BARILE, Paolo
Nacque a Bologna il 10 settembre 1917 da Cesare, ufficiale medico dell’esercito, e da Livia Corazza, che morì pochi mesi dopo il parto nella drammatica epidemia di 'spagnola'.
La morte della moglie spinse Cesare Barile a fare ritorno a Roma, dove risiedevano i suoi parenti, un'agiata famiglia di origine pugliese orientata verso le libere professioni e il servizio pubblico (un fratello di Cesare era consigliere di Stato). La grave malattia infettiva che aveva ucciso l'amatissima moglie spinse Cesare a proteggere la salute del figlio fino al punto di vietargli l'iscrizione alla scuola, pubblica o privata che fosse. Cosicché Paolo fu costretto a seguire una rigorosa educazione studiando privatamente in casa fino alla quinta ginnasio, quando il padre gli permise di iscriversi al liceo Mamiani di Roma.
Fu proprio attraverso il liceo che Paolo Barile poté aprirsi al mondo e alla cultura. Si iscrisse alla classe di pianoforte del Conservatorio, che frequentò per cinque anni, e conobbe gli amici della sua formazione giovanile; fra questi Bruno Zevi e Antonio Giolitti, ai quali sarebbe rimasto sempre legato. L’amore per la musica accompagnò Barile per tutta la vita e, come era proprio del suo carattere, divenne anche impegno civile. Ricoprì, infatti, per quasi venti anni, la carica di vicepresidente del Maggio musicale fiorentino, al cui sviluppo dette un contributo fondamentale non soltanto sul terreno amministrativo e giuridico ma anche su quello artistico, sostenendo quanto di meglio (da Bruno Bartoletti a Riccardi Muti, da Roman Vlad a Massimo Bogianckino e Zubin Mehta) si espresse in quegli anni a Firenze e affrontando, con il sindaco Giorgio Morales e l’intero Consiglio di amministrazione, assurde controversie giudiziarie causate dal fermo rifiuto del Teatro di bandire concorsi che avrebbero portato, in quel momento, ad abbassare la qualità dei suoi complessi artistici. Notevole fu anche il contributo di Barile al dibattito politico e culturale che riguardò, fra gli anni Settanta e Ottanta, la diffusione della musica e la riforma degli enti lirico-sinfonici (cfr. tra gli altri suoi scritti in questa materia, Gli enti lirici, 1984).
Nel 1936 Barile si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, dove si laureò in diritto civile cum laude nel 1939 con una tesi sulla famiglia discussa con Giuseppe Messina, del quale divenne, subito dopo, assistente volontario. Nel 1941 vinse, non ancora ventiquattrenne, il concorso a magistrato ordinario, classificandosi al primo posto. Nel 1942 fu chiamato alle armi: destinato a Trieste, i postumi di un grave incidente motociclistico gli impedirono di partire per la Russia con il suo reggimento e fu inquadrato nei ruoli della magistratura militare.
Agli inizi di novembre del 1938 si era sposato con Rena Gattegno. Il motivo per il quale il matrimonio fu celebrato prima del previsto stava nell'imminente entrata in vigore delle leggi razziali, perché l’appartenenza di Rena a una famiglia ebraica di Alessandria d’Egitto avrebbe reso impossibile, a partire dal 15 novembre 1938, il suo matrimonio con Barile. Dall'unione nacquero due figlie, Laura e Paola, che avrebbero seguito la carriera universitaria: Paola nella giurisprudenza, Laura nella letteratura contemporanea. Dopo il divorzio da Rena, Barile si unì in matrimonio con Lia Tosi. Una lunga e felice unione che sarebbe stata interrotta solo dalla morte.
L’8 settembre 1943 colse Barile a Trieste. Le sue amicizie e i legami che aveva già stabilito con Piero Calamandrei, il liberalsocialismo e il Partito d’azione fiorentino lo indussero a spostarsi a Firenze dove, dopo il 25 luglio 1943, Calamandrei era stato nominato rettore dell’Università, carica che aveva accettato su sollecitazione di quella cerchia di amici – come Tristano Codignola, Carlo Furno, Francesco Calasso, Enzo Enriquez Agnoletti, Alberto Predieri – che costituivano anche il punto di riferimento politico e culturale di Barile a Firenze (cfr. Sordi, 2005, pp. 1 ss.).
Sono queste persone, gli « elementi del Partito d’Azione» con le quali Barile «prese contatto» tornato da Trieste alla fine del settembre1943, come si legge in una sua 'relazione sulla attività clandestina' inviata il 25 giugno 1945 a Tristano Codignola, membro del Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) nella quale racconta i momenti più importanti della sua partecipazione alla resistenza fiorentina. Nell’ottobre del 1943 Barile fu designato dal CTLN come rappresentante del Partito d’azione nel Comitato militare interpartiti, costituito da rappresentanti di tutti partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN) e da «ufficiali effettivi e della riserva, apolitici». Furono proprio gli ufficiali a essere arrestati il 2 novembre 1943 durante la preparazione di un «piano preliminare di operazioni di sabotaggio».
