COLLENUCCIO (Coldonese, da Coldenose), Pandolfo
Nacque il 7 genn. 1444 a Pesaro da Matteo di Giovanni da Coldenose.
Nulla si sa della sua, prima educazione. Più documentati sono invece i suoi studi di giurisprudenza presso l'università di Padova, dove ebbe Bartolomeo Cipolla e Marco Musuro come maestri, l'uno di diritto e l'altro di greco, e conseguì infine il dottorato negli ultimi mesi del 1465. Nel 1469 sposava, a Ferrara, la nobile Beatrice, figlia di Antonio de' Costabili. Dopo il matrimonio il C. si adoperò innanzitutto per ingraziarsi gli Sforza, dal 1445 signori di Pesaro: scopo, è da credere, pienamente raggiunto all'epoca della composizione dell'inedita orazione funebre, conservata nel codice Vaticano Urbinato 1218, da lui tenuta nel luglio 1472 in memoria di Battista, figlia di Alessandro Sforza e sposa di Federico da Montefeltro.
La protezione sforzesca gli valse, con ogni probabilità, la nomina nell'ottobre dello stesso anno, a giudice al Disco dell'Aquila, a Bologna, dove tuttavia esercitò in effetti le funzioni di giudice al Disco dell'Orso, con onore, dal novembre 1472 all'ottobre dell'anno seguente. Tornato a Pesaro, ricercò con successo un inserimento più organico nella corte di Costanzo Sforza, da poco succeduto al padre come signore della città; in occasione delle nozze di Costanzo con Camilla Marzani, figlia del principe di Rossano, nel 1475, si fece ancora notare con una peregrina orazione latina, e due anni più tardi il suo signore lo nominava procuratore generale. Alla corte pesarese egli ebbe inoltre l'occasione di frequentare numerosi dotti e umanisti, e in particolare il Diplovataccio, che gli fu fedele amico anche nei giorni della Sua disgrazia finale.
L'intrapresa attività di cortigiano e di diplomatico permise inoltre al C., in questi anni, di conoscere Lorenzo de' Medici, di cui conquistò rapidamente la stima e l'amichevole protezione; nel 1476 il Magnifico teneva a battesimo Teodoro, figlio neonato del C., e nel 1479 quest'ultimo, con un sonetto ingegnosamente elaborato su uno spunto pliniano, "Qual d'aconito venenoso ardore", rispondeva a un sonetto del potente amico, sui rapporti tra Amore e Fortuna, che aveva aperto una tenzone nella quale intervennero anche Girolamo Benivieni e il Poliziano.
Prove più cospicue, benché in effetti solo quantitativamente, del proprio talento letterario, sempre comunque riconducibili al progetto del consolidamento dei propri rapporti con un'ampia fascia di ambienti cortigiani, il C. intese dare con la traduzione in terzine dell'Anfitrione plautino, pubblicata postuma a Venezia nel 1530 per Nicolò Zoppino, rappresentata per la prima volta nel gennaio 1487 a Ferrara in occasione delle nozze di Lucrezia d'Este con Annibale Bentivoglio, col poeta Antonio Tebaldeo nel ruolo del protagonista.
Opera che la collocazione cronologica rende non priva di meriti pionieristici, la traduzione dell'Anfitrione si risolve tuttavia in un sostanziale fallimento particolarmente sul piano della resa della comicità plautina e della validità teatrale. Basti segnalare, come sufficienti indizi della radicale insensibilità collenucciana alle esigenze della scrittura teatrale, l'adesione al principio in base al quale ogni battuta originale, anche più breve di un verso, viene resa con una terzina, e la tendenza a diluire comunque un verso plautino in almeno una terzina: il risultato sono 1.188 terzine (contro i 1.145 versi di Plauto), che solo una provvida pioggia, rendendo impraticabile il cortile destinato allo spettacolo, risparmio parzialmente ai nobili spettatori in occasione delle nozze estensi.
