BELMESSERI (Belmessere, Belmisseri), Paolo
Nacque a Pontremoli, in Lunigiana, probabilmente verso il 1480. Vi sono biografi che lo ritengono originario di Luni (Marini, Lancetti), fraintendendo il senso di alcuni versi d'una sua silva.
Il padre, Giorgio, discendeva da una delle famiglie più note della regione e pare fosse un buon cultore di lettere latine e greche. La ricostruzione della genealogia del B. è facilitata dalla sua silva dedicata a Francesco I (De authoris genealogia), nella quale afferma, non senza qualche iattanza, d'essere nato da un "genus titulis insìgne virisque": nomina un capostipite, Corradino, poi un Bartolomeo, che fiorì nei primi decenni del sec. XV e dal quale nacque il padre, Giorgio, un Giovanni, valente giurista, un Corrado e un Lazzaro, anch'egli giureconsulto. Altri Belmesseri ricordano il Campi e il Ferrari: e tra costoro un Pellegrino Belmesseri, mediocre letterato e corrispondente di umanisti ai primi dei Quattrocento, del quale è stata pubblicata nel 1880 un'Epistola poetica.
Il B. studiò medicina a Bologna, secondo il cursus studiorum allora tradizionale, alternando cioè ai corsi di specializzazione quelli di filosofia, di logica e di teologia. La sua carriera universitaria ebbe inizio, sempre a Bologna, nel 1512: per quell'anno infatti l'Alidosi lo ricorda come lettore di logica la sera, di medicina la festa, di filosofia "al straordinario". Per qualche tempo fu probabilmente un lettore esterno, forse senza un vero e proprio stipendio. L'orario stesso delle lezioni fa capire come la sua fosse un'attività marginale, sottoposta alle esigenze dei corsi ufficiali. Prima del 1519 egli cominciò a leggere medicina all'ora nona; e intorno a questi anni si può collocare l'inizio di un suo rapporto fisso, da stipendiato, con lo Studio bolognese. A Bologna sposò una sorella di Traiano Accursio. I rotuli e gli annali di quella università ne registrano i corsi solo fino al 1524, ma vi è in proposito una certa discordanza tra le fonti. Il soggiorno bolognese del B. dovette prolungarsi infatti, tranne alcune parentesi veneziane (1527) e romane, all'incirca fino all'epoca del congresso di Bologna (1530) e probabilmente fino al 1532.
In una sua elegia al Guicciardini, pubblicata ai primi del 1534 a Parigi nella raccolta delle opere poetiche, lamenta il mancato pagamento di un'adeguata mercede per il suo decennale insegnamento all'università. Sappiamo che il Guicciardini ebbe la carica di governatore a Bologna solo nell'aprile del 1531: non è dunque concepibile che una simile protesta si riferisca (come pensa il Costa) al periodo 1512-20. In un suo epigramma egli si lamenta di nuovo per essere stato mal remunerato, quando accorse spontaneamente da Bologna in aiuto dei Veneziani, durante l'epidemia che colpì la città nel 1515-1527. E tra i personaggi ch'egli ricorda, nella stessa raccolta, compare anche il noto filosofo Ludovico Boccadiferro, che inaugurò il proprio insegnamento bolognese solo nel 1528. Ma la testimonianza decisiva è proprio il B. ad offrirla, quando, nella dedica a Francesco I di un opuscolo accluso all'edizione parigina (1534) delle opere poetiche ma stampato probabilmente nella stessa città e presso lo stesso editore (Simon de Colines) negli ultimi mesi del 1533, parla di sé come di un "senex, medicus, Bononiae legens", che ha rinunciato a tutti i piccoli comodi pur di unirsi, nonostante l'età avanzata, al gaudio universale per le nozze del delfino, avvenute a Marsiglia nell'ottobre del 1533. L'opuscolo contiene infatti, tra l'altro, un Epitalamio per le nozze di Enrico e di Caterina de' Medici, che fruttò al B. il lauro poetico. Pur tenendo il dovuto conto del tono fortemente enfatico di tutto il contesto e di una naturale civetteria, possiamo concludere che egli avesse toccato e forse varcato a quell'epoca i cinquant'anni e che si ritenesse ancora membro dell'Ateneo bolognese.