Come si legge nella relazione di Barile, «… di noi, tredici furono torturati e picchiati… a me fu riservato uno speciale trattamento che si concluse con una pugnalata alla testa …». Dopo lo «speciale trattamento», Barile fu condannato a morte insieme all'avvocato Adone Zoli e agli altri componenti del Comitato militare. La condanna non fu eseguita perché gli arrestati, sottratti ai fascisti dalla polizia tedesca, furono reclusi nel carcere della Fortezza da Basso (gestito dalle SS) e poi rilasciati temporaneamente malgrado la richiesta dei fascisti fiorentini di aggiungere Barile, Zoli, il generale Salvino Gritti e altri due detenuti dalle SS ai dieci civili che dovevano essere fucilati come rappresaglia, a causa dell’uccisione, ad opera dei Gruppi di azione patriottica (GAP), del colonnello Gino Gobbi. In seguito all’inaspettato rilascio, gli arrestati poterono, come scrisse Barile, «darsi alla macchia». In una sua intervista a Renzo Cassigoli su L'Unità del 21 giugno 1996, Barile dichiarò che gli rimasero sempre ignoti sia i motivi dell’intervento tedesco sia quelli del rilascio suo e degli altri detenuti, anche se la presenza fra questi di Zoli e dei suoi due figli gli facevano supporre un intervento sul comando tedesco del cardinale Elia Della Costa. In realtà, i rapporti fra i tedeschi e i fascisti fiorentini erano in quel momento pessimi, perché il maggiore Mario Carità pretendeva di guidare personalmente (e con spietata ferocia) la repressione contro la resistenza fiorentina; cosicché il singolare episodio del rilascio degli arrestati per opera delle SS potrebbe essere avvenuto anche per dimostrare ai fascisti chi comandava veramente a Firenze. Si può pensare, però, a un possibile intervento diretto di Mussolini sui tedeschi, intervento sollecitato da sua moglie Rachele (nata, come Mussolini, a Predappio, luogo di origine anche degli Zoli) che rimase sempre legata da profondi rapporti di gratitudine ad Adone Zoli e alla sua famiglia, che la aveva generosamente aiutata prima del suo matrimonio con il futuro duce. Questa ipotesi sembra confermata dalla decisione di Zoli, presidente del Consiglio nel 1957, di riconsegnare alla famiglia il corpo di Mussolini.
La liberazione dal carcere consentì a Barile di riprendere l’attività clandestina, ed egli partecipò alla battaglia per la liberazione di Firenze dal 10 al 15 agosto 1944 dopo essersi trasferito, con altri partigiani, attraverso il Corridoio Vasariano dalla zona dell’Oltrarno al centro della città, che fu liberato dalle formazioni partigiane dopo cinque giorni di duri scontri (L. Barile, 2016, pp. 125 ss.).
È noto che quando gli Alleati entrarono a Firenze trovarono già ricostituite la giunta comunale, il sindaco, la giunta provinciale e il presidente della Provincia: organi tutti nominati dal CTLN. La conferma di queste nomine da parte dell'Amministrazione alleata fu un gesto importante perché riconobbe, per la prima volta nel corso della Liberazione, il ruolo politico, oltreché militare, del CLN anche nelle amministrazioni locali delle zone liberate. In conseguenza di questo atto la vita civile e politica della città riprese rapidamente, tanto da consentire, fra l’altro, l'inaugurazione, il 15 settembre 1944, del nuovo anno accademico dell’Università, alla cui guida fu di nuovo nominato Calamandrei.
In questo clima di fervore e di rinnovamento, Barile riprese a Firenze la sua attività di magistrato ordinario, continuando a militare «con fierezza», come avrebbe scritto anni dopo, nel Partito d’azione e legandosi, come fu testimoniato da Mario Galizia (2002, p. 12 ) anche a Paolo Vittorelli e al suo Movimento d’azione socialista, alla stesura del cui 'Manifesto del 1947' Barile collaborò attivamente. Tuttavia, fondamentali furono soprattutto i rapporti da lui stabiliti con il gruppo di intellettuali che si muovevano intorno alla rivista Il Ponte, fondata da Calamandrei a Firenze nell’aprile del 1945. Su quella rivista (1945, n. 3) comparve un importante saggio storico-giuridico di Barile, Il ritorno della tortura, nel quale il richiamo a Cesare Beccaria, comparato alla scomparsa di qualsiasi garanzia delle libertà negli stati totalitari, precedette appena la scoperta dei campi di sterminio che sarebbe avvenuta proprio da quel mese in poi. Significativa, nelle esperienze compiute da Barile in quel periodo, fu anche la sua collaborazione al settimanale Il Mondo , anch’esso di orientamento azionista, diretto da Alessandro Bonsanti.
Per comprendere pienamente quale sia stata l'influenza delle speranze e dell’ansia di rinnovamento di quegli anni sulle scelte politiche, culturali e di vita di un giovane magistrato che aveva già maturato dure e significative esperienze nella guerra e nella Resistenza, occorre tuttavia ricordare che nei due anni che portarono dalla Liberazione di Roma al 2 giugno 1946, la 'questione istituzionale' (la costituzione provvisoria, la scelta fra monarchia e repubblica e la convocazione dell'Assemblea costituente) si pose al centro delle scelte politiche e culturali degli italiani e soprattutto di chi, come Barile, aveva fatto del Partito d’azione il suo punto di riferimento culturale e politico.
La convocazione dell'Assemblea costituente e la definizione dei suoi poteri erano diventati, infatti, uno dei principali obiettivi politici del Partito d’azione che, a partire dalla approvazione del d. lgt. 151/1944, si era fortemente impegnato per rendere effettive le promesse contenute nella Costituzione provvisoria: la convocazione di un’Assemblea costituente subito dopo la liberazione dell’Italia; l'attribuzione all'Assemblea del potere di approvare la nuova Costituzione e di decidere la forma istituzionale dello Stato (monarchia o repubblica); l'approvazione della legge elettorale dell'Assemblea e dei poteri anche diversi da quello costituente che essa avrebbe potuto esercitare.
Fu la decisiva rilevanza di questi problemi politico-istituzionali che indusse Calamandrei a chiedere a un «giovane magistrato … che si è formato, prima che negli studi nella lotta politica clandestina» di scrivere un saggio sull'Assemblea costituente.
Nacque così, fra gli ultimi mesi del 1944 e il giugno del 1945, quella breve monografia (Orientamenti per la Costituente, Firenze 1945 ) che costituì il vero 'libro di formazione' non soltanto giuridica ma anche politica di Barile, che finì per far maturare dentro di lui la scelta di dedicarsi allo studio del diritto costituzionale.