La posizione pesarese del C. andava frattanto inesorabilmente deteriorandosi. Il 19 luglio 1483 Costanzo Sforza era morto, senza lasciare figli legittimi. Solo l'accorta azione diplomatica svolta a Roma dal C. presso Sisto IV, tra agosto e novembre, era riuscita a scongiurare il ritorno di Pesaro sotto la diretta potestà della Chiesa e ad assicurare al figlio maggiore di Costanzo, Giovanni, benché illegittimo, la signoria della città, purché la esercitasse insieme con la vedova Camilla. Ma Giovanni mirava alla gestione piena e assoluta del potere di signore, e gli anni seguenti avrebbero visto la progressiva esautorazione di Camilla, realizzata di fatto già alla fine del 1489, e ratificata definitivamente, nonostante l'opposizione papale, nell'aprile dell'anno seguente. In questo quadro il C., che tuttavia fino allo scoppio della crisi svolse regolarmente la sua attività diplomatica, dovette attirarsi l'odio crescente del suo signore o come consapevole testimone, per il ruolo avuto nella vicenda, della precarietà del diritto di Giovanni alla signoria, o senz'altro'come troppo franco sostenitore della declinante Camilla. Il pretesto fu fornito nel 1488, da una lite tra il C. e tre personaggi di secondo piano, ai quali Giulio Cesare da Varano, signore di Camerino, aveva ceduto un credito contratto con lui dal C., che l'anno precedente era stato al suo servizio a Venezia come oratore. La lite, ricca di punti oscuri che inducono a scorgervi una ben congegnata trappola, offrì a Giovanni il destro di imprigionare per sedici mesi il C., che fu liberato solo l'11 ott. 1489, per le pressioni di Ercole Bentivoglio, e subito prese la via dell'esilio.
Ai giorni di questa lunga prigionia è ormai concordemente attribuita la più alta prova del C. poeta, la canzone Alla morte che, riportata alla luce, ma anche sfigurata da profondi rimaneggiamenti, da G. Perticari nel 1816, avrebbe stimolato la ripresa moderna degli studi sul suo autore. Non priva di precise reminiscenze petrarchesche, e tuttavia caratterizzata da una sostanziale estraneità stilistica all'esperienza petrarchesca e petrarchistica, discontinua per l'alternarsi di lacerti di intensità lapidaria e di ampi intermezzi prosastici, la canzone esalta, in termini tipicamente umanistici, una morte stoicamente sentita come potenza liberatrice, unico scampo concesso da una natura "acerba matrigna", senza che ai motivi cristiani di una vita futura e di un premio ultraterreno per la virtù venga concessa una presenza più che episodica.
Liberato dalla prigionia, e inizialmente ospitato da Ercole Bentivoglio, il 22 giugno 1490 il C. otteneva, quasi certamente per l'appoggio di Lorenzo de' Medici, la carica, con scadenza semestrale, di podestà di Firenze. In occasione del suo insediamento il C. compose e recitò pubblicamente una canzone in volgare, Responsio ad Magistratus Florentinos ad iustitiam cohortantes, e una "panegyrica silva" in latino, Florentia, che fu nella stessa occasione stampata: la prima, una celebrazione della giustizia, che aveva una precisa collocazione nel rituale dell'insediamento; la seconda, una fantastica rievocazione delle origini mitiche di Firenze (che fu particolarmente ammirata dal Poliziano, presente alla lettura in S. Maria del Fiore), culminante nell'esaltazione di una città la cui grandezza si esprimeva, agli occhi del C., non meno che nel fiorire delle lettere, nel rigoglio di una vita civile non minata dal male comune dell'incertezza e dell'arbitrarietà del diritto.
Concluso il semestre fiorentino, nell'estate del 1491 il C. otteneva con l'aiuto di Lorenzo, la podesteria di Mantova, la "più fruttuosa de Italia", ma vi rinunciava nel novembre, forse a favore del figlio Teofilo, perché nominato frattanto consigliere ducale da Ercole d'Este. Gli anni del soggiomo ferrarese furono per il C., pur tra i gravi incarichi diplomatici, anni di intensa attività letteraria.
A impegnarlo fu dapprima la polemica contro il medico Niccolò Leoniceno, che aveva indirizzato al Poliziano (che dissentiva da alcune critiche a Plinio formulate di passaggio in uno scritto del Leoniceno contro Avicenna) un trattatello De Plinii ... erroribus, stampato a Ferrara nel 1492, in cui, affermata una solidarietà culturale di fondo col destinatario del suo opuscolo, indicava, spesso appellandosi all'autorità di Dioscoride, gli errori in cui Plinio era incorso in particolare nell'identificazione di alcuni semplici. In questa fase della polemica intervenne appunto il C., iniziando la stesura di una Pliniana defensio, interrotta dalla pubblicazione delle Castigariones Plinianae di Ermolao Barbaro; incorporata un'epistola nella quale il C. sosteneva la quasi totale concordanza delle autorevoli tesi dei Barbaro con le proprie, la Defensio vide infine la luce a Ferrara nel 1493. Nonostante un sospetto di partito preso a favore di Plinio, e la conseguente tendenza ad abusare dell'argomento della corruzione del testo per giustificarlo, l'operetta è notevole per la fermezza con cui viene respinto il ricorso al principio di autorità, al quale viene contrapposta la ricerca su basi sperimentali sottoposte a un rigido controllo razionale; e ancor più concretamente precorritrice è forse la rivendicazione, contro il pragmatismo del medico Leoniceno, della necessità di una ricerca botanica pura.
