PALLAVICINO TRIVULZIO, Giorgio Guido
PALLAVICINO TRIVULZIO, Giorgio Guido. – Nacque a Milano il 24 aprile 1796 dal marchese Giorgio Pio e dalla contessa Anna Besozzi.
A sette anni perse il padre e fu collocato in collegio, esperienza che gli fu sgradita per l’eccesso di pratiche religiose e per l’insegnamento «superficiale e pedantesco» (Memorie, I, p. 4). Dopo una serie di viaggi intrapresi, a partire dal 1814, in Italia e in vari paesi europei, nel gennaio 1821 fu affiliato alla società segreta dei Federati da Federico Confalonieri, su incarico del quale, allo scoppio della rivoluzione piemontese, andò con Gaetano Castillia a Novara, presso il generale Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, al fine di sollecitarne l’intervento contro l’Austria. Fu quindi a Torino, dove con altri delegati lombardi ebbe un colloquio con Carlo Alberto, ricevendone assicurazione, secondo quanto confessò alle autorità (ma è diversa la versione data nelle Memorie), che la loro causa gli era sacra. Dopo una breve fuga in Svizzera, al ritorno a Milano seppe dell’arresto di Castillia, e si recò dalla polizia per scagionare l’amico. Fu l’inizio di un percorso nel quale il giovane marchese, complici la sua natura impetuosa e l’abilità degli inquisitori, avrebbe fornito rivelazioni – che inutilmente tentò in seguito di sconfessare fingendosi pazzo – tali da compromettere definitivamente sé stesso e Confalonieri. Fu così condannato a venti anni di carcere duro e rinchiuso dapprima allo Spielberg, quindi a Gradisca e Lubiana, dove le sue condizioni fisiche e psichiche si fecero precarie.
Fu liberato nel 1835, su concessione del nuovo imperatore Ferdinando I, e riuscì a ottenere lo scambio della prevista deportazione in America con il confino a Praga. Lì conobbe e sposò Anna Koppmann, che ne avrebbe condiviso la passione patriottica e da cui ebbe la figlia Anna.
Rientrato in Lombardia, si ritirò nel castello di famiglia di San Fiorano, nel Lodigiano, fino alla rivoluzione del 1848, durante la quale, mentre la piccola Anna era dipinta da Giuseppe Molteni con la divisa delle Cinque giornate, egli propugnò la necessità della fusione «ma sincera, ma totale» col Regno di Sardegna (Memorie, I, p. 229). Con la restaurazione austriaca si rifugiò a Torino, deciso a valersi del suo consistente patrimonio e dei rapporti intrecciati nei frequenti viaggi a Parigi con uomini politici francesi e con gli esuli lì confluiti per promuovere le sue idee sulla questione italiana, alle quali tenne fede per tutta la vita.
A tal fine, oltre a finanziare generosamente fogli come L’Opinione, cercò di coltivare la sua fama di martire, rinsaldata dal sequestro dei suoi beni operato dal governo austriaco nel 1853, pubblicando un volume di ricordi del carcere (Spilbergo e Gradisca, Torino 1856). Fu decisamente ostile a Mazzini, il cui programma riteneva inadeguato a raggiungere l’unità, e puntò sul Regno sardo, in quanto fornito di ordinamenti costituzionali, di un esercito in grado di affrontare le armate austriache e di un sovrano del quale enfatizzò la disponibilità e l’interesse a servire la causa nazionale. Era però necessario vincere le resistenze municipalistiche allora molto forti in Piemonte. Su questo terreno avvenne l’incontro con Vincenzo Gioberti, il cui Rinnovamento civile d’Italia del 1850 mostrò significative consonanze con le sue vedute, in particolare circa il destino additato al Piemonte e a Vittorio Emanuele II, del quale il filosofo ammise di aver parlato, in una lettera a Pallavicino, «come potreste parlarne voi» (Memorie, II, p. 434).
Accostatosi a Daniele Manin, cercò di convincerlo a porsi alla testa dei repubblicani ‘savi’, disposti a un compromesso con la monarchia in nome di un programma di indipendenza nazionale. Una volta che questi ebbe accettato la proposta e lanciato pubblicamente il partito nazionale, Pallavicino si definì il suo ‘luogotenente’, riconoscendo le superiori capacità politiche dell’esule veneziano.