Il valore storico-politico degli Orientamenti risiede nella lucidità con la quale Barile afferma, da un lato, la piena fiducia nei principali istituti della democrazia liberale. Accanto a questo, tuttavia, la maggior parte del saggio appare dedicata alla critica dei limiti delle democrazie del Novecento a causa della ristrettezza della loro rappresentanza democratica; del mancato rispetto delle minoranze; del centralismo statalista; della non ottemperanza delle loro costituzioni al fondamentale principio della divisione dei poteri.
Da questi limiti storici della democrazia liberale italiana doveva discendere, dunque, l'imprescindibile esigenza dell'approvazione, da parte della Costituente, di una costituzione rigida, non modificabile da parte della sola maggioranza parlamentare e garantita dalla presenza di una Corte costituzionale dotata del potere di dichiarare l'inefficacia delle leggi contrarie alla Costituzione e che doveva essere ispirata, quanto alla forma di governo, alla massima espansione della democrazia rappresentativa; basata su una legge elettorale proporzionale e sul bicameralismo; temperata dall'introduzione del referendum; fondata sull’effettivo pluralismo dei partiti politici (la democraticità dei quali doveva essere prevista dalla stessa Costituzione); sull'investitura fiduciaria dei governi da parte del Parlamento (ma secondo il modello direttoriale) e sul rigoroso rispetto della separazione dei poteri a garanzia, soprattutto, di quell'indipendenza della magistratura che il regime statutario non aveva voluto realizzare.
La circostanza che questo saggio fosse stato scritto mentre era ancora in corso la lotta di liberazione, gli attribuì (così come avvenne per la fondamentale monografia di Costantino Mortati su La Costituente, appena precedente) non solo un importante significato scientifico, che emergeva soprattutto dalla ricostruzione, non consueta nel corso dell’ultimo ventennio, di un vasto panorama di diritto comparato, ma anche un diretto valore politico in relazione al dibattito in corso all’interno del Partito d’azione sulla definizione del 'progetto di Costituzione' che quel Partito intendeva presentare all'Assemblea costituente. Un progetto che si sarebbe fondato, come decise il Congresso azionista del febbraio 1946, sulla proposta di una diffusa democrazia di base equilibrata al vertice da una struttura istituzionale fondata sulla rigorosa separazione dei poteri secondo il modello presidenziale degli Stati Uniti. Rispetto a questo modello, il contributo di Barile si distinse, però, nettamente, come accennato, per il rifiuto del modello presidenziale, che egli considerò pericoloso perché avrebbe condotto ad accentrare l’intero potere esecutivo nelle mani del solo presidente diminuendo le garanzie delle minoranze malgrado il vantaggio di una più netta divisione dei poteri.
Come è noto, il modello presidenziale, caro al Partito d’azione, fu nettamente respinto dalla seconda sottocommissione dell’Assemblea costituente con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi nel quale si stabilì che la nuova Costituzione avrebbe avuto alla sua base una forma di governo parlamentare costruita in modo «da evitare le degenerazioni del parlamentarismo». Nel quadro di quella decisione il modello del governo direttoriale, caro a Barile (un modello nel quale il Parlamento concede la fiducia a un governo che non può però essere sfiduciato prima della scadenza di un termine predeterminato nella Costituzione), fu seriamente discusso. Anche se fu, poi, abbandonato in considerazione della rigidità del suo funzionamento che ne sconsigliava l'adozione in una democrazia di grandi dimensioni come quella italiana.
Il rifiuto della Costituente di adottare una forma di governo di tipo presidenziale non portò, tuttavia, l’Assemblea a ignorare le motivazioni di fondo di quel progetto e che consistevano nella necessità di ispirare la nuova forma di governo a una effettiva separazione dei poteri volta principalmente a garantire l’indipendenza del potere giudiziario. Alla fine, e soprattutto per merito di Calamandrei, quel principio fu chiaramente inserito nella nuova Carta costituzionale ed è significativo che, dopo l'approvazione della Costituzione e lo scioglimento del Partito d’azione, non solo Calamandrei ma anche Barile si sarebbero impegnati in una lunga battaglia per rendere effettiva la realizzazione di quel principio.
Nel 1947 Barile accettò gli inviti del suo maestro Calamandrei ad abbandonare la magistratura, a entrare a far parte del suo studio professionale e a proseguire nell'attività di ricerca, nella prospettiva di intraprendere la carriera universitaria.
Già dall’esordio della sua attività di studioso, Barile dimostrò di essere molto lontano da «… quei giuristi artigiani riposati e raffinati, che non amano il tempestoso clima dei grandi cataclismi sociali… » che erano stati evocati da Calamandrei proprio nella sua introduzione agli Orientamenti per la Costituente. Quasi tutti i suoi primi scritti nacquero, infatti, dal suo bisogno di difendere i principi e il significato fondamentale della Costituzione contro il tentativo della Corte di Cassazione di negare l'immediata imperatività della Costituzione e la sua applicabilità alle leggi anteriori alla sua entrata in vigore. Contro la tesi che negava in radice i due fondamentali principi della diretta e immediata superiorità della Costituzione sulle leggi e quello della sua rigidità, Barile pubblicò, fra il 1947 e il 1950, più di dodici scritti, che si aggiunsero a quelli dei costituzionalisti più giovani come Vezio Crisafulli, Alberto Predieri, Carlo Lavagna e di altri meno giovani, come Mortati, Giorgio Balladore Pallieri, Calamandrei, Carlo Esposito, tutti convinti che la difesa dell'immediata efficacia della Costituzione e della sua avvenuta trasformazione da norma politica in norma giuridica fosse necessaria per respingere il tentativo della Cassazione, di affermare l'esistenza di una continuità tra la forma di Stato del prefascismo e del fascismo e la nuova Repubblica democratica. L'obbligatorietà dell'immediata attuazione della Costituzione non soltanto da parte del Parlamento, ma di tutti gli organi dello Stato, avrebbe anche significato che la magistratura, in attesa dell'entrata in funzione della Corte costituzionale, avrebbe dovuto interpretare le leggi esistenti nel senso indicato dalla Costituzione e avrebbe dovuto non applicarle se ritenute incostituzionali. Lo stesso diritto costituzionale sarebbe così diventato, come aveva scritto Calamandrei, il «diritto del futuro»: una scienza dedicata a elaborare i principi fondamentali che dovevano essere attuati in tutti quei settori del diritto (amministrativo, civile, penale, processuale) che erano stati ritenuti, fino ad allora, fuori dalla Costituzione, considerata legge di valore solo politico, astratta e irrilevante nella concreta applicazione del diritto.
