PANEGIRICO
. I panegirici (πανηγυρικοὶ λόγοι, panegyrici [libri]) sono, nell'etimologia e nella storia del periodo più antico, discorsi tenuti in festive adunanze di popolo (πανήγυρις) ed hanno dapprima in Grecia, come osserva Quintiliano (III, 4, 14), la forma suasoria: quasi sempre fine loro sono gl'interessi del popolo che ascolta, di cui però accanto si rilevano i meriti e le virtù; donde poi la maniera comune d'esaltazioni encomiastiche, orazioni fatte per magnificare, per lusingare, per piacere, per mettere in mostra l'arte del dire. Negli spiriti si avvicinano molto all'encomio (v.), all'epitafio (v.), all'elogio (v.), e tanto più quanto più si va innanzi nei secoli: talora collimano addirittura. Il genere appare, letterariamente, con i sofisti del sec. V, che esercitano nella società e nell'arte una funzione affine a quella dei lirici dorici delle età trascorse, nasce col formarsi della prosa greca, con Gorgia di Leontini, del quale si cita un 'Ολυμπικὸς λόγος, che ammoniva, sembra, i Greci tutti a unirsi contro i Persiani, e un Πυϑικὸς λόγος, che conteneva lodi per gli Elei.
Schietti e fulgidi esemplari del genere l'abbiamo nell''Ολυμπικὸς di Lisia, che è del 388, e in due capolavori dell'eloquenza isocratea, il Πανηγυρικώς e il Παναϑηναϊκός, che sono appunto suasoria ed encomiastica politica. Spoglio d'intendimenti civili e di superiori idealità, come semplice celebrazione di città e di popoli il panegirico fiorisce durante l'impero col retore Elio Aristide, autore d'un Παναϑηναϊκός, imitazione isocratea in onore di Atene, e d'un ‛Ρώμης ἐγκώμιον, e col retore Libanio, che nell''Αντιολικός esalta Antiochia e i suoi abitanti. Caduta la libertà, il panegirico si rivolge ai sovrani e ai grandi, va ognor più cristallizzandosi in caratteri tipici e fissi, in determinate norme, perde la dignità d'una volta, si fa opera di clienti, né solo la prosa è la sua forma di espressione, ma volentieri la poesia, il canto lirico o epico-lirico, da cui la celebrazione degli uomini insigni e degli eroi, in Grecia come in Roma, aveva preso le mosse. Punto di partenza è l'era alessandrina con i suoi principali rappresentanti: Callimaco, Teocrito e altri.
Il panegirico di Messalla del Corpus Tibullianum inizia in Roma la serie di questa letteratura, letteratura che ha quindi larghi sviluppi con l'autore del Panegirico di Pisone (v. appresso), con Stazio, con Marziale (v.) poi sotto Costantino con Publilio Optaziano Porfirio, più tardi particolarmente con Claudiano (v.), con Flavio Merobaude, con Apollinare Sidonio, con Prisciano. Nobiltà d'idee non manca talora, per esempio in Claudiano, né luce di poesia, ma c'è quasi costante l'esagerata adulazione. Le occasioni al canto sono varie: natalizî, consolati, vittorie, ringraziamenti o saluti solenni, giubilei di regno: ogni circostanza dà motivo a incensare imperatori e potenti. Soprattutto l'oratoria d'apparato ha qui buon giuoco e sfoggia i suoi lenocinî, riducendo di solito a piccola misura l'elemento storico e sciogliendolo per lo più in una macchinale falsariga di rubriche secondo pregi e virtù: genus, pietas, felicitas, fortitudo e così via, senz'ordine rigido, anzi con varietà di disposizione e di costruzione col variare degli scrittori.
In Grecia merita speciale rilievo il Βασιλικός di Libanio per Costante e Costanzo, dell'anno 348. In Roma, prototipo è il Panegirico di Plinio a Traiano (v. sotto), che servì di modello ai cosiddetti Panegyrici dei retori gallici da Diocleziano a Teodosio, una raccolta di dodici componimenti scoperta da G. Aurispa nel 1433 in un codice di Magonza. La silloge si apre col panegirico iniziatore e avviatore, il Pliniano; gli altri undici ci dànno un'immagine caratteristica della cultura gallica fra il 289 e il 389, nei suoi centri di Marsiglia, Narbona, Tolosa, Bordeaux, Autun, Rheims, Treviri. È l'oratoria delle contingenze festive, del cerimoniale di corte bizantinamente costituito, quale fu con Diocleziano: non al popolo si parla, ma al dominatore, in pubblico o in privato; abilità e spigliatezza retorica, facondia e forbitezza linguistica, anche un certo buon gusto di scuola ci sono in questi documenti letterarî e storici; di loro natura però essi, sostanzialmente, sono prodotti poco allettanti. Il nocciolo della silloge sta in sette orazioni, che nella tradizione manoscritta portano in fronte: incipiunt panegyrici diversorum VII. Precedono, di seguito al Panegirico di Plinio, quello di Drepanio Pacato a Teodosio, di Claudio Mamertino a Giuliano, di Nazario a Costantino. Prima dunque un gruppo di autori nominatamente designati, poi un altro di anonimi, per la maggior parte, che s'indicano come diversi, e tutto induce a credere, oramai, che si tratti costì veramente di personalità svariate. I panegirici sono in ordine cronologico a ritroso, se si eccettua per ragioni evidenti il pliniano: si va da Teodosio verso Costantino e Diocleziano con successione regolare, meno in un punto (n. X e XI); l'ultima orazione per Costantino, dell'anno 313, che doveva stare al primo posto del secondo gruppo come