Oltre a incitarlo ripetutamente a intervenire nel dibattito, soprattutto per sventare i progetti volti a collocare un Murat sul trono di Napoli, ne condivise l’acuta percezione dell’importanza di agire sull’opinione pubblica italiana e internazionale, e lo difese apertamente dalle critiche suscitate dall’attacco a Mazzini, che Manin sul Times del 25 maggio 1856 aveva accusato di teorizzare l’omicidio politico.
Non furono facili, viceversa, i rapporti di Pallavicino col governo piemontese e con il ceto politico sabaudo. Deputato nella II, IV, V e VI legislatura, si schierò spesso all’opposizione e si pronunciò contro l’intervento in Crimea, anche se dopo il congresso di Parigi mutò parzialmente opinione su Cavour, che aveva giudicato ‘piemontesissimo’. Fu Cavour a presentargli Giuseppe La Farina, uomo di spiccate doti organizzative, che tentò di dare una struttura al partito nazionale e lo trasformò nella Società nazionale italiana, divenendone segretario e conferendole un’impronta moderata. Al marchese, che ne fu presidente dopo la morte di Manin, restò il ruolo, che più gli si addiceva, di infaticabile propagandista, di finanziatore del Piccolo Corriere d’Italia di La Farina, e di tessitore di relazioni, in primis con Garibaldi, la cui adesione alla Società nazionale le assicurò più vasti consensi.
Lo scoppio della seconda guerra d’indipendenza lo indusse a sciogliere la Società, i cui fini gli parevano ormai raggiunti; si irritò quindi per la decisione di La Farina di ricondurla in vita dopo l’armistizio di Villafranca, nonostante il suo parere contrario, motivato dalla convinzione che essa non fosse più in grado di svolgere un ruolo significativo, ma anche dalla consapevolezza che essa era ormai uno strumento nelle mani di Cavour. Percepì inoltre la nomina a senatore, nel febbraio 1860, come un modo per emarginarlo dalla vita politica.
Ormai in rotta con lo statista piemontese, come mostrò anche il suo discorso di condanna, in Senato, della cessione di Nizza e Savoia alla Francia, nel settembre 1860 Pallavicino fu chiamato a Napoli da Garibaldi, che ne ottenne la nomina a prodittatore e lo inviò, senza risultato, presso il sovrano a chiedergli le dimissioni del ministero Cavour. Al suo ritorno ebbe un durissimo scontro col generale e con Francesco Crispi e altri democratici sulla questione del plebiscito d’annessione, al quale egli era decisamente favorevole, ritenendo che la proposta di convocare un’assemblea per stabilire le condizioni di unione delle province meridionali al Piemonte potesse provocare una guerra civile. In questo senso scrisse una lettera aperta a Mazzini per esortarlo ad abbandonare Napoli, poiché riteneva la sua presenza fonte di pericolose divisioni. Forte dell’appoggio della guardia nazionale e di ripetute manifestazioni in favore del plebiscito svoltesi a Napoli, riuscì a far prevalere la sua volontà e a sopprimere la segreteria generale della Dittatura garibaldina e i pieni poteri dei governatori delle province, mossa invano contrastata da Crispi.
La formula da lui concepita, «il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale», avrebbe dovuto garantire l’impegno del sovrano «di fare l’Italia – come gli avrebbe ricordato in una lettera da Pegli del 30 gennaio 1865 – colla sua Venezia e colla sua Roma» (Salazaro, 1866, p. 112). Cavour, pur avendo visto con scetticismo la nomina di Pallavicino a prodittatore, ammirò la fermezza di cui diede prova in quella circostanza, e ottenne dal re che gli fosse conferito il collare dell’Annunziata.
