Vedi Palestina dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Che cosa comprenda esattamente la definizione di Palestina o Territori palestinesi sarà chiaro soltanto nel momento in cui il processo politico e diplomatico apertosi nel 1991 con la conferenza di Madrid e proseguito con la dichiarazione di principi di Washington del 1993 avrà avuto termine. I territori corrispondenti allo stato di Israele e ai Territori palestinesi facevano parte di diverse unità amministrative dell’Impero ottomano: il sangiaccato indipendente di Gerusalemme e i sangiaccati di Nablus e di Akka, che comprendevano anche parte dell’attuale Libano meridionale, ambedue divisioni amministrative del vilâyet di Beirut. L’attuale estremo sud di Israele faceva parte del sangiaccato di Maan, parte del vilâyet di Damasco. La leadership palestinese e tutti i paesi arabi rigettarono la risoluzione n.181 delle Nazioni Unite del 1947 che prevedeva l’istituzione di uno stato ebraico, uno stato arabo e un territorio internazionalizzato sulla Palestina mandataria. La situazione che emerse dalla Prima guerra arabo-israeliana (1948-49, soprannominata Naqba, ‘catastrofe’, dagli arabi) sancì il fallimento della creazione di uno stato palestinese e stabilì il controllo dei territori palestinesi residui da parte di Egitto (Striscia di Gaza) e della Transgiordania (Cisgiordania o Riva occidentale, West Bank in inglese, al-Diffa al-Gharbiyya in arabo). La Cisgiordania fu poi annessa alla Transgiordania nel 1951 dal re Abdullah I, che creò così il regno di Giordania. Tale situazione, con l’intermezzo della Seconda guerra arabo-israeliana del 1956 per quanto riguarda la Striscia di Gaza, ha caratterizzato un periodo di circa venti anni, fi no alla cosiddetta Guerra dei sei giorni (1967). Dal 1967 Israele ha controllato per un lungo periodo tutti i territori arabo-palestinesi. Con gli accordi tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – dalla dichiarazione di principi del 1993 agli accordi di Hebron del 1997 – la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state divise in tre zone: la zona A sotto totale controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e responsabile sia per la sicurezza, sia per l’amministrazione; la zona B è sotto amministrazione palestinese e controllo israeliano dal punto di vista della sicurezza; infine, la zona C posta sotto totale controllo israeliano. Questa situazione è mutata con la rioccupazione quasi completa della Cisgiordania da parte delle forze armate israeliane nel 2003, azione che il governo di Israele ha giustificato appellandosi alla ‘necessità’ di porre un freno a un’ondata di attentati terroristi suicidi da parte dei palestinesi. La situazione è stata ulteriormente complicata dall’abbandono unilaterale di Gaza da parte israeliana e dalla costruzione del muro, ossia un sistema di sorveglianza e sbarramento a molti strati che spesso va oltre la cosiddetta ‘Linea verde’, vale a dire la linea del cessate il fuoco, stabilita nel 1949. Lo ‘stato in formazione’ costituito dall’Autorità nazionale palestinese (Anp, in arabo al-Sulta al-Wataniyya al-Filastiniyya) ha una struttura semipresidenziale: il presidente è eletto direttamente dal popolo, mentre il potere legislativo è esercitato dal Consiglio legislativo che dà anche la fiducia al primo ministro nominato dal presidente. Il sistema elettorale per il Consiglio legislativo è variato nel tempo: totalmente maggioritario a turno unico (un seggio per collegio) nelle prime elezioni, nel 2006 è stato modificato in senso misto – una metà dei seggi con il maggioritario, l’altra con il proporzionale (unica lista nazionale). Le due principali forze politiche palestinesi sono Fatah, il partito del presidente palestinese, Mahmoud Abbas, che controlla la Cisgiordania, e