ALTIERI (Paluzzi degli Albertoni), Paluzzo
Discendente dalla famiglia romana degli Albertoni, che non era di prim'ordine e nemmeno ricca, ma nel novero della vecchia nobiltà, nacque l'8 giugno 1623 e si distinse già nel corso degli studi universitari a Perugia, dove si laureò in legge, cosicché papa Urbano VIII lo iscrisse subito tra i suoi chierici di camera. Dimostrò e confermò doti non comuni d'intelligenza, laboriosità, destrezza nei grandi affari e anche onestà di costumi, ricoprendo diverse cariche amministrative; Innocenzo X lo stimava degno di assurgere al cardinalato, ma la giovanile spregiudicatezza con cui biasimava le azioni di alti prelati lo rendeva inviso a molti.
La sua fortunata carriera incominciò e fu consolidata sempre più per opera del cardinale Flavio Chigi, che dapprima lo fece promuovere uditore di camera del papa Alessandro VII e poi contribuì autorevolmente alla sua elezione cardinalizia, decisa in pectore il 14 genn. 1664 e pubblicata solo il 15 febbr. 1666 per ovviare alla persistente ostilità di quanti si ritenevano offesi dai suoi intemperanti giudizi; pure nel 1666 gli fu conferito il vescovato di Montefiascone e Corneto, perché "non aveva con che sostenersi". Amministrò per alcuni anni quella diocesi con lodevole spirito d'iniziativa. Fu ancora il cardinale Chigi a schiudergli l'accesso ai fastigi della Curia, perché gli ottenne durante il conclave l'adozione e quindi la nomina a cardinale nepote da parte di Clemente X; questi per non lasciar estinguere la propria famiglia, Altieri, aveva già adottato l'anno precedente 1669 Gaspare Albertoni, marito della sua pronipote Lauta Caterina, e nel 1670 adottò anche il padre di lui, Angelo, oltre allo zio cardinale Paluzzo che appunto da allora si chiamò cardinale Altieri.
Il cardinal nepote si assicurò la fiducia del papa non soltanto per l'alacrità negli affari di stato, ma anche prodigandosi a soddisfare la premura del vecchio pontefice per il bene dei sudditi, soprattutto in occasione di pubbliche calamità, come il violento incendio del dicembre 1670 e un 'inondazione del Tevere, oppure dichiarandosi disposto a rinunciare agli onorari quale sopraintendente generale.
Non stupisce, perciò, che l'ambasciatore veneto Antonio Grimani nella relazione fatta al Senato (1671) parli, nel complesso, bene del cardinak A., "degnamente adornato della veste di prima figura" e che si faceva stimare per la "venerazione esemplare verso la madre" cui faceva visita ogni giorno, chiedendone la benedizione, ovunque poi "sostenendosi tra il nobile et il prudente".
Qualche anno dopo, invece, l'A. veniva biasimato aspramente da molti; tale biasimo derivava, m parte, dall'invidia verso quel "portento della fortuna" che in così poco tempo da povero chierico era "divenuto il più riguardabile soggetto di Roma" con una rendita annua che superava i 100.000 scudi, poiché per una serie di circostanze si erano accumulati su di lui importanti e lucrosi uffici.
Ottenne anzitutto il vicariato di Roma, rimasto vacante per la morte del cardinale Marzio Ginetti; poco dopo nel 1671 divenne camerlengo di S. Chiesa, succedendo al cardinale Antonio Barberii, e inoltre segretario dei brevi, prefetto di Propaganda, protettore del santuario di Loreto, d'Irlanda, degli Ordini agostiniano, carmelitano e domenicano, legato di Avignone e di Urbino, governatore di Tivoli. Tanti e così onerosi incarichi erano certo eccessivi per la sua "complessione delicata e debole" e non soltanto lo invecchiavano precocemente, ma accentuavano l'irascibilità e altri difetti dell'indole sua; fu giudicato megalomane e accaparratore di laute prebende, come la ricca pensione assegnatagli nel 1674 quando rinunciò all'arcivescovato di Ravenna, che aveva assunto nel 1670 lasciando il vescovato di Montefiascone. In realtà lo sospingevano a procurarsi sempre maggiori profitti le famiglie dei Colonna e degli Orsii, dove si erano accasate splendidamente le sue nipoti, mentre il fratello Angelo lo sollecitava a fare del palazzo Altieri uno dei più grandiosi di Roma.
Per ampliare il palazzo Altieri, nel rione Pigna, furono acquistate alcune case vicine, che vennero atterrate. La sua sistemazione fu affidata ad Antonio De Rossi; esso fu sontuosamente abbellito con preziose statue e pitture di artisti famosi; papa Clemente X contribuì alle spese con 2000 scudi al mese per sei anni; per il resto pensò l'A., che provvide pure ad arricchirne la biblioteca con un gran numero di libri e di manoscritti, affidandone il razionale riordinamento al dotto Cartari, archivista di Castel S. Angelo, e lasciandola aperta al pubblico. Si calcola che complessivamente sia stato speso non meno di un milione di scudi.