anteriore a tutte, è senza dubbio un supplemento, ché va oltre il numero VII dell'intitolazione. La paternità dei panegirici anonimi si può determinare solo per il nono, il quale si rivela da sé come di Eumenio, un retore di famiglia oriunda dalla Grecia, che insegnò con grande successo a Roma e assurse fino al grado di magister memoriae, a capo cioè della cancelleria di corte, e infine da Costanzo fu mandato a dirigere con raddoppiato stipendio di 600.000 sesterzî le scuole Meniane, un grande istituto, ad Autun. Il discorso d'Eumenio, appartenente certo alla fine del 296, si distingue per essere, più che un panegirico imperiale, una suasoria al governatore della Gallia Lugdunense, intesa a ottenere il sovrano beneplacito per la determinazione dall'oratore presa di consacrare gli assegnatigli emolumenti alla riedificazione delle scuole Meniane, che fra i tumulti di guerra erano andate distrutte. Ma il tono dell'orazione non si discosta dal panegirico: la lingua ha poi di notevole che, mentre più di quella delle altre orazioni risente di Cicerone e di Quintiliano, porta chiari i segni della provenienza greca di chi scrive. Le due orazioni che vengono subito appresso, la X e l'XI della serie intera, sono prime per tempo, si rivolgono a Massimiano Erculeo, collega di Diocleziano nel trono, l'una per il Natale di Roma del 289, l'altra per il natalizio dell'imperatore del 291. Sono entrambi sicuramente d'un medesimo autore perché a titolo della seconda si legge item eiusdem magistri mamertini (così i codici Harleiano, Veneto, Ambrosiano, memet per mamertini l'Upsalense), e come questa volta, contrariamente alla regola della silloge, la cronologia procede dall'indietro in avanti, non è punto improbabile che esse in principio facessero parte da sé; con che cadrebbe definitivamente la teoria che voleva vedere in Eumenio il compositore di tutta la silloge anonima. Senza di ciò, chi guardi allo stato e al valore dei manoscritti sarà indotto ad attenersi all'ottimo Harleiano, che nell'intestazione ha mamertī, anziché all'erratissimo Upsalense e al suo memet, da qualcuno accettato per buono e interpretato per mem(oriae) et (rhetoris latini), dunque per magistri memoriae, i. e. Eumenii. Chi sia questo Mamertino, resta comunque ignoto. Il Claudio Mamertino della su rammentata terza orazione fiorì mezzo secolo dopo e pronunziò l'orazione dinnanzi all'imperatore Giuliano assumendo il consolato nel 362. Nazario, altro retore insigne, nel panegirico n. IV canta il suo osanna a Costantino vittorioso di Massenzio, ricorrendo il giubileo dei suoi figli come Cesari (anno 321). Latino Drepanio Pacato nell'orazione n. II si congratula, quale inviato della Gallia, in Roma con Teodosio che abbia schiacciato l'usurpatore Massimo (anno 389), ed egli narra cose che hanno la loro importanza per la storia. Panegirici a Valentiniano I e a Graziano pronunziò a Treviri in nome del Senato anche Q. Aurelio Simmaco.
Panegirico di Pisone. - È un carme di 261 versi in lode di C. Calpurnio Pisone, di quello della congiura contro Nerone (aprile del 65 d. C.), che scoperto si diede la morte; o almeno il Calpurnio del Panegirico ha tutti i caratteri di esso Pisone, quali si conoscono dagli Annali di Tacito e dal Probo del Valla nello scolio a Giovenale, V, 109: è di alto lignaggio e di belle maniere, è munifico e cortese, è oratore e poeta, è uomo sportivo. Autore del carme è un giovane d'umile condizione che aspira a trovare in Calpurnio il suo mecenate. Chi egli sia, si ricercò senza risultato. Il perduto codice di Lorsch dava il nome di Virgilio, il codice di Arras egualmente scomparso il nome di Lucano; e si è pensato ad altri, particolarmente a Calpurnio Siculo (v.). Certo è che il Panegirico è di buona fattura e non posteriore al 65; forse appartiene all'età di Claudio.
Stanno, per noi, in funzione dei manoscritti di Lorsch e di Arras le edizioni basate rispettivamente su quelli di J. Sichard (Ovidio di Basilea, 1527) e di Hadrianus Junius (Basilea 1556); quasi intero ci è trasmesso poi il carme in florilegi parigini dei secoli XII e XIII. Edizioni: J. Held (Breslavia 1831), C. Beck (Ansbach 1835), C. F. Weber (Marburg 1859); J. C. Wernsdorf, Poetae latini minores, Altenburg 1780-1788, IV, p. 236; E. Baehrens, Poetae latini minores, I, Lipsia 1879, p. 225.
Bibl.: O. Ribbeck, Reden und Vorträge, Lipsia 1899, p. 97 segg.; G. Fraustadt, Encomiorum in litteris graecis usque ad romanam aetatem historia, Lipsia 1909; O. Crusius, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 2581 segg.; M. Schan-C.Hosius, Geschichte der römischen Literatur, Monaco 1922, III, p. 138 segg.; R. Pichon, Études sur l'histoire de la littérature latine dans les Gaules, I, Parigi 1906; W. Baehrens, in Bursians Jahresberichte, LI (1925), p. 90 segg.; E. Galletier, in Mélanges P. Thomas, Bruges 1930, p. 327 segg.
Per il Panegirico di Pisone: G. Ferrara, Calpurnio Siculo e il panegirico a Calpurnio Pisone, Pavia 1905; M. Schanz, Geschichte der römischen Litteratur, II, ii, 3ª ed., Monaco 1913, p. 95 segg.
V. anche oratoria; predicazione.