MALATESTA (de Malatestis), Pandolfo
Quarto di questo nome nel casato, nacque a Rimini il 5 luglio 1475 figlio illegittimo di Roberto il Magnifico, signore di Rimini, e di Elisabetta Aldobrandini. Aveva solo sette anni quando, il 10 sett. 1482, il padre morì lasciandogli in eredità la signoria.
La conduzione dello Stato fu assunta, su disposizione dello stesso Roberto, dalla madre e dal cugino Raimondo, del ramo collaterale degli Almerici. Nel dicembre 1482 Galeotto, fratello di Raimondo e uomo di fiducia di Sisto IV, si fece carico della tutela del M. che, previa dispensa pontificia, era stato affrancato dai natali illegittimi e, quindi, ufficialmente investito, con il fratello Carlo, del vicariato malatestiano. Per consolidare il potere acquisito, il neonato governo eliminò personaggi scomodi, come Alberto Petrucci da Mondaino, Dioniso da Roncofreddo e Giuliano Arnolfi. In tale frangente, la figura del M. è assente dalla scena politica, dominata da cruente lotte intestine. Non estranea a intrighi e macchinazioni fu la madre Elisabetta, che giocò un ruolo di primo piano nei foschi episodi dai quali fu travolta la corte malatestiana. Nel marzo 1492, mentre il governo congiunto dei reggenti mostrava segni di cedimento, Raimondo fu ucciso in un complotto ideato da Galeotto che, risoluto a osteggiare l'imminente passaggio di consegne al M., aveva predisposto l'eliminazione dell'intera famiglia del futuro signore di Rimini. La congiura, tuttavia, fu sventata da Elisabetta che poté contare sul sostegno di Francesca Bentivoglio, che giunse a tradire il marito Galeotto.
Della vicenda resta documento coevo la pala di Domenico Ghirlandaio e bottega (Museo civico di Rimini), che rappresenta s. Vincenzo Ferrer fra i ss. Sebastiano e Rocco; sotto, in preghiera, Elisabetta Aldobrandini e Violante Bentivoglio da un lato, il M. e Carlo dall'altro. Questi esprimono devozione e riconoscenza ai patroni per un doppio rischio scampato: la congiura del 1492 e la peste del 1493.
Ormai sola a capo dello Stato, l'Aldobrandini continuò a escludere dal potere il M. che, occupato ad arte in cacce e gozzoviglie, non manifestava predisposizione per l'attività di governo. Elisabetta, del resto, aveva sempre esercitato sul figlio un forte ascendente, imponendogli le proprie scelte. L'intraprendenza materna indusse il M. a sposare, a soli dieci anni, Violante, figlia di Giovanni (II) Bentivoglio. Il 5 febbr. 1485, a Bologna, furono officiate per procura le nozze, ma l'effettiva celebrazione fu rinviata al settembre 1489 con l'ingresso ufficiale della sposa a Rimini. Dal matrimonio nacquero Sigismondo, Galeotto, Malatesta, Roberto, Annibale e Ginevra.
Ercole I d'Este, duca di Ferrara, cercava di intromettersi, per ragioni politiche, nella formazione del M. e aveva inviato alla corte riminese Bartolomeo Cavalieri, uomo d'armi, letterato e diplomatico, che avrebbe dovuto sviluppare nel M. le doti militari e culturali necessarie a un principe. Elisabetta, tuttavia, ostacolò in ogni modo l'operato del Cavalieri che, esasperato, abbandonò la città.
Mera pedina delle aspirazioni materne, il M. fu avviato, ancora giovanissimo, alla carriera militare, godendo della gloria riflessa del padre, stimato e valoroso condottiero. Tradizione vuole che, nel gennaio 1483, ad appena otto anni, il M. ottenesse la nomina di capitano generale su un contingente di 150 uomini con una provvigione complessiva di 16.000 scudi. Il reale debutto del M. sui campi di battaglia è però ragionevolmente da posticipare al settembre 1493 con l'assunzione di una condotta per conto della Serenissima. In un contesto mutevole, condizionato dall'imminente discesa di Carlo VIII di Francia nella penisola, il M. fu inviato a presidiare i confini di Ghiara d'Adda. Per contrastare l'avanzata dei Francesi, Venezia, il Ducato di Milano e il Papato costituirono una lega, nella quale fu indirettamente coinvolta anche la signoria riminese, confederata della Serenissima. L'esercito della Lega vinse lo scontro e il M. si distinse per coraggio e capacità tattica nella sanguinosa battaglia di Fornovo, presso il fiume Taro, il 6 luglio 1495.