Hamas, il gruppo islamico che ha vinto le elezioni parlamentari del 2006 e quindi esercita il controllo sulla Striscia di Gaza dal giugno 2007, dopo la cosiddetta ‘battaglia di Gaza’ contro Fatah. I leader delle due formazioni hanno firmato nel maggio del 2011 e del 2012 un accordo – poi fallito – di riconciliazione che includeva la creazione di un governo ad interim di unità nazionale, responsabile per le prossime elezioni dell’assemblea legislativa dell’Anp, e la discussione sulla rappresentanza di Hamas nel Consiglio nazionale palestinese. Alla completa riconciliazione Fatah-Hamas si contrappongono tuttavia ancora diversi ostacoli. Nell’aprile 2013, il primo ministro Salam Fayyad, da sempre fortemente osteggiato da Hamas ma rispettato a livello internazionale, si è dimesso, apparentemente per questioni fiscali, ed è stato sostituito da Rami Hamdallah. Un reset nelle relazioni intra-palestinesi che ha conosciuto un nuovo momento importante nell’aprile 2014 quando, dopo settimane di intensi dialoghi segreti a Gaza, Hamas e Fatah hanno trovato un accordo per l’istituzione di un governo di unità nazionale, poi ufficialmente insediatosi il 2 giugno. Un’intesa, questa, che ha rischiato di naufragare immediatamente a seguito della nuova guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas del luglio-agosto 2014, che ha provocato oltre 2200 morti da ambo le parti (una settantina circa gli israeliani uccisi) e 100.000 sfollati interni nella piccola lingua di terra incastonata tra Egitto e Israele. Ciononostante il nuovo soggetto palestinese continua a sopravvivere pur tra mille difficoltà. Da un lato le questioni interne alle due principali fazioni palestinesi (come per esempio la mancata proclamazione di una data elettorale come previsto dall’accordo di aprile 2014 che prevedeva le consultazioni entro un termine non superiore ai sei mesi dall’insediamento del governo), dall’altro l’ostruzionismo israeliano che ha ripetutamente chiesto alla comunità internazionale di non riconoscere il nuovo soggetto palestinese, rendono accidentato il percorso di unità nazionale. A questi fatti si aggiungono quelli riguardanti i colloqui di pace indiretti in corso al Cairo tra Tel Aviv e Ramallah, da sempre accidentati.
Il 29 novembre 2012, la Palestina è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come ‘stato non membro osservatore’ delle Un, un passo molto importante sul piano simbolico per il riconoscimento dell’esistenza di uno stato palestinese all’interno della soluzione ‘due popoli, due stati’, promossa dalle Nazioni Unite sin dal 1948.
La situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi è a dir poco preoccupante. Alle violazioni compiute dalle forze di occupazione israeliane (detenzioni amministrative, espropri arbitrari, demolizioni di case, casi di tortura, ampliamento delle colonie ebraiche a Gerusalemme Est e in Cisgiordania), si aggiungono quelle perpetrate dagli uomini della sicurezza palestinesi: arresti arbitrari, violazioni della libertà di espressione, tortura, eliminazione di palestinesi accusati di collaborazionismo, e, infine, applicazione della pena di morte. Una situazione di confusione generale che ha favorito nuovamente l’insorgere di scontri a Gerusalemme Est – finora di bassa intensità per ora – tra israeliani e palestinesi.
Conseguenza della sconfitta araba del 1948 è stata l’emergere del problema dei profughi palestinesi, che si concentrarono nei campi di Gaza, della Cisgiordania, della Transgiordania (ora Giordania), del Libano e della Siria. I profughi erano poco più di 750.000 negli anni Cinquanta. Secondo le stime più recenti di Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sostenere i profughi palestinesi), questi sono almeno cinque milioni (anche se la maggior parte non vive più nei campi).
