BENI, Paolo
Non è certa la data della sua nascita, anche se diverse testimonianze raccolte dallo Iacobillo affermano che al momento della morte, avvenuta in Padova il 12 febbr. 1625, egli aveva compiuto settantadue anni. Il Serassi (Vita di T. Tasso, II, p. 396) sostiene invece ch'egli morì nel febbraio dell'anno successivo (1626). Anche qui (come in tanti altri casi) può essere intervenuta qualche complicazione per la confusione tra anno comune e anno veneto. Doveva essere nato comunque intorno al 1552-53, forse a Candia, da una famiglia di origine umbra, più esattamente di Gubbio. Il più giovane fratello lacopo, noto giureconsulto, nacque infatti a Gubbio.
Alla sua nascita in Grecia il B. sembra alludere nel I discorso della Comparatione di Omero, Virgilio e T. Tasso, dicendo d'essere giunto alla "Reina d'adria" (Venezia) e poi " in questa nuova e famosa Athena (Padova) dal suo greco terreno, famoso al presente per mille doni di natura, non meno che ne gli antichi tempi fass'anco per cento città illustre e chiaro". Non è detto comunque che questo discorso, pronunciato sotto il nome di Accadeniico Nomista, debba per forza alludere alla nascita dei Beni. Che abbia ricevuto la sua prima educazione a Gubbio lo sappiamo da lui stesso e da molti biografi che scrissero in data di poco posteriore alla sua morte: di essi alcuni affermano che egli nacque a Gubbio. Il cognome d'altronde è molto diffuso in Umbria e nelle vicine Marche: il B. stesso si firmava di frequente Eugubinus.
Intorno al 1574 era a Padova, studente all'università e collega, com'egli ricorda, dei Tasso nell'Accademia degli Animosi, dove ebbe modo di conoscere personalmente il poeta di cui sarà trenta anni dopo il più fiero difensore.
Molti contestano quest'ultima circostanza, ricordando che il Tasso aveva ormai lasciato Padova da circa dieci anni (fra altri, A. Zeno e G. M. Mazzuchelli). Ma G. Gennari (Saggio storico sopra le Accademie di Padova, Padova 1786, p. 73) conferma l'esistenza del Tasso tra i membri di questa Accademia: la distanza tra Padova e Ferrara dei resto non era tale da non consentire all'ancor giovane Poeta una Partecipazione abneno sporadica a quelle riunioni accademiche. Le testimonianze sulla continuità dei suoi rapporti con l'ambiente Padovano, anche dopo la sua partenza da Padova, sono del resto tante che non v'è ragione di dubitare della parola del Beni.
Dopo questa parentesi di studio a Padova, addottoratosi in teologia e filosofia, il B. passò al servizio del card. C. Madruzzo a Roma e poi di Francesco Maria II, duca d'Urbino. In questi anni (nel decennio dall'80 al '90 probabilmente) entrò a far parte della Compagnia di Gesù. Intorno al 1590 e fino al 1593 lesse teologia a Perugia; dal 1594 fu chiamato da Clemente VIII a leggere filosofia presso la Sapienza. In questa circostanza egli fu molto aiutato, come ricorda, dai nipoti del pontefice, i cardinali Aldobrandini (P. Beni, Oratio pro feria quarta Cinerum, Romae 1594). Il Tiraboschi (Storia della lett. ital., VII, 21, l. 3, par. 89) dice che ottenne a Roma la cattedra di teologia e lo stesso afferma, tra i moderni, A. Belloni (Il Seicento, p. 575). Ma i rotuli della Sapienza citati dal Carafa e rivisti dal Renazzi, nonché gli argomenti stessi dei suoi corsi contraddicono questa ipotesi.