Nel novembre del 1493 il C. partiva per la Germania, unendosi al corteo che portava Bianca Maria Sforza al suo sposo, Massimiliano d'Asburgo, da cui tra l'altro egli doveva ottenere l'investitura per il duca Ercole. Il 10 marzo dell'anno seguente, in occasione della cerimonia, delle nozze, egli teneva una non del tutto insincera Oratio ad Augustissimum Principem Maximilianum Caesarem Romanorum Regem, che fu pubblicata poi a Roma, s. d. (ma probabilmente nello stesso anno). Sul piano diplomatico il successo della missione non fu né rapido né totale, per l'opposizione del cancelliere imperiale. Ma i dispacci per Ferrara riservano largo spazio soprattutto alla descrizione di Massimiliano, in cui il C., ampiamente idealizzando una figura destinata a una serie imponente di fallimenti politici anche umilianti, vede un modello di principe umanista, virilmente deciso e attivo, ma anche amante delle lunghe ed erudite discussioni col dotto ambasciatore ferrarese. Immagine confermata dai dispacci della seconda missione in Germania affidata al C. (dic. 1496-marzo 1497), durante la quale questi avrebbe inoltre avuto modo di approfondire le ricerche di vetusti codici avviate durante la prima missione in monasteri e vecchie biblioteche, e di raccogliere ulteriori materiali per una Descriptio, seu potius summa rerum Germanicarum, stampata postuma a Roma nel 1546.
Tornato dalla prima missione in Germania, nel settembre del 1494 il C. era a Roma come ambasciatore presso Alessandro VI. Scopi della missione erano la proroga dei pagamento di un tributo, la concessione del vescovado di Ferrara a Ippolito, figlio di Ercole, e soprattutto la vanificazione delle voci che volevano Ercole partigiano dei Francesi e fautore, con Ludovico il Moro, della calata di Carlo VIII. I suoi dispacci forniscono appunto il quadro forse più lucido e preciso che sia rimasto della "ignoranza, pusillanimità e cecità mirabile" con cui la catastrofe militare era attesa in una Roma affidata a un pontefice che, a detta dei C., non sapeva "che fare né che deliberare" e poteva opporre agli eventi solo" un notevole talento istrionico.
Probabilmente in questo periodo Pandolfa iniziava la composizione di quattro Apologi latini, la cui raccolta completa era destinata alla pubblicazione postuma (Argentorati 1511).
Agenoria (nome, nel De civitate Dei, della dea che induce all'azione), "de pigris et industriosis hominibus", fu il solo dei quattro Apologi a esser stampato vivente l'autore (Daventriae 1497; ma si è supposta l'esistenza di una perduta edizione italiana, più antica). Dei rimanenti, Misopenes è l'apologo più autobiografico, sull'uomo diviso tra le sollecitazioni di Crisio (l'oro) e Sofia; Alithia, una rappresentazione forse troppo schematica della lotta tra Vanità e Verità, quest'ultima infine premiata da Ercole; Bombarda, una favola trasparentemente allegorica, in cui il prudente Phronimus (il duca Ercole) munisce di artiglierie la città da lui fondata. Pregio comune degli Apologi èla scioltezza e la vivacità con cui viene usato il latino, lingua che il C. stesso dichiarò di sentire a sé più congeniale del volgare, e nella quale, stimolato peraltro dalla problematica morale a lui cara delle quattro favole, raggiunse perfino la vivacità e la teatralità che invano si cercherebbero nella sua produzione riservata alle scene.
