regnava a Gaza, dove andavano sempre più spesso verificandosi regolamenti di conti a fuoco tra fazioni rivali. La malattia e poi la morte del vecchio leader (nov. 2004) riportarono sulla scena Abū Māzin, unico candidato di al-Fatāḥ alle elezioni della presidenza dell'ANP dopo il ritiro di Marwān Bargūtī, il simbolo dell'intifāḍa di al-Aqṣā, in prigione in Israele dall'aprile 2002. Eletto nel gennaio 2005 con il 62,5% dei voti, Abū Māzin fu accolto favorevolmente dall'amministrazione Bush e da Israele.
Nel 2005 l'attenzione della comunità internazionale, dei palestinesi e degli israeliani fu catalizzata dal previsto ritiro delle truppe israeliane da Gaza e dallo smantellamento di tutti gli insediamenti ebraici nella Striscia (21, con circa 8200 abitanti). Il piano di evacuazione, annunciato da Sharon già nel febbraio 2004, fu messo in pratica alla metà di agosto. Dopo il ritiro Israele si riservava, comunque, il controllo dello spazio aereo e delle acque territoriali, la possibilità di interferire nei sistemi radiotelevisivi, il diritto di vietare l'ingresso nella Striscia a coloro che non vi risultavano residenti, il controllo totale dei movimenti di persone e merci tra Gaza e la Cisgiordania e di tutte le merci in entrata nella Striscia, con conseguente facoltà di chiudere i relativi varchi. Accolto da più parti come il segno di una nuova politica del dialogo da parte di Sharon (costretto anche a fare i conti con la forte pressione demografica palestinese), il ritiro unilaterale degli israeliani da Gaza fu considerato da alcuni analisti della questione mediorientale una mossa pericolosa e potenzialmente controproducente per i palestinesi, che venivano fatti oggetto, passivamente, di una concessione di Israele non inserita all'interno di alcuna strategia di pace, ma anzi finalizzata a marginalizzare il ruolo dei rappresentanti politici palestinesi e ad allontanare il più possibile la discussione necessaria alla nascita del nuovo Stato.
L'unilateralismo forzato di Sharon, al pari di quello mostrato più volte da Bush, privava i palestinesi della possibilità di partecipare attivamente all'autodeterminazione del loro destino. La Striscia, inoltre, versava in uno stato di grave declino economico, risultato delle continue chiusure imposte da Israele negli anni 2000-2005: disoccupazione, crollo degli scambi commerciali, alti costi di produzione, deterioramento dei servizi sociali (salute, istruzione).
Contestualmente al ritiro da Gaza, venivano evacuati anche quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania (con 674 abitanti, a fronte dei 230.000 allora registrati); la popolazione civile della Cisgiordania, intanto, era soggetta a sempre più pesanti restrizioni provocate dalla barriera (per brevi tratti un muro, alto 8-9 metri, nella maggioranza del tracciato una recinzione). A costruzione quasi conclusa, nel territorio palestinese 'confiscato' situato a ovest della barriera, che veniva così di fatto ricongiunto a Israele, viveva quasi l'80% dei coloni residenti in Cisgiordania. Per i terreni sottratti, i frutteti e gli uliveti inglobati dal muro o sradicati durante i lavori di costruzione (spesso in aree molto fertili perché più prossime alle risorse idriche), i palestinesi avrebbero dovuto ricevere adeguati risarcimenti. Lo spazio a est della barriera, con le città e i villaggi palestinesi controllati dall'ANP (zona A), rimaneva comunque sotto stretta sorveglianza dell'esercito israeliano che, diviso il territorio in cinque distinte aree, impediva la libera circolazione tramite i checkpoints: la maggioranza delle strade erano infatti percorribili solo dai coloni, che potevano usufruire anche di tunnel di collegamento tra alcuni insediamenti; i palestinesi, invece, erano costretti a compiere innumerevoli deviazioni per qualunque piccolo spostamento. Non si arrestava, inoltre, la costruzione degli insediamenti, in particolare a est di Gerusalemme (al-Quds per gli arabi), ormai irrimediabilmente separata dalla Cisgiordania e talmente ingrandita nei suoi confini municipali da impedire una continuità territoriale tra il nord e il sud della Cisgiordania.
Nel gennaio 2006 la vittoria elettorale di Ḥamās (44,4% dei voti) lasciava intravedere nuovi scenari: la forza dirompente di questa organizzazione, che appariva l'unica in grado di interpretare le frustrazioni della popolazione palestinese, raccogliendo anche i frutti di una tregua ormai effettiva da oltre dieci mesi, spaventava Israele e i Paesi occidentali, concordi nell'applicare una sospensione nel versamento di aiuti umanitari, contributi, assistenza tecnica ecc., al nuovo governo palestinese; si diffondeva, comunque, la convinzione della necessità di costringere quest'ultimo a partecipare a un tavolo di trattative. Nei fatti, però, Ḥamās non mostrò alcun segnale di voler abbandonare i suoi proclami sulla distruzione dello Stato di Israele, e nel corso dell'estate si concretizzò il timore israeliano di una pericolosa convergenza di intenti tra l'organizzazione palestinese e quella libanese di Ḥezbollāh (Partito di Dio), che lanciavano entrambe, a distanza di pochi giorni tra loro (25 giugno e 12 luglio), una violenta offensiva contro Israele.
Il 25 giugno, attraverso un tunnel sotterraneo scavato sotto il confine della Striscia, un commando palestinese penetrava in Israele nei pressi di un avamposto militare, uccideva due soldati e ne rapiva un terzo. L'attacco, rivendicato tra gli altri dall'ala militare di Ḥamās, provocava un'incursione dell'esercito israeliano nella Striscia (operazione Pioggia d'estate), portando allo stremo una popolazione già fortemente provata dalla sospensione degli aiuti umanitari. La controffensiva di Israele, minacciata dai missili Qassam lanciati dalla Striscia, provocava centinaia di morti e metteva a repentaglio la stessa sopravvivenza fisica della popolazione (bombardamento dell'unica centrale elettrica della Striscia). Nell'autunno 2006, mentre sembrava prendere corpo il negoziato per formare un governo di unità nazionale tra Ḥamās e al-Fatāḥ, sulla base di un documento di riconciliazione nazionale scritto dai prigionieri politici palestinesi in Israele, esplodeva nelle strade di Gaza il conflitto tra i due partiti.bibliografia
A. Margalit, Settling scores, in New York review of books, 20 September 2001, pp. 20-24.
S. Roy, Why peace failed: an Oslo autopsy, in Current history, January 2002, pp. 8-16.
U. De Giovannangeli, Dopo Arafat: cambia tutto per non cambiare nulla, in Limes. Rivista italiana di geopolitica, 2005, 1, pp. 215-28.
S. Roy, A Dubai on the Mediterranean, in London review of books, November 2005, pp. 15-18.
R. Khalidi, The iron cage. The story of the Palestinian struggle for statehood, Boston 2006.