Gli anni romani, nell'atmosfera di sospetto che già da tempo circondava i filosofi di tradizione umanistica, non furono facili. Già un certo rumore sollevò lo svolgimento dei primo corso tenuto dal B. alla Sapienza: In Timaeurn Platonis sive in naturalem atque divinam Platonis et Arist. Philosophiam decades tres, Romae 1594 (poi 1604; Patavii 1624). Gli interessi del B., in questa vigilia, si rivelano sempre piuttosto eclettici, dilettanteschi, chiusi tra la piccola tradizione antiquaria del morente umanesimo e una generica ambizione di conciliare tra di loro arti e tendenze filosofiche diverse, di pacificare i sistemi della filosofia classica e le esigenze della teologia, in una visione dei problenù sempre elusiva e pericolosamente approssimativa. Le sue contaminazioni tra piatonismo e aristotelismo, più che il risultato di un personale ripensamento della tradizione, appaiono frutto di un, passivo conformarsi alle tendenze speculative degli ultimi decenni, quelle stesse che aveva fatte sue il Tasso in alcuni Dialoghi e che, proprio dalla stessa cattedra cui il B. era stato chiamato, avevano trovato nel pensiero di Francesco Patrizi ben altra misura intellettuale e ben altra forza polemica. Del Patrizi infatti il B. fu per un certo tempo collega a Roma e poi successore. Intorno al '96 un avvenimento sul quale si son fatte diverse ipotesi lo costrinse ad uscire della Compagnia dei gesuiti. Egli rimase comunque nel clero secolare. Quanto alla ragione di questa rottura con la Compagnia, i documenti in nostro possesso non danno una risposta precisa. Quel che appare certo è che la sua lettura dei Timeo fu sconsigliata dalle autorità ecclesiastiche nel 1596. Il Mazzuchelli afferma che il dissidio potrebbe essere sorto anche dal suo desiderio di pubblicare alcuni Commentari al Convito di Platone ritenuti pericolosi per la qualità dell'argomento. Un'altra ipotesi si può affacciare, ed è che già fin dal periodo romano il B. abbia cominciato a scrivere e in parte a divulgare un'operetta teologica sulla grazia divina che poi pubblicò a Padova nel 1603 con questo titolo: Qua tandem ratione dirimi possit controversia quae in praesens de efficaci Dei auxilio et libero arbitrio inter nonnullos Catholicos agitatur (Patavii 1603). L'opera fu soppressa e figura nell'Index libr. prohib., p. 219: secondo la testimonianza di alcuni biografi (Tomasini, Elogia, I, p. 351) il B. ne ricevette molte noie. Lo Spampanato (Giorn. crit. della filos. ital., V [1924], pp. 230-31) conferma che per questa e per altre opere posteriori del B. l'inquisitore di Padova subì un richiamo da Roma. È bene ricordare che siamo ormai vicini al clima di rivolta anticuriale che farà capo alle lotte per l'interdetto: il pensiero del Sarpi e della Repubblica veneziana sono precedenti importanti per comprendere la particolare posizione del B., ex gesuita cui il nuovo ambiente concede finalmente d'esprimere il proprio pensiero anche in polemica con l'Ordine. Nel periodo romano il B. attese inoltre ad una dissertazione sugli Annales ecclesiastici del Baronio e ad altre operette di nùnore importanza, di carattere giuridico (Disputatio giuridica sive auctore sive reo..., Romae 1594), filologico e storico (In Marci Tulli orationem pro lege Manilia). Compose inoltre, e stampò a Roma nel 1599, due curiosi discorsi sopra le inondazioni del Tevere.
Nello stesso anno 1599 moriva a Padova Antonio Riccobono, uno degli ultimi maestri italiani di filologia classica. I rettori dello Studio, desiderosi d'assicurarsi per la cattedra d'umanità un nome di risonanza europea, si rivolsero dapprima al famoso umanista belga Giusto Lipsio, offrendogli uno stipendio notevole e molte facilitazioni. Ma il Lipsio, già avanti negli anni, si rifiutò di lasciare Lovanio. Dopo altri tentativi, la scelta cadde sul Beni. E già di per sé essa è un segno della crisi in cui versavano ormai da lungo tempo in Italia gli studia humanitatis.
Non che il B. non fosse sufficientemente preparato sul piano filologico: pare conoscesse abbastanza bene, oltre al greco naturalmente, anche l'ebraico. E il suo latino, seppur talvolta colorito di troppi flores, è accettabile. Ma la sua chiamata a Padova trova giustificazione più nella carenzá di specialisti già da tempo lamentata che nella mole di lavoro da lui svolta fino ad allora sui classici. E questo sia detto anche senza dare troppo credito alle testimonianze di alcuni contemporanei (Imperiali) e di storici (Papadopoli), i quali lo vogliono maestro poco seguito e nel complesso privo di personalità, monotono e tedioso. La verità è probabilmente un'altra e l'aveva già delineata il suo predecessore A. Riccobono, nella breve autobiografia culturale ch'egli traccia nel I libro della sua storia dello Studio di Padova (A. Riccobono, De Gymnasio Patav., Patavii 1598). La folla degli studenti seguiva orinai da decenni con crescente distacco i corsi di filologia classica: pretendevano un sapere più immediato, schematico e frettolosamente propedeutico alle scienze e alle dottrine del tradizionale cursus studiorum. Gli atteggiamenti razionalistici e rinnovatori di gran parte di questa cultura accademica portavano fatalmente ad una dissacrazione del mito classico. Da ormai più di un cinquantennio (dal Pomponazzi in poi si può dire, attraverso lo Speroni, il Piccolornini e tanti altri) si parlava del peso pedagogico di questa tradizione filologica, del danno che la scienza e la cultura in genere ricevevano da una lunga iniziazione scolastica sui testi canonici della tradizione classica. Siamo ormai alla fine della parabola che era culminata nell'opera del Poliziano: il B. ereditava dunque una situazione di crisi non solo locale ma ormai, si può dire, europea.