Da questi anni di studio 'militante' nacque la seconda monografia di Barile (La Costituzione come norma giuridica, Firenze 1951) in cui si chiariva il senso della profonda trasformazione in base alla quale le costituzioni del secondo dopoguerra avevano stabilito «una presunzione di (immediata) validità e di efficacia giuridica a favore di tutte le norme costituzionali» dalla quale derivava direttamente «la illegittimità delle leggi anteriori contrarie ad essa e delle posteriori dal momento in cui nascono». In conseguenza di questa assoluta superiorità giuridica della Costituzione anche le giurisprudenze ordinarie e amministrative dovevano, nell'attesa dell'entrata in funzione della Corte costituzionale, dichiarare in relazione ai casi concreti sottoposti al loro giudizio la illegittimità delle leggi contrarie alla Costituzione. Ne conseguiva, secondo Barile, che «le norme costituzionali hanno, per definizione, l’effetto di paralizzare tutte le attività statali, giurisdizionali ed esecutive, che nascano dalla applicazione di leggi ordinarie in contrasto con esse».
La pubblicazione della Costituzione come norma giuridica costituì una svolta nella vita professionale e scientifica di Barile perché grazie a quello scritto egli ottenne, nello stesso anno 1951, la libera docenza e poi l’incarico di diritto costituzionale nell'Università di Siena.
Nella visione di Barile lo studio e la pratica del diritto non erano, però, fine a se stessi ma uno strumento di intervento attivo, nella società. Questa sua concezione etica e realistica insieme del diritto spiega il costante parallelismo che accompagnò il suo impegno scientifico e la sua professione di avvocato. Nacquero così in quegli anni molti suoi scritti dedicati al tema delle libertà nella Costituzione, la maggior parte dei quali erano motivati dallo 'scandalo' della loro mancata attuazione da parte del Parlamento, della pubblica amministrazione e della giurisprudenza. Ricordando quel momento della nostra storia in occasione della pubblicazione di uno dei suoi ultimi studi sulle libertà costituzionali, Barile scrisse che la società italiana di quegli anni «ignorava del tutto l’ampiezza delle libertà in una democrazia moderna, quando di queste libertà, nel 1948 si trovò in possesso quasi senza aspettarselo» (Diritti dell’uomo,1984).
Il grande merito della cultura costituzionalistica di quegli anni fu, dunque, quello di aver combattuto una lunga battaglia per affermare con gli strumenti del diritto (l'interpretazione delle norme e la giurisprudenza), la prevalenza immediata delle norme nuove sulle norme vecchie non soltanto per dimostrare l'incompatibilità con la Costituzione delle singole limitazioni delle libertà poste dalla normativa precedente, ma anche per smantellare, così come fece Barile nella sua terza monografia, Il soggetto privato nella Costituzione italiana (Padova 1953), quella secolare dottrina dell'esistenza di 'limiti naturali' alle libertà concretizzatasi in concetti pseudo giuridici quali, ad esempio, l’ordine e la sicurezza pubblica o il buon costume.
La pubblicazione della monografia sul Soggetto privato valse a Barile la vittoria nel concorso a cattedra di diritto costituzionale bandito dall'Università di Siena nel 1953. In quell'Università Barile insegnò dal 1954 al 1963, anno nel quale fu chiamato dall'Università di Firenze sulla cattedra di diritto costituzionale. Negli anni del suo insegnamento nell'Università fiorentina, che coincisero con la sua piena maturità personale e scientifica, Barile avrebbe dato il meglio di sé non soltanto nell'attività di ricerca ma anche nell’insegnamento. Un insegnamento rivolto non soltanto agli studenti che affollavano le sue lezioni ma anche ai giovani studiosi che si formavano accanto a lui fino a costituire, negli anni, una vera 'scuola' fiorentina del diritto costituzionale. Scuola che sarebbe rimasta negli anni viva e solidale perché ispirata a quel rispetto del pluralismo culturale che aveva sempre contraddistinto il suo maestro. Segno della sua attenzione al tema del rapporto fra l’università e l’insegnamento superiore fu anche la fondazione, nel 1965, ad opera sua, di Giovanni Spadolini, Predieri e Tosi del Seminario di studi e ricerche parlamentari dedicato alla permanente formazione degli aspiranti consiglieri parlamentari (cfr. Caretti, 2013, p. 170).
Come fu ricordato da Barile in una sua lezione tenuta nel marzo del 1990 al Collegio Ghisleri di Pavia (Libertà, giustizia, costituzione, Padova 1993) la prima sentenza della Corte Costituzionale, finalmente costituita nel 1956, cancellò una sentenza appena pronunciata dalla Cassazione in tema di libertà di manifestazione del pensiero. Una decisione che tenne conto anche dell’intervento e della memoria scritta da Calamandrei in collaborazione con Barile.