L'inizio dei rapporti del B. con Clemente VII non sembra precedere di molto i tempi del congresso di Bologna: anzi non è improbabile che proprio in quell'occasione egli sia stato presentato al pontefice. Anche in questo caso le testimonianze non concordano: mentre il Costa (non si sa su quali basi) afferma ch'egli fu chiamato proprio da Clemente VII a Roma, come medico di corte, il Campi, come del resto tutti coloro che risalgono alla testimonianza del Marini, ritiene ch'egli abbia ricevuto questo incarico, insieme con la cattedra di teologia e di medicina teorica nell'Ateneo romano, solo dal successore di Clemente, il papa Paolo III.
In un certo senso i due biografi si compensano a vicenda: se è vero infatti che il B. non si stabilì definitivamente a Roma se non negli ultimi mesi del 1534, è anche vero che negli anni immediatamente successivi al congresso di Bologna la sua vita professionale (sia come medico sia come teologo e poeta) appare strettamente legata agli spostamenti della corte pontificia. In questo periodo probabilmente strinse alcune importanti relazioni, di cui resta traccia nella sua corrispondenza poetica, con alcuni grossi personaggi del seguito pontificio, come il cardinale Giovanni de' Medici, il card. G. B. Pallavicino, il card. Giovanni Salviati. Per la tomba del padre di quest'ultimo dettò un epitaffio. Negli anni bolognesi il B. dovette avere anche qualche contatto con l'Ariosto: un rapporto probabilmente di semplice conoscenza, che in un'elegia al conte Cornelio Lambertini per la morte del poeta diviene enfaticamente profonda amicizia.
Di fronte a Clemente VII il B. discusse, nel 1532, a Bologna, alcune Conclusiones di carattere teologico. Circa un anno dopo, nel settembre del 1533, s'imbarcò col papa e con tutta la sua corte per Marsiglia, per assistervi alle nozze del delfino, Enrico d'Orléans, con Caterina de' Medici. Un'incisione, che precede la sua raccolta di opere poetiche, comprendente l'epitalamio composto per l'evento, lo mostra nell'atto di ricevere la corona d'alloro da Francesco I, mentre Clemente cinge al suo collo un'insegna cavalleresca.
Invece di tornare in Italia con la corte pontificia, il B. accettò l'invito di Francesco I e si unì al suo seguito nel viaggio di ritorno verso Parigi. Erano con lui altri uomini di lettere e avventurieri italiani, come Giulio Camillo. Nella capitale francese, protetto da Francesco e da suo figlio Enrico, si trattenne probabilmente per circa un anno. Ebbe qualche incarico ufficiale, se tra le sue elegie ve n'è una dedicata agli scolari parigini, in occasione della prolusione ad un corso su Aristotele. Tra i suoi amici, spesso ricordati nelle dediche di brevi elegie ed epigrammi, v'erano, accanto ai membri della colonia italiana (come il Teocreno, il Camillo, il principe di Melfi col figlio Antonio), alcuni tra i più illustri rappresentanti della vita culturale e politica della Francia: il Budé, il Du Prat, il Montmorency, il St.-Amboise. Oscure discordie sorte forse nel seno di questo gruppo, o più probabilmente nell'ambiente universitario, costrinsero il B. a rientrare in Italia: questo almeno appare il senso di alcuni epigrammi non facilmente decifrabili. Era a Roma ormai da tempo quando Paolo III salì al pontificato (ottobre 1534): circa un mese dopo, a giudicare dall'explicit, usciva infatti pei tipi di A. Blado una strana operetta del B. dedicata al nuovo papa: si trattava di una riduzione dei primi due libri De animalibus di Aristotele in trentasei elegie latine. Nella prefazione il B., che si dice professore di teologia e medicina teorica presso la Sapienza, manifesta tutta la sua gratitudine al pontefice per l'onore concessogli, traccia un breve corso dei suoi studi, affermando di aver tratto buoni profitti dalla medicina pratica e dichiarandosi pronto a quella carriera che il destino e il suo protettore hanno scelto per lui.