Incapace di riversare il valore guerresco nella pratica di governo, il M., emancipato dalla tutela materna, inaugurò una stagione politica contrassegnata da cospirazioni ed efferati misfatti che gli valsero il dispregiativo di Pandolfaccio.
Il 13 nov. 1495 il M. - su probabile istanza del suocero Bentivoglio - fece decapitare il conte Guidoguerra di Bagno, suo condottiero e congiunto, accusato di aver cospirato ai danni del signore. Il delitto, per l'evidente infondatezza delle accuse, generò un moto generale di indignazione nei riguardi della corte riminese. Sordo alle critiche, il M. continuò a compiere scelte azzardate, rinfocolando odi e incrinando le relazioni internazionali; intromessosi nella faida in atto a Cesena tra i Martinelli e i Tiberti, scatenò la reazione del doge Agostino Barbarigo, indignato dalla sua condotta: accogliendo in città i fuorusciti Martinelli, infatti, il M. aveva consapevolmente danneggiato la fazione opposta, sostenuta da Urbino e Venezia. I ripetuti richiami rivoltigli nel 1496 non sortirono effetto e solo una delicata missione diplomatica presso la Serenissima poté sventare il rischio di pesanti ripercussioni ai danni del casato malatestiano.
A causa del discredito acquisito dal M., le trattative furono condotte da Elisabetta, che ottenne per il figlio un insperato successo. Poco dopo il rientro in Romagna, tuttavia, l'Aldobrandini morì, lasciando il M. in balia di se stesso. Il deplorevole operato del M. favorì allora a Rimini l'insorgere di spinte centrifughe, che si tradussero presto in serrata opposizione.
I membri delle famiglie - tra i capofila Nicolò Adimari, Clementino Clementini e Marsilio Cattani - ordirono nel gennaio 1498 un complotto noto come "congiura degli Adimari" per eliminare tutti gli appartenenti alla famiglia signorile, in primis il M., che doveva essere ucciso nella chiesa di S. Agostino durante la messa domenicale. L'aggressione degenerò in tumulto e il M., rimasto solo lievemente ferito, riuscì a fuggire. Sventata la congiura e ristabilito l'ordine, la rappresaglia non si fece attendere: i ribelli furono uccisi e i cadaveri appesi ai merli della rocca. La confisca di tutti i beni si abbatté sulle famiglie dei congiurati scampate alla devastazione di abitazioni e proprietà. La repressione scatenò una nuova ondata di ribellione capitanata dai nobili Galeotto Benzi e Andrea Ricciarelli, che, denunciati prima di condurre a termine l'impresa, furono parimenti condannati alla forca.
Le difficoltà interne erano amplificate, a livello internazionale, dalle ambiziose iniziative di papa Alessandro VI, risoluto a costruire in Romagna un dominio per il figlio Cesare. La stessa Rimini cadde nelle mire del papa che vantava diritti legittimi sulla signoria, in virtù dei censi insoluti alla Camera apostolica. Minacciato dall'incalzare di Cesare Borgia, il M. invocò l'intervento di Venezia che tenne fede ai patti di mutuo soccorso siglati con i signori romagnoli, fornendo parte della copertura finanziaria per il pagamento degli arretrati.
Le continue richieste di denaro del M., tuttavia, incrinarono i rapporti con la Serenissima sino a una momentanea interruzione della tradizionale relazione. Impegnata al fianco di Pisa nella guerra contro Firenze, Venezia preferì al M. un altro esponente del casato, Ramberto Malatesta conte di Sogliano, che sostituì il congiunto nella condotta delle armi. Privo di capacità diplomatiche, il M. aggravò la difficile congiuntura impegnandosi in una affannosa ricerca di sostituti capaci di fornire aiuti militari e finanziari. Il collasso economico lo indusse a bandire ripetutamente aste pubbliche per la vendita dei beni confiscati ai ribelli, ma gli introiti coprirono solo in parte l'effettivo fabbisogno. La rilevanza strategica e politica della signoria riminese, però, sventò il pericolo di un tracollo definitivo. A dispetto dei recenti dissensi, il M. trovò nuovamente un sicuro sostegno nella Serenissima interessata a mantenere inalterati i precari equilibri della regione: nel febbraio 1499 egli ottenne una nuova condotta militare di durata biennale.