Da allora, il 'ceto' dei costituzionalisti poté misurarsi non più con un avversario, come era stata quasi sempre la Corte di Cassazione, ma con un alleato, la Corte costituzionale, che sarebbe stata progressivamente affiancata, con il trascorrere degli anni, dalla giurisprudenza dei magistrati affinati nella conoscenza della Costituzione dalla diffusione nelle università dei corsi e degli scritti di diritto costituzionale e dal diffondersi della giurisprudenza della Corte.
In questa triangolazione, che fu decisiva nel processo di attuazione della Costituzione, Barile ebbe, sia attraverso i suoi scritti sia come avvocato, un ruolo essenziale che riguardò non soltanto la difesa dei diritti individuali di libertà ma anche dei diritti delle (e nelle) formazioni sociali, politiche e religiose, come lo status della famiglia, la condizione dei culti acattolici e i privilegi concessi dal Concordato alla Chiesa cattolica. Temi sui quali egli ingaggiò una lunga battaglia che, partendo da una sua relazione al convegno degli 'Amici del Mondo' del 1957, risultò poi essenziale nella formazione di quella giurisprudenza della Corte che riconobbe, alla fine, che i Patti Lateranensi non erano stati 'costituzionalizzati' con la conseguente prevalenza su di essi dei principi supremi della Costituzione.
Nel 1956 la morte prematura di Calamandrei aveva privato i costituzionalisti che si erano più fortemente battuti per l'attuazione della Carta costituzionale di un punto di riferimento fondamentale, ma quella scomparsa fu vissuta da Barile e dalla maggior parte dei costituzionalisti italiani come un passaggio di consegne dalla generazione dei giuristi - costituenti a quella di coloro che si erano formati su quei valori entrati a far parte, grazie ai primi, di una Carta costituzionale che richiedeva, ormai, solo di essere attuata. In questa direzione Barile pubblicò due scritti su due temi carissimi al suo maestro: uno, su Il Ponte del 1957, L’attuazione della Costituzione, un problema sempre più vivo ed attuale; l’altro, Corte costituzionale organo sovrano, che apparve nel 1956 sulla rivista Giurisprudenza Costituzionale appena edita.
Il secondo saggio ebbe un particolare rilievo perché in esso Barile affermò l’esistenza di una sovranità della Corte che si riferiva non soltanto al suo evidente potere di cancellazione delle norme incostituzionali ma anche alla sua capacità di partecipare all'attuazione della Costituzione attraverso la diretta applicazione di quelle norme costituzionali che «spesso si limitano a stabilire (soltanto) il fine, che è talvolta puntualizzato in un valore supremo, come la eguaglianza; la giustizia; la dignità e così via». Un'attuazione della Costituzione destinata ad avverarsi, dunque, attraverso la forza interpretativa e creativa delle sentenze.
Ugualmente importante fu, subito dopo, un lungo saggio, I poteri del Presidente della Repubblica, pubblicato sulla Rivista trimestrale di diritto pubblico del 1958, ove Barile sostenne la piena legittimità costituzionale del comportamento del presidente Giovanni Gronchi che aveva posto il tema dell'attuazione della Costituzione al primo posto dell'agenda politica del Parlamento e del governo, non soltanto per ciò che riguardava l'istituzione della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura (CSM) ma anche per i diritti di libertà; l'eliminazione della disoccupazione; l’ispirazione sociale dell’economia; lo sviluppo del Mezzogiorno; i partiti politici; la politica estera e la pace.
Quella vicenda merita di essere, ancora oggi, ricordata perché essa pose per la prima volta in evidenza che il tema dell'attuazione della Costituzione sarebbe stato destinato ad assumere in Italia un rilievo politico primario attraverso uno scambio di culture e di influenze reciproche fra i teorici delle istituzioni (e fra questi in primo luogo i costituzionalisti) e gli attori politici: come si dimostrò nella seconda legislatura, ancora dominata dall'esperienza centrista ma nella quale si manifestarono, anche grazie alle 'aperture' di Gronchi, quei segnali di svolta politica che porteranno dalla fine del decennio alla nascita dei governi di centro sinistra, i programmi dei quali si richiameranno in molti dei loro punti all'attuazione della Costituzione.
Il saggio sui poteri del presidente della Repubblica avrebbe costituito, e proprio in relazione alla peculiarità di questa figura, la struttura della futura riflessione di Barile sulla forma di governo italiana. Già nella prima edizione del suo Corso di diritto costituzionale del 1962 (che fu da subito un punto di riferimento fondamentale degli studenti e degli studiosi del diritto costituzionale) Barile sviluppò tutta la ricchezza e l'originalità della figura del presidente, organo di garanzia e di indirizzo politico e costituzionale in quanto dotato del potere di spingere tutti i poteri dello Stato verso l'attuazione della Costituzione. Queste sue tesi sarebbero state compiutamente sviluppate nel saggio sul presidente della Repubblica apparso in occasione del decennale della Costituzione nel 1958 e poi nella sua voce Presidente della Repubblica pubblicata sul Novissimo Digesto Italiano del 1966.
Tuttavia, Barile continuò a ritenere che la forma di governo realmente vigente non potesse essere definita che in relazione al sistema delle libertà che a esso faceva da contrappeso. In effetti, se si guarda la bibliografia di Barile dalla fine degli anni Cinquanta al 1984, quando pubblicò il suo fondamentale saggio sui Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, non si può non rimanere colpiti dal costante parallelismo fra lo sviluppo dei suoi studi sulla forma di governo italiana (e sulla nascente forma di governo comunitaria) e il crescere dei suoi interessi sul sistema complessivo delle libertà, tanto che appare esatto definire Barile sia come il giurista delle libertà sia come il giurista delle garanzie costituzionali (Cheli, 2000).