Fin qui le notizie sicure: il Costa (sulla scorta del Campi, a quanto pare) afferma ch'egli insegnò teologia e medicina a Roma fino al 1544, anche se i rotuli di quell'università, non fanno menzione di lui (Renazzi). A meno che non sia il B. quel "Paulus physicus" che compare talvolta, nei documenti riportati dal Renazzi, fino al 1545-46: è vero comunque che il più antico rotulo consultabile, dopo la ricostituzione farnesiana dell'università, cioè quello del 1539, non riporta questo nome tra gli stitendiati, né per la teologia né per la medicina teorica. Anzi, proprio in quell'anno si fa menzione di un nuovo docente per quest'ultima materia, Giustiniano Finetti da Monte Lupone, chiamato da Padova. Il silenzio dei documenti sulla fine dei B., dopo il conseguimento dell'alloro poetico e i grandi onori che gli erano toccati a Parigi e a Roma, lascia sospesa su questo personaggio un'ombra. Che è poi forse la stessa che ancora grava sulla fine repentina di certa cultura umanistica, tipica delle corti pontificie medicee, travolta e superata dagli eventi nel breve giro di qualche anno.
Il Marini suppone che possa essere figlio del B. quel Fabio Belmesseri che i ruoli del Palazzo pontificio nominano tra i medici proposti a Pio IV, assunto al pontificato.
L'opera poetica del B., che è poi tutto quanto ci resta di lui, si riduce a due raccolte, stampate a distanza di poco meno d'un anno l'una dall'altra.
La raccolta principale (Pauli Belmisseri pontremulani Artium et Medicinae doctoris, comitis et poetae laureati opera poetica, Parisiis 1534) comprende tutta la sua produzione lirica, epigrammatica, encomiastica e consta di due parti ben distinte al punto che qualche autore ha pensato che la seconda sia stata stampata come opuscolo a parte alcuni mesi prima e poi acclusa all'edizione definitiva. È difficile, per la parte lirica ed elegiaca della produzione del B., stabilire delle date. Molto probabilmente essa va riportata, in gran parte, al decennio 1520-30. Anche perché gli anni che vanno dal 1530 al '34 appaiono in gran parte dedicati ad una produzione di carattere quasi esclusivamente encomiastico. La raccolta si apre con un libro di egloghe, tutte piuttosto tradizionali nel contenuto e dedicate ad importanti personaggi della corte francese. Ai miti già così stanchi di questa letteratura idillica si sovrappone il tipico repertorio cortigiano di querimonie personali, il compianto delle proprie miserie, la retorica della pace agreste. Segue un poemetto in due libri, Heptados ovvero De septenario numero libri duo. L'opera, chiaramente concepita in lode di Clemente VII, si ricollega in maniera assai esteriore a certa tradizione esoterica e misteriosofica già ampiamente rappresentata nella produzione umanistica quattrocentesca. Lo schema è molto semplice: nel primo libro il simbolo del sette è esaminato attraverso i suoi significati astrologici, mitologici, storici, cioè come simbolo profano. Nel secondo libro il valore del numero come paradigma di perfezione e di compiutezza è studiato attraverso molteplici esempi di storia sacra. Il poema, nel complesso, si presenta come un catalogo erudito, di impegno poco superiore a quello d'un elegante gioco di società, se si toglie, all'inizio dell'opera, un'esortazione alla crociata contro i Turchi, che è un po' il tema centrale delle rime del B. e che, dati i tempi, non fa che ribadire il carattere evasivo e mitizzante della sua poesia. La raccolta continua con libri di silvae, elegie, epigrammi e distici. In appendice sono riportate alcune Conclusiones di carattere teologico disputate dal B. a Bologna nell'anno 1532 di fronte a Clemente.
La seconda parte della raccolta contiene, oltre all'Epitalamio per le nozze di Enrico e di Caterina de' Medici, tre epistole poetiche a Clemente VII e a Francesco I, nelle quali il B. riprende il suo tema favorito, quello della crociata. Degli eventi che avevano sconvolto la vita italiana negli ultimi decenni, fino al disastroso epilogo del 1527, delle discordie religiose, la sua poesia serba una memoria lontana e falsata, come filtrata attraverso il prisma dell'esaltazione retorica, del mito, di una concezione della storia che rifiuta ogni esperienza, risospinge la realtà nella confusione idillica o la schiaccia coi fantasmi del passato. Tacito si sovrappone a Lutero, Cesare a Francesco I, la Roma augustea alla Roma clementina, devastata dai lanzi, moralmente sotto accusa. La crociata rappresenta il rilancio di una unità morale e religiosa ormai da tempo scomparsa in Europa.