La successiva, breve e drammatica esperienza palermitana sancì la riconciliazione di Pallavicino con Garibaldi. Nel 1862 fu, infatti, nominato dal presidente del Consiglio Urbano Rattazzi prefetto della città, in preda a gravi disordini: una scelta che non si rivelò felice, in quanto Pallavicino non seppe padroneggiare una situazione incandescente, né d’altro canto la sua fedeltà al generale gli avrebbe consentito di frenarlo nell’intento, peraltro anche suo, di portare a termine l’unificazione con una rivoluzione. Perorò la necessità di collaborare col partito d’azione, «tutto garibaldino», attribuendo le difficili condizioni dell’ordine pubblico alle trame di murattiani, autonomisti e borbonici: convinzione che del resto era stata condivisa – relativamente al pericolo borbonico – dallo stesso luogotenente Massimo Cordero di Montezemolo e da altri prefetti in Sicilia. Fu inoltre accanto a Garibaldi quando questi si scagliò pubblicamente contro Napoleone III e mostrò di non accorgersi che il reclutamento di truppe, anziché una ventilata impresa oltre Adriatico, aveva di mira Roma. Il suo comportamento contribuì ad accreditare il consenso governativo all’impresa garibaldina che si sarebbe infranta di lì a poco ad Aspromonte. Quando fu chiaro che Rattazzi aveva deciso di far intervenire l’esercito, Pallavicino si dimise e, in seguito alle polemiche suscitate dalla sua condotta, pubblicò alcune missive inviate al presidente del Consiglio nel mese di giugno, ove gli ricordava «i principi incrollabili», a lui ben noti, che lo sorreggevano, e da cui non intendeva derogare nell’amministrazione della provincia (Due lettere di G. P., Torino 1862).
Nel 1864 pronunciò un duro discorso in Senato contro la Convenzione di settembre, interpretata come un segno di subordinazione ai voleri di Napoleone III (La convenzione del 15 settembre 1864, Torino 1864), e di una politica rinunciataria nei confronti delle ambizioni italiane; giudizio che ribadì, dopo Custoza, nei confronti di Bettino Ricasoli (L’Italia nel 1867, Firenze 1867). L’abbandono, di fatto, dell’attività parlamentare si accompagnò a una rinnovata iniziativa rivoluzionaria, a cui ripetutamente aveva esortato il partito d’azione, che avrebbe però dovuto abbandonare qualsiasi compromesso coi mazziniani. Operò quindi di concerto con Garibaldi, ospite a San Fiorano in vista della spedizione nello Stato pontificio, e si recò a Firenze presso il Comitato centrale di soccorso per l’insurrezione romana, di cui fece parte con Benedetto Cairoli, Crispi e altri democratici.
Nel novembre 1867, con la sconfitta di Mentana, si spense momentaneamente il sogno di Roma, ma al raggiungimento della meta tanto desiderata nel 1870 corrispose per Pallavicino, come per altri vecchi patrioti, la sensazione di un’occasione mancata.
Deluso dalla monarchia, di cui lamentò gli esorbitanti appannaggi, tornò a vagheggiare gli antichi ideali repubblicani, che però erano stati sempre per lui un’aspirazione retorica piuttosto che un concreto obiettivo politico. Lo preoccupava l’avanzata del socialismo, tanto più dopo l’adesione di Garibaldi alle idee dell’Internazionale, nelle quali, all’indomani della Comune, egli vedeva un gravissimo pericolo e la negazione dell’idea di patria. Il problema sociale, di cui fu consapevole, andava affrontato con la carità e con l’istruzione, necessaria anche per consentire un allargamento del suffragio elettorale, in consonanza con il programma della Sinistra storica.
Morì a Genestrelle (Casteggio), nel Pavese, il 4 agosto 1878.
Fonti e Bibl.: L’archivio della famiglia Pallavicino Trivulzio, conservato a San Fiorano (Lodi) da Guido Barbiano di Belgioioso, non è attualmente consultabile. Le Memorie, in tre volumi, pubblicate per cura della moglie e della figlia (Torino 1882-95), con l’introduzione – non firmata – di Francesco Carrano, riproducono opuscoli a stampa, molta parte dell’epistolario di Pallavicino, oltre ai più significativi interventi parlamentari fino al 1860. In precedenza, egli stesso aveva promosso la pubblicazione delle lettere scambiate con Manin (Daniele Manin e G. Pallavicino. Epistolario politico, 1855-1857, Torino 1859) e con Gioberti (Il Piemonte negli anni 1850-51-52. Lettere di Vincenzo Gioberti e G. P., a cura di B.E. Maineri, Milano 1875), provocando, segnatamente con queste ultime, reazioni negative per le aspre critiche rivolte a illustri piemontesi accusati di