In questo quadro deve essere ricordata la sua collaborazione alla nascente Enciclopedia del Diritto, per la quale scrisse alcune voci fondamentali quali quelle sul diritto di associazione e di riunione (1959) e su quelle di corrispondenza (1962), di domicilio (1964), di manifestazione del pensiero (1974), voce destinata a diventare monografia nel 1975. Accanto alla riflessione scientifica sui problemi delle libertà (riflessione che divenne storico-giuridica nel suo saggio sulla pubblica sicurezza che comparve negli Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, pubblicati a sua cura nel 1967) il contributo di Barile alla crescita del sistema delle libertà avvenne anche, come detto, attraverso l’esercizio della sua professione di avvocato e questo nel solco di una storica tradizione che gli era stata direttamente trasmessa da Calamandrei ma che era divenuta ancora più importante da quando la Costituzione aveva inserito anche i giudici ordinari e amministrativi nel circuito del giudizio di costituzionalità.
In effetti sotto questo profilo l'influenza di Barile fu notevole non solo nello sviluppo della giurisprudenza della Corte costituzionale ma anche di quella ordinaria e amministrativa grazie alle sue 'difese' che riguardarono, nell’arco di un trentennio, tutti i più importanti diritti di libertà individuali e collettivi. Quelle difese, come è stato ricordato da un suo allievo, Stefano Grassi (Paolo Barile avvocato, relazione inedita, 2012), riguardarono le più forti limitazioni alle libertà contenute non solo nelle leggi di pubblica sicurezza ma anche in tutti i codici nati nel periodo fascista e che agli inizi degli anni Sessanta erano ormai diffusamente avvertite come intollerabili.
A questo proposito sono da ricordare almeno l’intervento di Barile nel processo contro il vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, accusato di diffamazione per aver definito «pubblici concubini» due giovani che avevano contratto il solo matrimonio civile; la difesa di padre Ernesto Balducci e di Giorgio La Pira, processati per aver fatto proiettare il film Non uccidere, di Claude Autant-Lara, privo del visto della censura; il suo intervento alla Corte costituzionale per sostenere la costituzionalità della propaganda dei contraccettivi e l'incostituzionalità dell’obbligo dell'iscrizione all’albo dei giornalisti per i direttori della stampa periodica; la difesa della costituzionalità della legge del 1970 che aveva introdotto il divorzio, oggetto del referendum abrogativo del 1974; quella sulla necessità del rispetto del diritto alla difesa nelle cause di scioglimento dei matrimoni concordatari; la difesa della libertà di insegnamento nella controversia tra Franco Cordero e l’Università cattolica.
Accanto alla costante attenzione alle libertà individuali e a quelle collettive, il percorso di Barile nel sistema delle libertà costituzionali si caratterizzò, a partire dal 1970, dalla sua 'scoperta' del cambiamento del significato delle libertà tradizionali in relazione allo sviluppo di quei diritti, da lui definiti «di terza generazione», che stavano nascendo dal mutamento del rapporto fra l’autorità e la libertà in relazione ai nuovi assetti sociali ed economici (come i diritti ambientali e il diritto alla salute); quelli che nascevano dall’emergere di richieste riguardanti la sfera più profonda della personalità umana e dell'identità personale; quelli attinenti al rapporto fra l’individuo e il nuovo sistema dei mass media, come la privacy e il diritto all’informazione.
Il diritto all’informazione divenne, per Barile, un impegno costante nella sua attività scientifica e si sviluppò anche nella direzione di ricerche collettive di ampio respiro riguardanti l’Italia e i modelli europei, nella consulenza ai partiti e ai governi e alla stessa RAI e nella sua opera all’interno del governo Ciampi per una radicale riforma della RAI e del sistema radiotelevisivo italiano.
In questa pluridecennale ricerca i punti cardinali di Barile rimasero sempre gli articoli 21 e 43 della Costituzione, che egli aveva posto alla base del suo commento alle due storiche sentenze della Corte costituzionale del 1974 sul monopolio statale del servizio radiotelevisivo, che avevano riconosciuto il monopolio statale sulla televisione (cfr. Barile, 1975). Dopo l'approvazione da parte del governo Craxi della liberalizzazione delle trasmissioni radiotelevisive private su tutto il territorio nazionale, Barile continuò a difendere il ruolo pubblico della RAI ma condannò la nascita di un duopolio dell'emittenza televisiva, tutt’altro che risolto dalla «… spartizione puntualmente applicata (attraverso la lottizzazione fra i partiti delle tre reti della azienda) dai vari consigli di amministrazione… con il conseguente avvilimento delle professionalità» esistenti nella RAI (la Repubblica, 9 febbraio 1984).
La necessità di difendere il pluralismo 'esterno' dell'informazione evitando posizioni di monopolio o di oligopolio dei titolari delle reti, e quello 'interno', tutelando la libertà degli operatori dell'informazione, spiega perché Barile, nominato ministro dei Rapporti con il parlamento nel governo Ciampi del 1993, ritenne indispensabile che il governo si qualificasse attraverso una profonda riforma del sistema radiotelevisivo: punto centrale di quella libertà di informare e di essere informati che non si era mai compiutamente realizzata nella storia dell’Italia unita.
Per realizzare questo non facile obiettivo, Barile chiese a Ciampi l'istituzione di uno speciale comitato dei ministri che fu effettivamente nominato, il 4 giugno 1993, e fu composto da un presidente (Barile stesso), dal sottosegretario alla presidenza Antonio Maccanico e da quattro ministri: Leopoldo Elia, Sabino Cassese, Livio Paladin e Maurizio Pagani. Il disegno di legge approvato dal comitato dei ministri modificava radicalmente la cosiddetta legge Mammì (223/1990) sul sistema radiotelevisivo spostando dal governo al Parlamento le funzioni di indirizzo e di controllo sull'emittenza pubblica; impediva la creazione di posizioni dominanti nel sistema radiotelevisivo e dell'informazione vietando, fra l’altro, ai privati di essere titolari di più di una rete televisiva o radiofonica nazionale; prevedeva la drastica riduzione della pubblicità televisiva e la commisurazione dei canoni di concessione ai fatturati; introduceva principi e organi (ad esempio un consiglio di sorveglianza) per assicurare la trasparenza della gestione della RAI che avrebbe dovuto, in base alla nuova convenzione, assicurare la priorità del servizio dell'informazione e garantire l'imparzialità dei giornalisti non solo nei programmi informativi ma in tutte le trasmissioni.