Risultati non spregevoli il C. conseguì tuttavia anche nei due Apologhi italiani composti sul modello dei quattro latini. Il primo, il Filotimo, composto nel gennaio del 1497 in Germania, durante la seconda missione imperiale, e stampato a Venezia nel 1517, è un "dialogo fra la berretta e la testa "incline questa a onorare con deferenti saluti il merito mentito, quanto quella ne è aliena. Il secondo, lo Specchio d'Esopo (Venezia 1526), è una sorta di meta-apologo, che, prendendo lo spunto dall'episodio di Esopo ostacolato nel suo desiderio di far offerta al re di una cesta dei suoi apologhi, analizza la funzione e la validità del genere stesso.
Nel dicembre 1497 il C., a Roma al seguito del cardinale Ippolito, fu testimone di due avvenimenti che avrebbero avuto una grande quanto imprevedibile importanza nella sua vita: il divorzio tra Lucrezia Borgia e Giovanni Sforza, in termini estremamente umilianti per quest'ultimo, e l'emergere di Cesare Borgia, che stava per abbandonare la porpora cardinalizia.
L'anno seguente, per desiderio del duca Ercole, il C. cominciava a scrivere il Compendio de le istorie del Regno di Napoli, rimasto interrotto per la sua morte, e pubblicato postumo a Venezia nel 1539.
Prima opera che affronti in tutta la sua vastità e in termini criticamente validi la storia dei Regno, il Compendio si basa, oltre che su una preliminare selezione dei fatti da trattare, che toglie all'opera ogni carattere di disorganica elencazione annalistica, su un rigoroso esame delle fonti, nel corso del quale si riserva un'attenzione particolare alle fonti documentarie ed epigrafiche, e se ne dichiarano con lucidità caratteristiche ed eventuali discordanze. La storia del Regno, indagata con questi strumenti, si configura come quella di un continuo e continuamente frustrato tentativo di costituzione di uno Stato solido e autonomo, tentativo ostacolato dall'azione della Chiesa, che non accetta vicini non subordinati, e di una feudalità riottosa, che ha tutto da guadagnare dalla disgregazione del potere centrale, Su questo sfondo assumono un grande risalto ideale le figure di quei pochi che, come Federico II, si sono fatti portatori, agli occhi del C., del principio di uno Stato regolato da leggi efficaci e ordinatamente sottoposto a un, principe che di esse si faccia imparziale garante. Un'opera di tal fatta, prima di raggiungere la stima universale sancita in questo secolo dal riconoscimento del Croce, incontrò naturalmente molte acerbe critiche: solo, ma non innocentemente linguistiche, da parte di Girolamo Ruscelli, che del Compendio diede un'edizione (Venezia 1552) purgata dai latinismi e dagli aspetti più "padani" della morfologia dei verbi; storiche, da parte di storici napoletani (Angelo di Costanzo, Tommaso Costo) che, ricorrendo, se necessario, all'uso sistematico della falsificazione, respinsero in particolare le accuse "d'incostanza e d'infedeltà" mosse nel Compendio ai "regnicoli".
Nel maggio del 1500 il C. fu nominato da Ercole capitano di Giustizia. Ma le sue condizioni economiche continuavano a non essere particolarmente floride. Aveva ottenuto una casa a Ferrara, possedeva libri, "ornamenti de casa" e una pregevole collezione di antiche iscrizioni, ma nel 1499 aveva dovuto far ricorso alla generosità di Isabella d'Este per far fronte alle spese per il matrimonio della figlia Ginevra, e solo nel 1503 sarebbe stato in grado di pagare un vecchio debito con Guidobaldo d'Urbino, presumibilmente anche grazie agli emolumenti della nuova carica, ma in larga misura ricorrendo a nuovi crediti concessigli da ebrei ferraresi, secondo quanto risulta dal documento al quale avrebbe affidato in punto di morte le sue ultime volontà.
