Paletnologia
Il termine paletnologia ha una lunga tradizione in Italia: risale alla seconda metà del 19° sec., quando fu coniato per esprimere l'esigenza di studiare le società preistoriche tenendo presenti finalità analoghe a quelle delle discipline etnologiche. Il collegamento era particolarmente forte in una prospettiva culturale di tipo evoluzionista, che vedeva la possibilità di stabilire parallelismi tra le società del passato e quelle del presente il cui sviluppo era considerato più lento.
Agli albori del terzo millennio tale prospettiva evoluzionista semplificata non trova più consensi, ma l'esigenza di un collegamento stretto con le discipline etnoantropologiche è ancora viva. Il problema non appare più quello di collocare ogni situazione preistorica analizzata in un determinato stadio evolutivo ma, in maniera analoga agli studi etnoantropologici, di cercare di definire i caratteri collettivi di un contesto culturale e le variazioni individuali nei confronti di esso. Lo studio di ambiti preistorici, infatti, nonostante le proposte avanzate da I. Hodder e altri autori dell'indirizzo postprocessuale nel corso degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, di accentrare direttamente l'attenzione sull'azione individuale, non può non avere in prima istanza una connotazione di ricerca delle norme sociali e dei comportamenti condivisi da un gruppo umano nel suo insieme. Questo non è legato solo al problema della difficoltà di individuare le azioni dei singoli nel caso di contesti preistorici, ma soprattutto al fatto che sono i fenomeni di compartecipazione che caratterizzano il gruppo umano stesso e i suoi rapporti sociali interni e con altri gruppi. Anche l'incidenza di fattori individuali (intesi in senso lato, non tanto come legati a singoli, ma piuttosto a sottogruppi, basati sulla parentela, su insiemi divisi per sesso ed età, su attività diversificate, su luoghi di residenza differenziati) può essere oggetto di studio, ma proprio con lo scopo di comprendere meglio il grado di adesione, che in genere non è mai totale, ai vari aspetti tendenzialmente condivisi.
Un problema spesso di difficile soluzione e che è al centro del dibattito degli anni Novanta del 20° sec. è quello di definire i limiti del contesto in cui avvengono i fenomeni di condivisione culturale. Questo aspetto riporta al problema del concetto di cultura, che unifica la p. con le discipline etnoantropologiche: da una parte tale concetto esprime la capacità dei gruppi umani di affrontare, attraverso forme socialmente accettate, i rapporti con l'ambiente e con gli altri gruppi umani, dall'altra rimanda a insiemi reali di individui legati da vincoli sociali che condividono tali specifiche forme. Ma se da un lato è chiaro il legame tra relazioni sociali e condivisione culturale ed è plausibile pensare che i diversi elementi culturali siano tra loro funzionalmente collegati, nelle applicazioni concrete, in campo etnoantropologico e, ancor più, per ovvi motivi, in quello paletnologico, non è facile dare limiti precisi alle singole culture, mentre i confini della distribuzione spaziale dei diversi elementi e comportamenti culturali individuati possono non coincidere. Questo fenomeno di non coincidenza è reso possibile dal fatto che nelle singole situazioni le relazioni funzionali tra gli elementi così come i loro significati possono subire aggiustamenti locali. Da questo deriva che il concetto di cultura in quanto tale resta valido, dal momento che esso mantiene di volta in volta i suoi caratteri di mezzo che consente l'adattamento dei gruppi umani, mentre l'individuazione di specifiche culture come insiemi di modelli di comportamento condivisi da più nuclei di individui socialmente correlati in un determinato periodo e territorio deve essere presa unicamente come un'approssimazione imprecisa alla realtà.
L'espressione identità culturale, attraverso la quale si vuole spostare l'attenzione sul senso di consapevolezza dell'appartenenza a un gruppo da parte di un insieme di individui, esplicitamente espresso per mezzo di comportamenti e di norme che vengono condivisi, è anch'esso ripreso da tendenze contemporanee dell'etnoantropologia.
Se da un lato tale espressione può avere il vantaggio di porre in evidenza l'interesse per il punto di vista degli 'attori' del passato, più che l'esigenza classificatoria degli studiosi, dall'altro rischia di spostare il problema su un argomento per il quale la verifica in campo paletnologico non è attuabile. Possiamo infatti cercare di individuare insiemi di modelli di comportamento condivisi, ma non è detto che vi sia una totale coincidenza di tutti gli elementi: solamente alcuni, infatti, potevano essere caricati di un particolare valore di identificazione culturale, insieme con altri che, a livello archeologico, possono non essersi conservati. Questo non significa che l'unica alternativa possibile sia quella di operare classificazioni dei diversi insiemi culturali, ignorando il problema del punto di vista di chi si sentiva partecipe di un determinato sistema culturale, ma che bisogna essere consapevoli da un lato delle difficoltà insite nei tentativi di riconoscere attraverso i resti archeologici nuclei di individui che si identificavano come compartecipi di una cultura (ovviamente usando termini diversi da questo), dall'altro che, in situazioni di ridotta mobilità e limitate forme di scambio di comunicazione a largo raggio, tale senso di identificazione poteva non essere interessato a percepire l'intera estensione di situazioni culturalmente affini. Nel condurre queste operazioni di ricerca la p. condivide le difficoltà delle altre discipline storiche: non tutte le ipotesi sono sullo stesso piano e hanno le stesse probabilità di essere valide, ma vanno esplicitati gli elementi a favore o contrari a quelle prese in considerazione, senza poter raggiungere certezze definitive.
Un'altra prospettiva che accomuna la ricerca etnoantropologica e quella paletnologica e che negli anni Novanta del 20° sec. ha visto una ripresa di interesse è quella del comparativismo. Dopo lo scetticismo seguito a forme troppo semplificate di trasferimento a specifici contesti preistorici delle conoscenze acquisite su singole realtà di interesse etnografico, dopo la critica ai tentativi della New Archaeology di formulare leggi di comportamento transculturali e dopo la limitazione imposta dalla tendenza postprocessuale a utilizzare il confronto di fatto solo per tenere presente che possono esistere molte soluzioni alternative a un determinato problema, la comparazione si sta affermando come strumento di migliore comprensione di una determinata situazione, se si pongono in evidenza somiglianze e differenze con altre (anche se note solo in base a dati archeologici) e si cerca di capire i motivi di tali variazioni. Si tratta quindi di andare oltre la prospettiva etnoarcheologica intesa in senso stretto, che pure ha una sua utilità per acquisire dati tecnologici di base (v. preistoria), per porre a confronto interi sistemi culturali o ampi aspetti di essi, considerati nelle loro specificità e difformità, e non per colmare le lacune della documentazione dei contesti archeologici.
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