Allo stadio attuale il paese che ospita il maggior numero di persone di origine palestinese è la Giordania; seguono Cisgiordania e Gaza, Israele, Libano e Siria. Dal punto di vista giuridico, sono considerati rifugiati i palestinesi della Giordania, del Libano, della Siria e degli altri paesi arabi e, solo una parte, di quelli della Cisgiordania e di Gaza. Una parte di questi ultimi e degli arabi israeliani non sono considerati in questa classificazione, rendendo difficile una definizione di società palestinese. Quel che si è configurato negli anni è invece una pluralità di società o di spezzoni di essa, costituiti dai palestinesi e/o dai profughi. Ancora oggi, inoltre, continua a essere rilevante il numero di emigranti verso paesi più lontani, costretti dalle difficili condizioni di vita.
La situazione dei profughi è particolarmente dura in Libano, dove ogni forma di integrazione è stata resa impossibile dalla divisione del potere lungo linee comunitarie. Soprattutto per ciò che concerne la Striscia di Gaza, inoltre, l’alta densità abitativa determina una situazione ancora più grave per l’amministrazione dei Territori.
Dal punto di vista della religione i palestinesi di Cisgiordania e di Gaza sono in gran parte musulmani sunniti (97%) e per il resto cristiani. Sono presenti varie confessioni cristiane, in maggioranza greco-ortodossi, cui seguono il rito cattolico, siriaco e armeno. I drusi sono pressoché assenti poiché demograficamente concentrati nei territori israeliani.
Dal punto di vista economico i Territori palestinesi sono dipendenti da Israele, oltre che dagli aiuti provenienti dall’estero (più di 2 miliardi di dollari nel 2013, circa l’11% del pil nazionale), in particolare da Europa e Usa.
I divieti imposti dallo stato di Israele influiscono inevitabilmente sulle condizioni economiche dei Territori palestinesi. Secondo l’Unctad, l’organismo delle Nazioni Unite posto a controllo del commercio, l’Anp perde ogni anno oltre 300 milioni di dollari di potenziale gettito fiscale a causa delle importazioni non tassate che passano per Israele.
Nella Striscia di Gaza, in particolare, dopo la presa di potere da parte di Hamas nel 2007, Tel Aviv ha di fatto chiuso i valichi di accesso al territorio palestinese, causando gravi danni all’economia e la chiusura di molte attività industriali e commerciali. Tutto ciò ha fatto impennare il tasso di disoccupazione alimentando al contempo un’economia parallela e illegale che passa attraverso i tunnel sotterranei tra il nord Sinai egiziano e Rafah. Sebbene le forze di sicurezza egiziane abbiano distrutto circa l’80% dei 1500 tunnel – utilizzati peraltro per il contrabbando di armi – le autorità del Cairo non sono ancora riuscite a interrompere questo flusso clandestino da e verso Gaza.
Allo stesso tempo, l’economia della West Bank non versa in condizioni economiche migliori. La Cisgiordania ha risentito della costruzione del muro che la separa da Israele, come misura cautelare contro il proliferare di attentati suicidi all’interno del territorio israeliano. Ciò limita i movimenti tra i Territori e Israele e gli ingressi dei palestinesi in territorio israeliano per motivi di lavoro. Prima della costruzione del muro che separa Israele dalla Cisgiordania, molti palestinesi avevano permessi speciali per oltrepassare quotidianamente il confine mentre attualmente si registrano maggiori restrizioni.