Con vivo disappunto di Barile il disegno di legge approvato dal comitato non fu mai portato alla discussione del Consiglio dei ministri perché suscitò una fortissima opposizione nei maggiori partiti (diventati gli 'azionisti di riferimento' della concessionaria pubblica), nella Fininvest e nella stessa RAI, entrambe sostanzialmente appagate dalla situazione di duopolio creata dalla legge Mammì. Il fronte degli oppositori alla riforma del sistema dell'informazione fu, anzi, così ampio da costringere il governo ad annullare la convocazione della conferenza nazionale sulla radiotelevisione che era già stata annunciata per il novembre del 1993 e a rinunciare anche all'emanazione di un decreto legge che avrebbe dovuto introdurre severe sanzioni nel caso di violazioni della disciplina sulla propaganda elettorale (cfr. Chimenti, 2004).
Nella sua prefazione (del 1994) al libro di Carlo Chimenti sull'esecutivo Ciampi, Barile, pur orgoglioso dell'esperienza di quel governo, si sarebbe rammaricato dei risultati ottenuti non soltanto sul fronte del sistema dell'informazione ma anche su quello della riforma elettorale. Riforma che il governo aveva seguito e 'tallonato' ma rispetto alla quale, coerentemente al mandato ricevuto, non era intervenuto nel merito. Anche alla luce dei risultati delle elezioni del 1994, Barile definì penoso l’esito di quella riforma perché, pur apprezzando l'introduzione del collegio uninominale (da lui sostenuto dai tempi della Costituente) lamentò la rinuncia all'introduzione del doppio turno, giudicato utilissimo «perché in tal modo… si sarebbero formate, fra il primo e il secondo turno, coalizioni di partiti già d’accordo per formare una maggioranza di governo».
Questo giudizio, pronunciato in occasione della riforma elettorale maggioritaria che segnò il passaggio fra la prima e la seconda Repubblica, deve essere collegato a una lunga riflessione sul ruolo dei partiti che Barile cominciò agli inizi degli anni Ottanta quando il centrosinistra, da lui giudicato con favore, iniziò a trasformarsi nell'esperienza del 'pentapartito' nella quale la validità della forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione iniziò a essere messa seriamente in discussione da chi riteneva che l'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica e l’ampliamento delle sue funzioni avrebbero rappresentato un valido antidoto alla 'crisi della Repubblica'.
Contro questa prospettiva Barile ribadì costantemente la sua convinzione sulla permanente validità della figura costituzionale di un presidente tenuto non a esercitare funzioni di indirizzo politico di maggioranza ma, invece, a garantire essenzialmente la puntuale osservanza dei valori e dei corretti comportamenti costituzionali da parte di tutti gli attori politici. La chiarezza di questa concezione spiega perché Barile, sostenitore di una riforma elettorale che avrebbe permesso agli elettori di incidere sulla formazione dei governi (cfr. La crisi della Repubblica, in La Repubblica, 18 aprile 1990), si opponesse fermamente, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, alla proposta presidenzialista avanzata dai socialisti, perché era convinto che l'elezione popolare del presidente avrebbe snaturato la sua funzione di garante e avrebbe condotto ad attribuirgli poteri analoghi a quelli del presidente francese.
La convinzione di Barile della necessità di ancorare il ruolo del presidente della Repubblica a quello di garante del corretto funzionamento delle istituzioni, così come individuato dai costituenti, si rafforzò durante il settennato di Francesco Cossiga, da lui fortemente criticato fin dal suo messaggio alle Camere del 1991 nel quale si ipotizzavano radicali modifiche alla Costituzione attraverso l'attribuzione di poteri costituenti al Parlamento o mediante l'elezione di una nuova assemblea costituente. Il dissenso di Barile divenne ancora più netto quando, con una serie di comportamenti più che discutibili (dalla autodenuncia sul 'caso Gladio' al preannuncio del rifiuto di promulgazione di alcune leggi, o della 'apertura di dossier segreti') il presidente si fece portatore di un indirizzo politico proprio, diverso e anche contrastante con quello del Parlamento e del governo, fino a sfiorare quel reato di attentato alla Costituzione che, come ricordò Barile, si realizza anche attraverso il solo intento di colpire o di turbare il corretto funzionamento delle istituzioni repubblicane. Quelle critiche divennero ancora più forti quando Cossiga sembrò abbandonare il ruolo di garante della stessa separazione dei poteri fra esecutivo e giudiziario impedendo al CSM di replicare alle aspre critiche espresse dal presidente del Consiglio Craxi al tribunale di Milano che aveva condannato l’Avanti! per la diffamazione di un pubblico ministero.
Lo scontro con Cossiga divenne poi radicale quando, nel 1997, fu istituita la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Su quella vicenda Barile intervenne ripetutamente (si veda una raccolta dei suoi brillanti interventi giornalistici in Tra Costituzione e riforme, 2001) sia nel merito che nel metodo delle riforme proposte. Nel metodo, netto fu il suo dissenso da Cossiga quando il presidente ipotizzò un referendum popolare sull'istituzione della Bicamerale e aggiunse che la sua mancata istituzione avrebbe significato l'implicita approvazione da parte del corpo elettorale della elezione di una nuova assemblea costituente.