È quindi comprensibile che, entrato il 27 ott. 1550 il Valentino in Pesaro, da dove Giovanni Sforza era già fuggito, il C., giunto nella città il giorno seguente come legato di Ercole, si sia affrettato a presentare al nuovo signore una supplica per riottenere i beni che gli erano stati confiscati da Giovanni ai tempi del suo arresto. La supplica, in cui era vivacemente descritta la "iniustizia e iniquità" di Giovanni, ottenne il risultato sperato. Ma, morto Alessandro VI nell'agosto del 1501 nonostante l'appoggio di Ercole, come legato del quale il C. percorse la Romagna perorando la causa del Valentino; questi perdeva Pesaro, di cui lo Sforza riprendeva possesso il 3 settembre. Non si conoscono le prime reazioni del C. a questi avvenimenti. Nella primavera del 1504 egli era ancora probabilmente impegnato, a Ferrara, nella messa in scena della sua Vitade Iosep, figliolo de Iacob (Venezia 1523), un debolissimo ibrido in cui la materia biblica, articolata secondo i canoni delle sacre rappresentazioni, è veicolata da un linguaggio incongruamente raffinato e filosofeggiante, di gusto prettamente umanistico. Infine, il 28 maggio, il C. si risolveva a inviare allo Sforza una lettera in, cui chiedeva che, dimenticata la vecchia lite, gli fosse concesso di tornare a Pesaro. Lo Sforza, fingendo di cedere a questa preghiera, accompagnata dall'intercessione del marchese di Mantova, diede il 4 giugno il consenso a un ritorno con cui il vecchio nemico, si rendeva spontaneamente raggiungibile dalla sua vendetta, e il C. tornò in patria. Riattivata immediatamente la trappola della vecchia lite, Giovanni si fece forte della riesumata supplica al Valentino per accusare il C. di tradimento e gettarlo in prigione, dove, nonostante l'intervento in suo favore del marchese di Mantova, dopo aver affidato a un documento informale le sue ultime volontà, essendogli stata negata la facoltà di stendere "solenne testamento", l'11 giugno 1504 fu giustiziato a Pesaro.
Oltre alle opere citate il C. lasciava, inediti, un trattatello De vipera (Venezia 1506) e un altro sull'Educazione usata da li antichi (Venezia 1543), nonché un piccolo numero di composizioni poetiche di vario valore, queste ultime ora comprese nel secondo dei due volumi dell'edizione moderna delle Opere, a cura di A. Saviotti (Bari 1929), che raccoglie la maggior parte della produzione collenucciana.
Fonti e Bibl.: Benché altamente stimato da figure di primo piano della cultura dei suoi tempi (A. Poliziano, Opera, Basileae 1553, pp. 98 s., 436;G. Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, Firenze 1943, 1, p. 162)e a lungo presente, col postumo Compendio, nel dibattito storiografico, sul piano della ricerca biografica il C., subito dopo la sua morte, non attirò più che la cauta e compendiosa menzione di Paolo Giovio, negli Elogia virorum literisillustrium, Basileae 1577, pp. 59-60, cui tennero dietro per due secoli solo scarsi cenni di eruditi. Una riesumazione molto strumentale della figura del C. sarà quella che verrà operata da G. Perticari con una nota Intorno alla morte di P. C., in Biblioteca italiana, I (1816), pp. 439-463, intesa come complemento della edizione-rifacimento della canzone Alla morte. Estremamente parziali, e spesso discutibili, anche i risultati delle prime ricerche biogr. venute dopo il saggio del Perticari: W. M. Tartt, Memoirs connected withthe life and writings of P. C., s. l. [ma Londra o Cheltenham] 1868, ed Explanations suggested bya review of Memoirs...", s. l. [ma Londra o Cheltenham] 1870; C. Malagola, Della vita edelle opere di Antonio Urceo, Bologna 1878, pp. 67-74, 241, 434-451, 505-508; C. Cinelli, P. C. e Pesaro a' suoi tempi, Pesaro 1880. La prima organica e nel complesso attendibile, benché per nulla esauriente, biografia di A. Saviotti, P. C. umanista pesarese del sec. XV, in Ann. della R. Scuola normale di Pisa, classe di filosofia e filologia, IX (1888), pp. 33-328, che seguiva un saggio sulla polemica pliniana, dello stesso autore, Unapolemica tra due umanisti del sec. XV, Salerno 1887, inaugurava una nuova stagione di studi collenucciani, che avrebbe visto un riesame dei testi noti e la graduale pubblicazione