Nel gennaio 1500 Forlì, dopo la strenua resistenza opposta da Caterina Sforza, era caduta nelle mani di Cesare Borgia. La stessa sorte toccò a Cesena, Imola e Faenza, mentre Rimini, spalleggiata dalle truppe di Bartolomeo d'Alviano, si preparava all'assedio con un contingente di oltre 1000 cavalieri. Il poderoso bastione difensivo fece desistere dall'impresa il Valentino, risparmiando la città. La salvezza della signoria dipendeva, dunque, dalla disponibilità di uomini e denaro forniti da Venezia. Ma il legame esistente tra Riminesi e Veneziani non raccoglieva il consenso dal papa che intimò alla Serenissima di ritirare la protezione ai Malatesta. Le pressioni pontificie, spinte sino alla minaccia di scomunica, erano puntellate dai Francesi che spingevano affinché i Veneziani assecondassero le mire del Valentino. La Serenissima sospese, quindi, ogni relazione con il M. che nell'ottobre 1500 inviò la moglie Violante e i figli a Bologna e, ceduta la custodia della città al Consiglio, si rifugiò nella rocca.
La capitolazione fu quasi immediata e la città inerme fu consegnata nelle mani del Valentino. Il 10 ottobre, all'arrivo in Rimini del luogotenente ducale Roberto Pedroni, il M., deposti i panni del signore, abbandonò la città. La pacifica consegna di Rimini, Meldola e Sarsina fruttò al M. 5500 ducati ai quali sommò i 2900 ducati ottenuti dalla vendita degli armamenti. Concluse le trattative, il M. salpò da Rimini verso Cervia conducendo con sé, a garanzia dell'accordo, un figlio naturale del Pedroni. Dopo una breve e infruttuosa permanenza a Venezia, l'ultimo signore di Rimini intraprese, da esule, il viaggio a Bologna, presso il suocero Bentivoglio.
Il 30 ott. 1500 il Borgia entrò trionfalmente a Rimini acclamato da una folla festante che, esacerbata dal dispotismo malatestiano, lo accolse come un liberatore. Ma il nascente ducato del Valentino non era destinato a consolidarsi: nell'agosto 1503 Alessandro VI morì, segnando, di fatto, la fine del dominio di Cesare Borgia.
Il declino del Valentino e la vacanza della Sede apostolica favorirono il progressivo rientro dei principi negli antichi domini. Lo stesso M., con l'aiuto di Bartolomeo d'Alviano e del compagno d'esilio Guidubaldo da Montefeltro, tornò a Rimini suscitando la compatta e ostinata resistenza della popolazione.
In tale clima il ripristino della signoria malatestiana su Rimini assunse i toni di una coatta restaurazione. Il M., risoluto ad annientare ogni forma di protesta, si abbandonò a vendette e proscrizioni, ma non riuscì a risollevare le sorti della signoria, anzi aggravò la condizione di miseria e abbandono in cui versava lo Stato. Incapace, d'altra parte, di gestire la delicata situazione senza supporti esterni, il M., sollecitato anche dal duca di Urbino, prese nuovamente contatto con Venezia. La necessità di denaro lo spinse allora a intavolare trattative per la vendita dello Stato, incurante del fatto che il dominio malatestiano dipendesse, di fatto, dall'inalienabile diritto della Chiesa su quelle terre.
Il M. partì, dunque, in gran fretta per Venezia, presentandosi inaspettatamente al doge Leonardo Loredan in compagnia del primogenito Sigismondo. La visita del M. e, tanto più, le allettanti proposte di vendita trovarono un'ottima accoglienza. I capitoli della transazione, ratificati il 16 dic. 1503 a titolo di purae et irrevocabilis permutationis, prevedevano il trasferimento di tutti i possedimenti romagnoli - incluse Sarsina e Meldola - entro la sfera d'influenza veneziana.