Sotto il profilo macroeconomico, i Territori hanno visto negli anni Novanta del secolo scorso una certa crescita, che però è coincisa, negli anni della seconda Intifada, con un crollo del pil pro capite, che solo dal 2005 ha iniziato a crescere di nuovo, superando i 10.000 dollari nel 2012. L’economia palestinese è dominata dai servizi (anche il turismo, soprattutto in alcune città come Betlemme, è un’importante fonte di introiti, anche se dipendente dalle condizioni di sicurezza), mentre l’industria rimane sottosviluppata. Il settore agricolo soffre della difficoltà di approvvigionamento idrico e degli ostacoli alle esportazioni, dovute alla chiusura dei valichi, particolarmente rilevanti per quanto riguarda la Striscia di Gaza. L’approvvigionamento idrico, in particolare, rimane uno dei problemi più gravi della popolazione palestinese e una delle cause che mantiene vivo il conflitto con Israele
L’Anp segue le politiche economiche delineate nel Piano di riforma e di sviluppo palestinese (inizialmente pensato come piano fiscale di durata triennale), elaborato per una conferenza tra i donatori della Palestina tenutasi a Parigi nel 2008. Il tentativo è di consolidare le finanze, aumentare la pressione fiscale e limitare la spesa pubblica, per ridurre la dipendenza dagli aiuti e per stimolare la crescita, attraverso investimenti nel settore privato. Ciononostante le autorità locali non sono state in grado di recepire tali indicazioni e anziché tagliare la spesa pubblica sono riusciti invece a moltiplicarla fino a dover pagare tra Gaza e West Bank circa 140.000 lavoratori del pubblico impiego. A Gaza, invece, le politiche economiche dell’amministrazione di Hamas, vincolate dall’embargo e da sanzioni bancarie, si concentrano soprattutto sulla promozione dell’autonomia economica e sull’ottimizzazione della distribuzione delle risorse ammesse da Israele ed Egitto. Tuttavia, anche durante il periodo in cui la Fratellanza musulmana (vicina a Hamas) era al potere in Egitto, le autorità di Gaza hanno continuato a subire gravi vincoli finanziari e logistici. Una situazione che è venuta definitivamente meno con il governo di Abdel Fattah al-Sisi, il quale ha messo da parte qualsiasi tipo di vincolo solidaristico esistente con le fazioni islamiste locali e attuando invece una politica restrittiva nei confronti delle autorità gazawi.
La valutazione delle forze di sicurezza palestinesi è particolarmente difficile. Rispetto alla situazione complicata che ha fatto seguito all’istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, caratterizzata da una molteplicità di milizie e di comandi, oggi il quadro delle forze di sicurezza sembra essersi relativamente semplificato, grazie all’istituzione di un centro di potere a Gaza e uno a Ramallah, in Cisgiordania. In seguito alle elezioni del 2006 e alla vittoria di Hamas, nel 2007 è scoppiata una breve guerra civile che ha visto prevalere Hamas nella Striscia di Gaza e l’Olp (sostanzialmente Fatah e gruppi a essa vicini) in Cisgiordania. Da allora si ha una situazione di divisione dei Territori palestinesi, che si ripercuote anche sulla sicurezza dei Territori stessi. La vittoria in Egitto della Fratellanza musulmana nel 2012, organizzazione da cui proviene Hamas, aveva portato a un progressivo rafforzamento di quest’ultima sul piano politico, a discapito dell’Anp del presidente Abu Mazen. Tuttavia da quando Mohammed Mursi è stato deposto dai militari nel luglio 2013, c’è stata un’indicativa intensificazione dei controlli sul valico di frontiera tra l’Egitto e Gaza, finalizzata anche a ridurre il contrabbando di armi. Proprio da questi tunnel via Sudan arrivavano forniture continue di armamenti di fabbricazione iraniana, utilizzati da Hamas nel corso degli ultimi conflitti per attaccare lo stato ebraico. Questa ha dimostrato dunque di avere capacità belliche maggiori rispetto al passato e di poter impiegare razzi in grado di raggiungere Gerusalemme e Tel Aviv.