dei documenti inediti, in particolare a cura di G. S. Scipioni, autore di una intelligente recensione alla biografia di Saviotti, in Giorn. stor. della letter. ital., t. XI (1888), pp. 424-431, e di un saggio su La canzone "Allamorte" di P. C., in Le Marche, IV (1904), pp. 299-305, nonché editore di lettere collenucciane poi comprese nella cit. edizione novecentesca delle Opere, a cura di A. Saviotti (che include anche lo scritto del C. che tenne luogo di testamento). L'azione diplomatica del C., trascurata dalla biografia saviottiana, è stata in seguito accuratamente indagata nei lavori di P. Negri. Le missioni di P. C. a Papa Alessandro VI, in Archiviodella R. Società romana di storia Patria, XXXIII (1910), pp. 333-439; Milano, Ferrara e Imperodurante l'impresa di Carlo VIII in Italia, in Archivio stor. lombardo, XLIV (1917), pp. 423-571, ma in particolare le pp. 510-71, con i cinquanta dispacci delle due missioni in Germania dei C.; Studi sulla crisi italiana alla fine del sec. XV. La polit. di Ludovico il Moro e di Ercole Id'Este negli anni 1492-93, ibid., L (1923), pp. 1-135; LI (1924), pp. 75-144, dove si delinea la situazione politica nella quale il C. si trovò ad operare, e Pisa e Firenze nell'ottobre 1495in duelettere inedite di P. C., in Scritti stor. in on. diC. Manfroni, Padova 1925, pp. 45-57. Sulla controversia col Leoniceno il saggio del Saviotti è stato decisamente superato dai brillanti contributi di L. Thorndike, A History of magic andexperimental Science, IV, New York 1934, pp. 593-610; M. Santoro, La polemica pliniana frail Leoniceno e il C., in Filologia romanza, III (1956), pp. 162-205; e Ch. G. Nauert jr., Humanists, Scientists, and Pliny: Changing Approaches to aClassical Author, in American Historical Review, LXXXIV (1979), pp. 81 ss.. Vedi inoltre: A. Luzio-R. Renier, Niccolò da Correggio, in Giorn. stor. della letter. ital., t. XXI (1893), pp. 224, 233-238; M. Morici, P. C. procuratore di G. C. Varano aVenezia, in Le Marche, I (1901), pp. 25-29, G. Pepe. La polit. dei Borgia, Napoli 1945, pp. 65-96 e passim; C. H. Clough, More Light on P. and Ludovico Ariosto, in Italica, XXXIX(1962), pp. 195 s.; Id., A Further Note on P. and Ludovico Ariosto, ibid., XL (1963), pp. 167-169; Id., P. C.'s Loan from Guidobaldo, Duke of Urbino, in Studia oliveriana, XII (1964), pp. 61-73; F. Gregorovius, Lucrezia Borgia, Roma s. d. [ma 1978], ad Indicem. La più ampia e approfondita analisi della produzione del C., che appare senz'altro più valida dei lacunosi tentativi inaugurati del Saviotti. è offerta da C. Varese, P. C. umanista, in Studia oliveriana, IV-V (1956-57), pp. 7-143. Ma si vedano anche sulla produzione poetica: V. E. Percopo, Una tenzone tra Amore e Fortuna..., in Rass. critica della letter. Italiana, I(1896), pp. 9-14; A. Pompeati, Un poeta della morte nelQuattrocento, in Saggi critici, Milano 1916, pp. 4-50; B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e deltardo Rinascimento. Bari 1951, III, pp. 38-41. Sulle polemiche suscitate dal Compendio, vedi anche: L. Bonollo, Di alcuni falsari e di alcune falsificazioni nella storia della letter. ital., Mantova 1898, pp. 36-40; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925, pp. 73 s., 89, 256; Id., Angelo di Costanzo Poeta e storico, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, I, p. 100. Sulla produz. teatrale del C. vedi: A. D'Ancona, Origini delteatro ital., Torino 1891, II, pp. 129 s., 136, 392 s.; G. Bertoni, Nuovi studi su M. M. Boiardo, Bologna 1904, pp. 300 s.; Id., DiAntonio Tebaldeo attore a Ferrara e di altri letterati nel circolo di Ercole I, in Archivum Romanicum, IV (1920), pp. 396 s.; N. Pirrotta, Li due Orfei, Torino 1975, pp. 135, 360, 369. Vedi inoltre: M. Catalano, Vita di L. Ariosto, Ginevra 1930-31, I, ad Indicem; E. Garin, L'umanesimo ital., Bari 1952, pp. 61 s., 79; J. Burckhardt, La civiltàdel Rinascimento in Italia, Firenze 1968, pp. 132, 207, 214, 232; E. Garin. Medioevo e Rinascimento, Bari 1973, p. 272. Per ulteriori ragguagli bibliografici, vedi: M. E. Cosenza, Biographicaland bibliographical Dictionary of Italian humanists, Boston 1962, s. v.; e P. O. Kristeller, Iter Italicum, s. v.