Il M. cedeva il mero e misto imperio su ogni pertinenza malatestiana, con i dazi, le gabelle e le rendite connessi, nonché le artiglierie, armi e munizioni conservate nella rocca. Il corrispettivo in denaro di tali cessioni ammontava a 10.000 ducati d'oro, cui il doge ne aggiunse altri 4500 quale indennizzo per il riscatto della rocca. Al fratello Carlo e alla moglie Violante fu assicurata una provvisione annua di 500 scudi. Liberi di disporre dei proventi derivanti dai quantitativi di sale rimasti a Rimini, il M. e Carlo furono investiti, a vita, di una condotta militare di 100 cavalieri e 50 balestrieri. L'intera famiglia Malatesta avrebbe, del resto, goduto a Venezia di un trattamento di favore. Il M., Violante e Carlo, già dotati in città di un'abitazione permanente, sarebbero entrati nel novero dei nobili veneziani appartenenti al Maggior Consiglio, con la possibilità di trasmettere tale diritto ai discendenti legittimi e naturali. Parimenti, la terra di Cittadella nel Padovano, assegnata in perpetuo al M., sarebbe stata trasmessa ai successori diretti in linea maschile, sostituibili, in caso di estinzione, dai nipoti, eredi di Carlo. Rivelando, ancora una volta, particolare attenzione per la futura progenie, la Serenissima accordava a uno dei figli del M. il possesso, in territorio veneto, di lucrosi benefici ecclesiastici per un valore complessivo di oltre 1000 ducati d'oro.
L'alienazione dell'avita signoria non modificò in sostanza il modus vivendi del M. e del fratello Carlo che continuarono a dedicarsi in primis al mestiere delle armi, facendo mostra di spiccate doti militari nella guerra che oppose Venezia all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo. Carlo in particolare si distinse per valore sui campi di battaglia, pagando il proprio ardire con la morte nel febbraio 1508. Venezia aveva da tempo suscitato i risentimenti del papa Giulio II, che condannava il suo espansionismo sulla terraferma, reclamando l'assoluta esclusiva titolarità dei possedimenti romagnoli.
La questione riminese assunse, quindi, rilevanza internazionale. Frattanto, su iniziativa di Giulio II, si era costituita la Lega di Cambrai che prevedeva l'azione congiunta di Francia, Impero e S. Sede contro Venezia. Il 6 maggio 1509, ad Agnadello, La lega otteneva una schiacciante vittoria ai danni dei Veneziani, inducendo il Senato della Repubblica a restituire, con Rimini in testa, tutte le terre romagnole.
I colpi accusati dalla Serenissima iniziarono a far vacillare la fedeltà del M. che cambiò bandiera, passando tra le fila degli Imperiali. Con atto di sottomissione al nuovo alleato, il M. consegnò Cittadella a Massimiliano d'Asburgo che, in segno di riconoscenza, nell'agosto 1509 lo investì ufficialmente del feudo. Ma la città veneta, dopo numerosi passaggi di mano, tornò infine ai Veneziani, privando, di fatto, il M. dell'unico possedimento rimasto.
Le avverse circostanze gli suggerirono un nuovo cambiamento di fronte. Le sue mire tornarono su Rimini e, in tale contesto, solo la militanza fra le truppe del re di Francia, Luigi XII, lo avrebbe reso possibile. Il M. individuò uno strategico intermediario nel duca di Ferrara, comandante dell'esercito francese in Italia, impegnato nello scontro con Ferdinando il Cattolico e Giulio II. Il M., tuttavia, scelse ancora una volta il campo sbagliato, subendone le conseguenze nella disfatta di Ravenna, a seguito della quale il papa rientrò in pieno possesso della Romagna. Tornato al soldo dell'imperatore, il M. ricevette l'incarico di difendere Verona, però la volontà di essere riammesso nelle grazie della Serenissima lo spinse al tradimento: accordatosi con Bartolomeo d'Alviano per consegnare la città ai Veneziani, fu scoperto e messo in fuga, ma finalmente collocato nelle fila dei Veneziani.
L'assegnazione di una condotta di 400 lance per presidiare le riottose circoscrizioni della Marca trevigiana distolsero per qualche tempo il M. dai domini romagnoli. Eppure il progetto di tornare a insignorirsi di Rimini non fu mai abbandonato dagli ultimi esponenti dei Malatesta. Nel marzo 1513 Troilo, figlio di Roberto il Magnifico, tentò inutilmente di entrare in possesso della città mentre Sigismondo, figlio del M., si adoperò inutilmente presso il papa per recuperare lo Stato paterno; passò poi all'azione armata: la vigilia di Natale 1521, con un centinaio di cavalieri, si presentò sotto le mura di Rimini. Ricacciato dalle archibugiate dei difensori non desistette e, trascorsi pochi mesi, replicò vittoriosamente l'impresa.