Dopo la tregua con Israele del 2012 e la perdita del prezioso alleato egiziano nel 2013, per evitare di rimanere isolata nella regione Hamas ha parzialmente rivisto il suo schema di alleanze all’interno del quadro mediorientale, passando dal campo sciita composto da Iran, Hezbollah e dalla Siria di Assad, all’‘asse sunnita’ e legandosi soprattutto a Turchia e Qatar, al momento gli unici sponsor politici ed economici di Hamas. Soprattutto le relazioni tra Gaza e Qatar hanno conosciuto un miglioramento netto in virtù sia della visita dell’ottobre 2012 dell’allora emiro Abdullah al-Thani nella Striscia, sia con la protezione politica – da Damasco a Doha è stata spostata la sede dell’ufficio politico in esilio di Hamas – ed economica della fazione islamista (gli al-Thani, tra le altre cose, sono stati il maggior donatore internazionale per la ricostruzione post-guerra a Gaza del luglio-agosto 2014 offrendo oltre un miliardo di dollari). Tuttavia i colloqui indiretti di pace che si tengono al Cairo sotto mediazione egiziana stanno dimostrando che, almeno nella cosiddetta ala egiziana del gruppo di Hamas, è in corso un nuovo approccio nei confronti dell’Egitto che potrebbe portare ad una normalizzazione dei rapporti tra la dirigenza islamista e il governo di al-Sisi.
Per quanto riguarda il governo dell’Anp, i tentativi di dialogo con il governo israeliano, per lungo tempo in stallo, sono stati ripresi nel luglio 2013, grazie anche all’intervento del segretario di stato americano John Kerry. L’iniziale auspicio era di raggiungere un accordo finale entro nove mesi ma, allo stato attuale, è improbabile che si arrivi a una soluzione sulla formula ‘due popoli, due stati’ che è alla base del processo diplomatico avviato a Madrid. Una delle questioni da risolvere per la costituzione statuale palestinese è relativa all’efficienza delle forze locali nel controllare i territori, dal momento che l’instabilità diffusa crea problemi anche di sicurezza interna che l’Anp fronteggia a fatica
Il 23 aprile 2014, le due amministrazioni che reggono la Palestina, Hamas nella Striscia di Gaza e Fatah in Cisgiordania, hanno firmato un accordo per unirsi in un’unica dirigenza, ribaltando il risultato delle posizioni che i due movimenti palestinesi avevano assunto nel biennio 2006-07 e concludendo quel processo di sintesi che aveva permanentemente occupato buona parte della burocrazia palestinese per quasi un anno.
L’intento – strategicamente poco apprezzato da Israele che vedeva nella frattura intra-palestinese un vantaggio anche politico – è stato quello di unire le forze, dato il periodo poco favorevole a entrambi i partiti. Negli ultimi anni, infatti, Hamas – affermatosi gradualmente nella Striscia dopo la prima Intifada del 1987 –, ha subito un progressivo declino prodotto soprattutto dalle lotte intestine ai suoi ranghi e dall’allontanamento dei suoi alleati all’estero. Il notevole consenso che era stato in grado di raccogliere attraendo le speranze dei numerosi palestinesi delusi dallo scarso peso del movimento di Abu Mazen si è andato affievolendo nel tempo anche a causa di una situazione sociale ed economica difficile all’interno della Striscia.
Dall’altra parte di Israele, in West Bank, il partito di Mahmoud Abbas non è riuscito a dare seguito ai successi conseguiti in sede di Nazioni Unite a causa, soprattutto, di una certa debolezza politica palesatasi in tutta la sua evidenza nel confronto diretto con le autorità dello stato ebraico: proprio nel giugno 2014, una settimana dopo il giuramento per il governo di unità, Tel Aviv aveva annunciato la costruzione di 3300 nuove unità abitative in Cisgiordania.