municipalismo. Anche la pubblicazione delle Memorie suscitò perplessità per l’esagerazione di taluni giudizi, soprattutto contro l’amministrazione asburgica, che apparivano, nel mutato quadro di alleanze italiane, troppo segnate dalle sofferenze personali e dal contesto battagliero in cui erano maturate (C. Negri, Le memorie di G. P.,Torino 1882). Lettere di Pallavicino e a lui dirette, in gran parte edite, sono conservate in svariati archivi, tra i quali quelli dei musei del Risorgimento di Torino, Milano e Roma. In occasione del centenario garibaldino, è stato pubblicato l’ampio carteggio fra il generale e Anna Pallavicino Trivulzio: Lettere inedite di Giuseppe Garibaldi alla marchesa Anna Pallavicino, a cura di G. Praticò, Pavia 1982. Si vedano inoltre: Il fondatore della Società nazionale (lettere autografe di G. P. a F. Foresti, 1856-1858), a cura di G. Maioli, Roma 1928; G. Fonterossi, Garibaldi e la lettera gratulatoria a Sir Enrico Richard (lettere inedite di Garibaldi, F. D. Guerrazzi e G. P.), Roma 1932; Id. La politica della Destra nel carteggio inedito di due oppositori (G. P. T. e Francesco Domenico Guerrazzi), in Gli Stati italiani e l’Europa nel Risorgimento, Atti del XXIV Congresso di storia del Risorgimento italiano, Roma 1941, pp. 88-89; M. Restaldi, La politica piemontese tra il 1849 e il ’53 nelle lettere di Aurelio Bianchi Giovini a G. P., in Dal Piemonte all’Italia. Studi in onore di Narciso Nada nel suo settantesimo compleanno, a cura di U. Levra - N. Tranfaglia, Torino 1995, pp. 219-232. Tra le prime biografie, di tono celebrativo è quella di Baccio Emanuele Maineri (G. P.T., in Il Risorgimento italiano, a cura di L. Carpi, I, Milano 1884, pp. 341-375), un letterato specializzatosi nella celebrazione dell’epopea risorgimentale e garibaldina, legato a Pallavicino da devozione filiale (G.L. Bruzzone, G. P.T. ed il suo biografo:due patrioti trascurati, in Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze e lettere, Classe di lettere e scienze morali e storiche, CXXIV [1990], pp. 21-41). Su alcune fasi della vita politica di Pallavicino si soffermano B. Caranti, suo segretario (Alcune notizie sul plebiscito delle provincie napolitane, Torino 1864) e D. Salazaro (Cenni sulla rivoluzione italiana del 1860, Napoli 1866), che lo difende dalle accuse mossegli per il comportamento tenuto a Palermo (P.C. Boggio, Una pagina di storia, Torino 1862). A. Sandonà, Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg (Torino 1911), ne mette, invece, in risalto, grazie alle fonti conservate negli archivi austriaci, errori e debolezze palesate dopo l’arresto e nella prigionia; giudizi parzialmente attenuati da L. Fiori, Il marchese G. T.P. (1796-1878), in Rass. stor. del Risorgimento, XIII (1926), 3, pp. 535-580; 4, pp. 747-786. Del ruolo svolto nella Società nazionale trattano: R. Grew, A sterner plan for Italian Unity. The Italian National Society in the Risorgimento, Princeton NJ 1963, ad ind.; R. Ugolini, La via democratico-moderata all’Unità: dal «Partito Nazionale Italiano» alla «Società Nazionale Italiana», in Correnti ideali e politiche della Sinistra italiana dal 1849 al 1861, Firenze 1978, pp. 185-211. Alla prodittatura accenna D. Mack Smith (Garibaldi e Cavour nel 1860, Torino 1958, ad ind.), mentre delle vicende del Comitato centrale di soccorso, ove peraltro la sua attività non ebbe particolare spicco, tratta A. Scirocco (I democratici italiani da Sapri a Porta Pia, Napoli 1969, pp. 52, 66, 79, 175, 212, 309, 398, 413). Sul rapporto con Manin e sull’organizzazione del plebiscito napoletano: R. Sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Roma-Bari 2000, pp. 209 s., 229-231; A. Ventura, L’opera politica di Daniele Manin per la democrazia e l’unità nazionale, in 1848-1849 Costituenti e costituzioni. Daniele Manin e la repubblica di Venezia, a cura di P.L. Ballini, Venezia 2002, pp. 272-275, 286-297; G.L. Fruci, Il sacramento dell’unità nazionale. Linguaggi, iconografia e pratiche dei plebisciti risorgimentali (1848-1870), in Storia d’Italia (Einaudi), Annali 22, Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti - P. Ginsborg, Torino 2007, pp. 591-603. Infine, per l’attività parlamentare: Camera dei deputati, Portale storico, ad nomen (http://storia.camera.it); Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale Senatori d’Italia, I, Senatori del Regno di Sardegna: http://notes9.senato.it/web/senregno.