Per i pochi storici che se ne sono occupati, la parte più viva dell'opera del B. sono le elegie, in particolare quelle d'argomento amoroso, alcune delle quali parvero al Costa addirittura esemplari. In effetti, sia pure entro gli schemi ovidiani e catulliani più tradizionali, c'è in alcune di esse una violenza passionale sorprendente. Altre invece ci offrono, di nuovo, una testimonianza tutto sommato scoraggiante di come gli eventi più gravi del mondo contemporaneo fossero rivissuti tra questi epigoni di un umanesimo cortigiano, idealizzante, fabbricatore di miti occasionali.
Del B. medico non restano che le testimonianze indirette della sua perizia pratica. Ma a ricordo dei suoi interessi scientifici qualcosa rimane: si tratta di quella riduzione dei primi due libri De animalibus di Aristotele in elegie di varia lunghezza e di stile lucreziano (Libri II primi Aristot. De Animalibus elegantissime... in triginta sex elegias nuperrime a Paulo Belmesserio translati, Romae 1534) che è l'ultimo atto di presenza del B., prima della sua scomparsa. La volgarizzazione è spesso elegante: l'aridità didascalica della materia si dimentica nel fluire di versi stilisticamente perfetti, frutto di un'ispirazione naturalmente imitativa. Nello stesso anno, seguendo l'esempio di altri Stati italiani, Paolo III volgeva ogni cura al restauro delle facoltà scientifiche e teologiche della Sapienza. L'insegnamento tornava ai rigori della vecchia tradizione aristotelica, al rozzo latino dei manuali specialistici. La fine del B. coincide col declino sempre più accentuato della retorica di stampo umanistico nelle università.
G. Sforza segnalò l'esistenza di alcune poesie latine del B. in un manoscritto del sec. XVI, contenente Il Monte Parnaso di F. Oriolo da Bassano, posseduto dal marchese G. Campori di Modena. Suoi versi vennero stampati in Poesie di P. B., tradotte da B. Massai, Parma 1857, e in E. Costa, Antologia della lirica latina in Italia nei secc. XV e XVI, Città di Castello 1888, pp. 104-106.
Fonti e Bibl.: B. Campi, Centone contenente memorie di molte famiglie di Pontremoli, ms. presso la famiglia Uggeri di Pontremoli, capp. XXXVII-XXXVIII; G. U. Pasquali Alidosi, Li dottori forest. che in Bologna hanno letto teologia, filosofia, medicina et arti liberali, Bologna 1623, p. 63; K. Kestner (Gessnero), Bibliotheca medica, Ienae 1746; G. Targioni Tozzetti, Relazione d'alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, Firenze 1777, XI, p. 410; G. Marini, Archiatri pontifici, I, Roma 1784, pp. 376-79; F. M. Renazzi, Storia dell'Università degli Studi di Roma, II, Roma 1804, p. 109; E. Gerini da Fivizzano, Memorie stor. d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, II, Massa 1829, pp. 247-49; V. Lancetti, Memorie di poeti laureati, Milano 1839, p. 405; Peregrinus de Belmesseris, Epistula, a cura di G. Sforza, Lucae 1880, pp. 29-32; E. Costa, P. B. Poeta pontremolese del sec. XVI, Torino 1887; Id., Di un'elegia erroneamente attribuita a Ercole Strozzi, in Giorn. stor. d. letter. ital., XI (1888), pp. 378 ss.; XIV (189o), p. 300; G. M. Ferrari, Chronicon pontremulense, a cura di G. Sforza, Lucca 1887, passim; F. Flamini, Studi di storia letter. ital. e straniera, Livorno 1895, pp. 334 s.; Id., Il Cinquecento, Milano s.d., p. 126 e passim; P. Pasquali, P. B. pontremolanus, Pontremoli 1937.