Nella struttura assunta dal nuovo governo è inevitabile constatare gli sforzi profusi da ambo le parti per conciliare il favore dell’intera comunità internazionale, compresa quella parte che ritiene Hamas un’organizzazione terroristica. Così mentre la presidenza è andata ad Abu Mazen, nessun membro del movimento islamista è stato introdotto nel nuovo gabinetto, sebbene vi siano almeno cinque ministri indicati proprio dalle forze al governo di Gaza. Anche l’intera amministrazione della Striscia è stata sottoposta al controllo del nuovo esecutivo di Ramallah. Inoltre, come parte dell’accordo, Hamas ha deciso di adeguarsi alle ‘linee rosse’ imprescindibili per la comunità internazionale: riconoscimento di Israele, pratica della non violenza e accettazione degli accordi di Oslo. Tuttavia, e come sovente accade, sono le questioni di finanza pubblica e di sicurezza che rischiano di ostacolare la liaison tra le due forze in campo e di inibire la generosità dei tradizionali donatori dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). La sempre più refrattaria macchina burocratica di aiuti che tiene in piedi l’amministrazione palestinese dovrà ora farsi carico dell’ingigantita popolazione di impiegati statali: ai settanta mila ‘lavoratori fantasma’ di Gaza che l’Anp ha continuato a pagare dal 2007 se ne aggiungono adesso altri quarantamila che sono stati sinora al servizio di Hamas. A determinare il successo della manovra di ricongiunzione sarà probabilmente il raggiungimento di un accordo sulla difesa all’indomani delle elezioni da tenere entro sei mesi dall’insediamento del nuovo governo. Il processo di cessione del controllo sul territorio da parte dell’una o dell’altra fazione politica a favore di un’entità unica palestinese sarà di difficile applicazione poiché gran parte delle unità di sicurezza risponde solo alla propria fazione di riferimento. Anche su quest’ambito Fatah e Hamas si sono adoperate per sperimentare possibili soluzioni, come la commistione temporanea delle due forze di polizia. Appurata la volontà di far funzionare la fusione in atto, a mancare è ora il suo coronamento per mezzo di elezioni legislative e presidenziali che rimangono ancora oscure in termini di possibili date. La chiamata alle urne, punto fondamentale dell’accordo, considerata indispensabile per suggellare la legittimità della nuova istituzione unificata, è ancora indefinita anche causa dei disastri strutturali provocati dall’ultima guerra tra Gaza e Israele. I continui ritardi mettono però ogni giorno alla prova la solidità dell’attuale governo che si deve misurare non solo con la creazione di una nuova entità amministrativa ma anche con la ricostruzione della Striscia – una priorità per la stabilità del nuovo esecutivo – e con il riposizionamento politico di se stesso nel convulso panorama regionale.
Hamas, acronimo di Haraka al-Muqawama al-Islamiyya traducibile con movimento di resistenza islamico, è un movimento palestinese nato nel 1987 in seguito alla prima Intifada palestinese. Fin dalla sua nascita Hamas non ha mai fatto mistero della sua diretta affiliazione con la Fratellanza egiziana, tanto che nella sua carta fondativa giunge a definirsi come ‘una delle ali dei Fratelli musulmani’ in Palestina. Suo storico leader, nonché suo primo fondatore, è stato lo shaykh Ahmed Yassin (assassinato nel 2004) da molti studiosi presentato come ‘il leader spirituale’ di Hamas. In realtà la catena di comando del movimento palestinese ha da sempre assunto forme decisamente più complesse evolvendo e modificandosi nel corso della storia. Nel 1989 i membri di Hamas potevano infatti trovarsi in quattro differenti situazioni: incarcerati nelle prigioni israeliane, nascosti nella Striscia di Gaza o in alternativa nelle città della West Bank ed infine all’estero. Essendo questi quattro punti geografi ci impossibilitati a dialogare con regolarità fra loro, vennero conseguentemente a crearsi quattro differenti leadership in realtà riconducibili a due principali raggruppamenti: la leadership interna (Gaza, West Bank e carceri) e quella esterna (i palestinesi in esilio). Hamas, almeno in