Quanto agli affari pubblici, il cardinale nepote era divenuto ben presto cardinale padrone, al punto che si diceva comunemente per Roma che benedire e santificare era del papa, reggere e governare dell'A.; ma esageravano quelli che sottolineavano soltanto gli aspetti negativi e una nefasta invadenza. In un primo tempo i giudizi sull'intraprendenza dell'A, erano stati benevolmente equanimi e l'ambasciatore veneto Grimani aveva riconosciuto: "Fa il possibile perché non resti, dall'età e dalle condizioni soavi del pontefice, pregiudicato il rispetto del governo, et con li principi sin qui non tralascia d'esercitar quelle parti che sono da prudenza consigliate". D'altra parte, la memoria dell'ottuagenario papa lasciava spesso a desiderare ed era opportuno evitare gli inconvenienti lamentati di promesse fatte a diversi postulanti sugli stessi benefici; perciò l'A. aveva limitato il più possibile le udienze private e, prima di ammettere qualcuno, si faceva esporre i motivi della visita e avvertiva anche gli ambasciatori di mantenersi sulle generali. Il cardinale segretario di stato Federico Borromeo e, dopo la reggenza di tale carica da parte dello stesso A. (quando il Borromeo morì il 19 febbr. 1673), il successore Francesco Nerli coadiuvarono di buon accordo l'A. per evitare che il vecchio papa fosse turbato da troppo allarmanti notizie della situazione internazionale; talvolta però l'A. si assunse l'arbitrio di pericolose iniziative diplomatiche, tanto più imprudenti in quanto gli mancava un'esperienza diretta delle corti europee per non aver esercitato alcuna nunziatura, anzi non essendo mai uscito dallo Stato pontificio.
La diplomazia francese, o francofila come quella veneziana, lamentava che l'A. parteggiasse per la Spagna e, quindi, sospettava di ogni sua azione; da parte loro, gli Spagnoli si mostravano malcontenti affermando di non ottenere più favori da Roma. La tracotanza dell'ambasciatore di Luigi XIV presso la S. Sede, duca d'Estrées, era tale che nell'udienza del 21 maggio 1675 tentò perfino d'intimidire il papa se non avesse proceduto alla nomina di altri cardinali francesi e ostentò la potenza militare del suo re, ricordando minacciosamente che la flotta francese si trovava allora ancorata a Civitavecchia; anzi, dopo aver violentemente inveito contro l'A., non si astenne dall'accusare lo stesso Clemente X di aver mancato alle promesse fatte, provocando così l'energico e giusto risentimento del vecchio papa.
Il grave dissidio fra l'ambasciatore francese e l'A. era incominciato nell'autunno dell'anno precedente, quando l'11 sett. 1674 era stato imposto un dazio del 3 % su tutte le merci straniere da introdursi in Roma, abolendo anche la franchigia doganale che godeva il corpo diplomatico e di cui abusava spudoratamente il d'Estrées, per sopperire alle sue difficoltà finanziarie, a danno delle finanze pontificie.
In quell'occasione l'ambasciatore di Luigi XIV era riuscito a coalizzare gli ambasciatori spagnolo e veneziano, nonché quello asburgico, facendo divulgare satire e libelli contro il governo del cardinai nepote. Clemente X, venuto a conoscenza dell'increscioso episodio, si preoccupò di comporlo rapidamente facendo ritirare l'editto contestato e ristabilendone uno più conciliante emanato il 28 giugno 1674; se in tal modo falliva il piano del d'Estrées di distruggere l'onnipotenza dell'A., tuttavia gli era riuscito di umiliarlo e di aumentare la schiera dei suoi nemici. In quegli stessi mesi il cardinal nepote suscitò imprudentemente il risentimento della regina Cristina di Svezia, trascurando la sua presenza all'apertura della porta santa nel Natale del 1674 e alla benedizione dell'Agnus Dei e, specialmente, rifiutandole una visita al papa per la Pasqua del 1675; l'A. fu costretto a farle visita per scusarsi e la regina colse l'occasione per manifestare il suo disprezzo e trattarlo con durezza. Durante l'anno giubilare 1675 si revocò per sempre la concessione, fatta nel 1671 dall'A., di tenere corride nel Colosseo.
Nell'ultimo anno di vita di Clemente X la fama del cardinal nepote fu ancor più denigrata dai suoi nemici; così l'ambasciatore Pietro Mocenigo, che non dimenticava i contrasti avuti con l'A., faceva sul suo conto apprezzamenti evidentemente ispirati dall'ira, prestando credito alle voci che lo tacciavano come cultore di astrologia ed esagerando i difetti della sua falsa "cortesia romanesca" e l'incostanza del suo carattere.