Grazie all'appoggio segreto di alcuni maggiorenti riminesi, il 24 maggio 1522 Sigismondo si introdusse furtivamente in città e, preso in ostaggio il governatore pontificio, si impadronì della rocca asserendo di assumere il potere in nome della S. Sede. Nell'arco di due giorni l'intero contado riminese fu riconquistato e il M., allora a Ferrara, fu richiamato nella città natale: dopo 19 anni di esilio rientrava a Rimini il 29 maggio 1522 in estrema povertà. Le difficoltà affrontate, d'altra parte, non avevano mitigato la sua linea politica ed egli riprese a governare in modo crudele e tirannico.
Nella speranza di riacquisire l'investitura del vicariato dal papa, il M. si raccomandò al cardinale Giovanni Salviati e al conte Guido Rangoni, suo nipote, che lo indusse a rimettersi alla clemenza di Adriano VI, assicurando di abbandonare Rimini entro un mese dall'arrivo in Italia del papa. A garanzia dell'accordo, il M. consegnò i figli Roberto e Annibale come ostaggi. I due vennero liberati il 30 ott. 1522, ma il M. non rispettò la parola data, decidendo di recarsi a Roma a impetrare la benevolenza pontificia. L'obbligo di restituire la città e liberare tutti i prigionieri fu, pertanto, ancora una volta eluso dal M. che, nel marzo 1523, attirò su di sé l'accusa di lesa maestà, riuscendo a sottrarsi alla pena capitale solo grazie all'intercessione del duca di Urbino. A due giorni dalla sentenza, ricevuta la notizia della situazione, Sigismondo consegnava Rimini e riparava a Ferrara dove lo avrebbe presto raggiunto il resto della famiglia.
Il primogenito del M. continuò a nutrire la speranza di tornare a dominare su Rimini. L'occasione propizia giunse nel maggio 1527, all'epoca del sacco di Roma. Forte dello sbandamento che aveva investito lo Stato della Chiesa, il 14 giugno Sigismondo entrò in Rimini e richiamò al suo fianco il padre; i due misero allora in scena l'ultimo atto della saga malatestiana a Rimini.
Fu subito ripristinato un clima di terrore che eliminò dalla scena politica personaggi di rilievo quali Giacomo Ricciarelli o Niccolò Benzi, e persino fedeli alleati come Gian Francesco Tramontani, di un ramo parallelo del casato. Clemente VII inviò prontamente in loco il maresciallo di Lautrec, per costringere Sigismondo a scendere a patti, imponendo definitivamente la presenza pontificia sulla città. Il 20 genn. 1528 il Lautrec, portatosi con l'esercito fin sotto le porte della città, convinse Sigismondo a porsi alle dipendenze del papa. Il M., tuttavia, adducendo pretesti, cercava di rinviare la concordata consegna della città ai Pontifici. La S. Sede tentò di concludere diplomaticamente la difficile mediazione e, nel febbraio 1528, offrì Bertinoro, Sarsina e Meldola in cambio di Rimini. Le ripetute richieste di soccorso avanzate a Clemente VII dalla popolazione locale, estenuata dalle atrocità perpetrate dai Malatesta, indussero, infine, il papa a interrompere le trattative. Alla vista del contingente di 3000 soldati al seguito del legato, gli ultimi signori di Rimini non poterono fare altro che capitolare.
Il 17 giugno 1528 i Malatesta abbandonarono per sempre Rimini, liberandola dalla tirannide, in cui era degenerata la signoria domestica. All'ingresso delle milizie pontificie in città, Sigismondo si allontanò, mentre iniziava per il M. un esilio condotto ai limiti della povertà. Rimasto vedovo, sposò Ippolita di Sebastiano Tebaldi, dalla quale nacquero Valerio e Cassandra. Con la nuova famiglia il M. si stabilì a Roma, dove morì nell'inverno tra il 1538 e il 1539.
Fu tumulato nella chiesa di S. Maria in Trastevere. La discendenza dell'ultimo signore di Rimini si estinse agli inizi del XVIII secolo.
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