teoria, sarebbe quindi dovuto divenire un movimento con un sistema decisionale multipolare dove le quattro diverse leadership avrebbero dovuto interagire fra di loro per fornire una linea politica al movimento. Tuttavia, considerate le difficoltà di comunicazione e la pesante campagna di rastrellamento israeliana in atto all’epoca, Hamas decise di spostare tutti i suoi organi decisionali, e conseguentemente tutto il suo potere, all’estero. Da quel preciso istante in poi, il centro decisionale di Hamas venne rappresentato dal suo ufficio politico in esilio, quello che viene comunemente conosciuto come Politburo e storicamente presieduto da Khaled Mesha’al, che ha avuto quasi sempre sede a Damasco. Tuttavia a seguito delle rivolte in Siria e dell’atteggiamento ostile assunto da Hamas nei confronti del presidente siriano Bashar al-Assad, il movimento ha dovuto spostare il proprio centro decisionale in Qatar. Non è un caso che all’interno del suddetto organigramma non si sia fatta menzione delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato ufficiale di Hamas la cui prima azione ufficiale risale al 14 maggio 1992. Le Brigate al-Qassam sono da sempre uno degli argomenti maggiormente controversi legati ad Hamas poiché nella loro storia sono state responsabili di attacchi terroristici nonché di attentati suicidi. La loro azione è stata particolarmente intensa durante gli anni Novanta e nel corso della seconda intifada quando attraverso il proprio braccio armato Hamas esprimeva il proprio netto dissenso ed il proprio rifiuto del cosiddetto ‘processo di pace arabo-israeliano’ fortemente sponsorizzato dagli Stati Uniti d’America. Tuttavia, al fianco dell’azione militare, Hamas ha inserito un vero e proprio jihad politico partecipando, dal 2004, ad elezioni municipali e legislative ed affiancando all’ormai consolidata prassi militare una nuova strategia di partecipazione politica che gli permise di ottenere una clamorosa vittoria elettorale, ottenuta in libere elezioni, per il controllo dei seggi dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) nel 2006. Tuttavia quell’inedito esperimento di gestione del potere e delle strutture statali fallì dopo pochi mesi producendo un aggravamento nelle relazioni con Fatah per il controllo dell’Anp nonché intensificando lo scontro con Israele. Uno sconto che, pur banale a dirlo, ha assunto toni progressivamente sempre più drammatici. Basta scorrere l’elenco delle più recenti operazioni militari israeliane all’interno della Striscia di Gaza per fornire un quadro dell’intensità del conflitto: Operation Cast Lead (2008-09), Operation Pillars of Cloud (2012), Operation Protective Edge (2014). In tutte e tre le operazioni il numero di civili deceduti (in maggioranza palestinesi) è stato altissimo, ma certamente il bilancio di Protective Edge rimane per ora il più alto di tutti con oltre 2000 morti e circa 10.000 feriti quasi tutti sul versante palestinese. Paradossalmente l’ultimo, sanguinoso, conflitto ha permesso ad Hamas di riconquistare parte del sostegno da parte della popolazione la quale, di fronte a quella che hanno considerato come l’ennesima aggressione israeliana all’interno della Striscia di Gaza, ha finito con il sostenere sempre più convintamente il progetto di resistenza del movimento islamico. Una fiducia certamente a tempo, dettata dall’eccezionalità del momento, ma che ha mostrato quanto la resistenza possa rappresentare un valore ancora appetibile nella mobilitazione del consenso. Del resto Hamas ha investito moltissimo in nuove e più efficaci tattiche militari negli ultimi anni e durante l’ultimo conflitto con Israele ne ha mostrata tutta l’efficacia. Non solo ha potuto utilizzare droni e nuovi missili di lunga gittata, ma ha implementato notevolmente la propria strategia comunicativa rendendo il proprio sforzo militare intellegibile ai palestinesi come anche agli occidentali. Questo soprattutto attraverso un sito, quello proprio delle Brigate al-Qassam, rinnovato nei contenuti e nella grafica il cui upgrade ha mostrato un’attenzione all’ambito mediatico finora mai troppo sviluppato rispetto a quello militare.