Se tali giudizi sono esagerati, tuttavia sta di fatto che l'A. fu in parte vittima di adulatori, che lo consigliavano di trascurare le minacce e gl'interessi dei principi per attendere piuttosto ad assicurarsi "un partito di proprie creature nel sacro collegio"; era anche circuito da spudorati profittatori. D'altra parte, le adulazioni alignavano facilmente nell'animo suo per la smoderata ambizione che l'aveva accecato dopo l'inaspettata nomina a cardinal nepote, cosicché non gli era parso eccessivo far raccomandare la candidatura del nipote Gaspare nientemeno che al trono di Polonia nel 1674, ma lo stesso nunzio Buon-visi l'aveva subito respinta come assurda; inoltre, sottovalutando la suscettibilità del principe Alessio di Mosca, gli aveva negato il titolo di czar e così aveva compromesso irrimediabilmente, nel 1672, l'auspicata crociata generale della cristianità contro l'impero ottomano.
Invece nella politica interna il governo dell'A. ebbe iniziative abbastanza positive, anche se non riuscì a riassestare il grave e cronico deficit finanziario: favorì l'incremento delle arti della lana e della seta, vietò la distruzione del patrimonio boschivo, provvide ad assicurare un trattamento meno disumano ai braccianti agricoli, senza contare le opportune prescrizioni per impedire la simonia nell'autenticazione, resa obbligatoria il 30 luglio 1672, delle reliquie tratte dalle catacombe. Qualche benemerenza è, quindi, giusto riconoscere senza indulgere alle apologie di quanti lo adularono finché fu in auge, ma nemmeno accettare acriticamente le infamanti invettive di altrettanto interessati avversari; così non può essere annoverata a semplice vanità nobiliare la bella statua, in atteggiamento misticamente ispirato, di cui fece adornare in S. Francesco a Ripa la tomba di Ludovica Albertoni, proclamata beata il 28 genn. 1671; come neppure può essere biasimato il consenso che diede al nunzio Buonvisi di trattare, se non cordialmente, almeno umanamente con i delegati protestanti.
Dopo la morte di Clemente X (22 luglio 1676) la fortuna dell'A. si ridimensionò, ma non subì gravi contraccolpi. La sua autorità fu quasi determinante nei conclavi successivi; poiché lo avversavano i cardinali francesi e quelli veneziani, rendendo vana ogni sua speranza e tentativo di pacificarsi con loro, si accordò con il partito spagnolo e contribuì a far riuscire la candidatura del cardinale Odescalchi.
Questi, eletto papa Innocenzo XI, non nascose di aver disapprovato la politica dell'A. verso la Russia e riaprì le trattative per una grande lega cristiana contro i Turchi, che risultò inattuabile per la reciproca insuperabile diffidenza di Polacchi e Russi; ma si trovò d'accordo con l'A. nel proporre una bolla, avversata dalla Spagna, contro il nepotismo (maggio 1677) e nel respingere gli articoli gallicaili proclamati dall'assemblea del clero francese nel 1682, come pure l'editto di Luigi XIV sulle regalle.
Nel conclave del 1689 l'A. cooperò con il cardinale Chigi per far eleggere il cardinale Ottoboni, che assunse il nome di Alessandro VIII, al cui capezzale poi (4 ag. 1690) lesse il breve di condanna contro la politica ecclesiastica di Luigi XIV.
Per onorare la memoria di Clemente X, e dimostrare tangibilniente la sua perenne devota riconoscenza, gli fece innalzare da Mattia Rossi un sontuoso sepolcro in S. Pietro e solennemente vi fece deporre le spoglie mortali del pontefice il 15 Ott. 1691. La spesa animontò a circa 10.000 scudi. All'archivista Cartari aveva affidato la stesura di una biografia in latino di Clemente X, rimasta medita nell'archivio dì famiglia.
Nell'ultimo conclave a cui partecipò, quello del 1692, l'A. si oppose risolutamente alla candidatura del cardinale Gregorio Barbarigo, da cui forse temeva che si instaurasse m Curia una troppo rigorosa austerità, e in tal modo favori la politica asburgica che aveva opposto il veto alla presunta francofilia del Barbarigo; per qualche tempo nutri la speranza di essere innalzato proprio lui al pontificato, poi si prodigò a far accettare dai Francesi la candidatura del cardinal Pignatelli che, eletto papa Innocenzo XII, lo nominò arciprete della basilica lateranense e nel 1698 vescovo di Porto.
L'amarezza di aver scoperto che il suo favorito Ludovico Piccini aveva spudorar tamente abusato della sua protezione per accumulare ingenti ricchezze aggravò le sue non buone condizioni di salute; morì il 29 giugno 1698 e fu sepolto nella cappella di S. Giovanni Battista della chiesa di S. Maria in Campitelli da lui riccamente edificata.
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