Contro questi suggerimenti, da Barile considerati irresponsabili in quanto volti a cancellare del tutto il principio della rigidità della Costituzione e della sua continuità storica, Barile scrisse pagine durissime, ma altrettanto netta fu la contrarietà alla legge istitutiva della Bicamerale, che prevedeva l'effettuazione di un unico referendum confermativo sulle riforme adottate dalla stessa Bicamerale. In quell'occasione Barile ricordò che, secondo la dottrina elaborata dalla Corte sui referendum abrogativi, i quesiti avrebbero dovuto essere omogenei ma questo non sarebbe stato, invece, possibile nel momento nel quale il corpo elettorale sarebbe stato chiamato «… ad approvare riforme istituzionali così diverse fra loro».
Al di là del metodo delle riforme, rimase fermo il disaccordo di Barile sulla principale innovazione introdotta dalla Bicamerale nella forma di governo: l'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, pur in un quadro di poteri non molto diverso da quello previsto dalla Costituzione del 1948, perché l'elezione diretta avrebbe comunque condotto, da sola, alla creazione di 'un organo nuovo', dominus o prigioniero della maggioranza che lo avrebbe sostenuto nella sua elezione. Organo politico, dunque, e non di garanzia, e destinato per di più a entrare in conflitto con gli altri organi di indirizzo politico esistenti: il governo e il Parlamento.
La difesa dell’impianto originario della Costituzione e della forma di governo parlamentare, la riforma delle leggi elettorali per consentire ai cittadini una scelta non simbolica dei loro rappresentanti, la riforma del sistema dei partiti in attuazione dell’art. 49 della Costituzione costituirono dunque, per quel che riguarda la forma del governo costituzionale, i costanti punti di riferimento ai quali Barile rimase costantemente fedele.
Le battaglie da lui combattute nell’ultimo ventennio della sua vita si svolsero, però, non soltanto sul rassicurante terreno scientifico ma anche su quello più controverso e opinabile della politica; ed è importante, perciò, cercare di chiarire quale sia stato il suo rapporto con la politica e i partiti dopo la sua convinta adesione al Partito d’azione. Dopo lo scioglimento del Partito, Barile non si iscrisse ad altre formazioni politiche ritenendo, come molti ex azionisti, di essere rimasto un militante 'senza patria' della sinistra italiana, finché la sua vicinanza a Giolitti, ad Arrigo Benedetti, a Eugenio Scalfari e agli altri 'Amici del Mondo', poi fondatori de L'Espresso, lo portarono a impegnarsi nella politica nel modo a lui più congeniale: l’impegno critico continuo e attento sulle vicende politiche e istituzionali italiane che egli esercitò prima nelle rubriche de L'Espresso e poi su quelle de la Repubblica.
È da ricordare, però, che accanto a quel tipo di impegno, Barile non rifuggì dall’assumersi responsabilità più dirette quando sembrarono delinearsi svolte politiche che avrebbero potuto essere importanti per la società italiana. Questo accadde, ad esempio, quando parve prospettarsi la possibilità, poi tramontata, di un'alternativa di sinistra al più che trentennale predominio della Democrazia cristiana. In quel clima, Barile rispose positivamente alle richieste che gli pervennero dal mondo della sinistra fiorentina accettando di candidarsi nelle liste del Partito comunista italiano (PCI) per il Consiglio comunale di Firenze del 1985, elezioni che portarono alla nomina a sindaco del suo amico Massimo Bogianckino, già sovrintendente del Maggio musicale e capolista del PSI. In quella tornata amministrativa, Barile assunse, anche se per breve tempo, la carica di capo del gruppo consiliare del PCI.
La delusione per quanto accadde dopo: il 'compromesso storico', la progressiva perdita da parte del PSI della sua identità originaria e i ritardi con i quali il Partito di Berlinguer si mosse sulla strada del riformismo democratico, lo indussero anni dopo a dichiarare che la sua partecipazione come ministro per i Rapporti con il Parlamento al governo Ciampi era avvenuta per la sua profonda solidarietà al suo antico compagno azionista e in nome di quegli ideali, ma non come politico bensì come 'puro tecnico' delle istituzioni. Tre anni dopo, nel 1996, sostenne invece il tentativo dell’Ulivo ritenendo che potesse corrispondere a quel modello inclusivo e plurale della sinistra che era stato proprio del suo vecchio, e amatissimo, Partito d’azione.
Paolo Barile morì a Firenze il 1° giugno 2000. Nel 1991 aveva subito a Boston un delicato intervento chirurgico, che riuscì felicemente e gli consentì ancora quasi dieci anni di vita serena e operosa.
Opere citate. Orientamenti per la Costituente, Firenze 1945; La Costituzione come norma giuridica, Firenze 1951; Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova 1953; Corso di diritto costituzionale, Padova 1962; La libertà di manifestazione del pensiero, Milano 1975; Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984; Gli enti lirici fra crisi e riforma, a cura di P. Barile - S. Merlini, Firenze 1984; Libertà, giustizia e Costituzione, Padova 1993; Tra Costituzione e riforme, a cura di R. Cassigoli - P. Barile, Firenze 2001.
E. Cheli, Ricordo di P. B. (discorso inedito pronunciato il 16 novembre 2000 a Roma presso l' Accademia nazionale dei Lincei).
M. Galizia, Liberalsocialismo e costituzionalismo in P. B., in Libertà e diritti nella prospettiva europea, Padova 2002; C. Chimenti, Il governo dei professori. Cronaca di una transizione, Firenze 2004 (1a ed. 1994), ad ind.; B. Sordi, Calamandrei rettore, in Piero Calamandrei, rettore dell’Università di Firenze. La democrazia, la cultura, il diritto, a cura di S. Merlini, Milano 2005; P. Caretti, B. P., in Dizionario biografico dei giuristi italiani, secoli XII - XX, II, Bologna 2013, p. 170 ss.; L. Barile, Subito prima della Costituente, prefazione a P. Barile, Orientamenti per la Costituente, Bologna 2016.