Il trapianto dal mondo conservatore e tradizionalista di Roma a quello di Padova, vivacemente agitato da contrasti intellettuali, fu per il B. come una frustata. Egli reagì all'isolamento in cui fatalmente lo avrebbe chiuso la sua professione di lettore d'umanità: impegnandosi a fondo nella polemica letteraria contemporanea, si sforzò di mostrarsi all'altezza dei nuovi interessi che emergevano dalle esperienze dell'ultima generazione cinquecentesca. Chiamato alla cattedra nel novembre del 1599 con uno stipendio di 600 fiorini (elevato poi a 1000), esordì nell'aprile del 1600 con una orazione, De humanitatis studiis, stampata nello stesso anno a Padova e poi compresa nella raccolta delle Opere. Il contenuto non presenta alcuna novità né di temi polemici né di riferimenti rispetto alle ormai tradizionali prolusioni sullo stesso argomento. Nello stesso anno, però, egli viene come riassorbito dal mondo di cultura che era stato quello della sua giovinezza, trascorsa tra le diatribe letterarie e linguistiche pro e contro il Tasso, accanto ad amici come il Gonzaga, il Guarini e gli altri dell'Accademia degli Animosi. Proprio per difendere il Guarini egli stampò verso la fine del 1600 una Risposta alle considerazioni e ai dubbi del... dottor Malacreta sopra il Pastor Fido, che lo coinvolse si può dire in maniera definitiva in forme di critica "militante" piuttosto contrastanti rispetto alle sue premesse umanistiche, ma ben comprensibilì sullo sfondo dell'ambiente in cui il B. si trovò ad operare.
Nello stesso anno 1600, dietro le insistenze di G. B. Guarini, che non era rimasto del tutto soddisfatto della sua difesa, il B. pubblicò a Venezia un Discorso nel quale si dichiarano e stabiliscono molte cose pertinenti alla Risposta data a' dubbi... (Venezia 1600).
La polemica, com'è noto, non si fermò qui. Il Guarini ripubblicò l'anno dopo le argomentazioni dei Verato primo e del Verato secondo nelle Conclusioni sulla poesia tragicomica: intervennero Faustino Summo, l'Ingegneri e di nuovo il Malacreta Pontro il Pastor Fido. G. Savio e O. Pescetti in favore; quest'ultimo in parte ribadendo in parte correggendo la Difesa del B. (O. Pescetti, Difesa del Pastor fido da quanto gli è stato scritto contro da F. Summo, G. B. Malacreta..., Verona 1601).
L'operosità dei B. in questo primo anno padovano si rivela addirittura stupefacente, se si pensa che la sua produzione si arricchì ancora di un discorso ovvero Disputatio in qua ostenditur praestare comoediam atque tragoediam metrorum vinculis solvere (Patavii 1600), che egli stesso considererà come il primo nucleo del suo futuro commento alla Poetica d'aristotele. Reagì pochi mesi dopo, ribadendo le tendenze metriche conservatrici, Faustino Summo, professore di logica presso lo Studio, che fu già coinvolto insieme col B. nella polemica intomo al Pastor Fido, all'incirca nello stesso tomo di tempo (F. Summo, Risposta in difesa del metro nella Poesia e ne' Poemi, e in particolare nelle Tragedie e Commedie, contro il parere del sign. P. B., Padova 1601).
Da quest'anno in poi l'attività del B. critico e polemista, non conosce soste, fino al 1623, anno in cui chiese ed ottenne d'esser messo a riposo con mezzo stipendio. Risale al 1607 il suo primo intervento nella lunga e snervante discussione postuma sulla Gerusalemme Liberata e sulla poesia del Tasso. La sua Comparatione di Homero, Virgilio e T. Tasso, uscita dapprima a Padova pei tipi di L. Pasquati nel 1607, divisa in sette discorsi, e poi ristampata nel 1612 pei tipi di B. Martini in edizione definitiva con l'aggiunta di altri tre discorsi e col titolo di Comparatione di T. Tasso, con Homero e Virgilio... (Zeno, Annotaz. alla Bibliot. del Fontanini), resta tra i documenti più esemplari del nuovo stato d'animo di rivolta contro la tradizione che sta per investire ormai tutta la cultura secentesca. Pochi armi dopo, nel 1611, il B. dava alle stampe la prima edizione di un altro lavoro destinato a procurargli avversione e disistima nello stesso ambiente padovano. Si tratta di un saggio sulla storiografia classica e sul metodo della storia (De historia libri quatuor, Venetiis 1611, ristampato tre anni più tardi ancora a Venezia e poi nell'ediz. delle Opere, Venezia, Guerilius, 1622, con l'aggiunta di commentari all'Eneide e alla Congiura di Catilina di Sallustio), nel quale tra l'altro il B. si abbandona a gíudizi fortemente limitativi sullo stile di Livio (definito "horridus, tortuosus, inaequabilis etc.") che gli procureranno risentimenti da parte di alcuni contemporanei, tra i quali uno dei suoi biografi, il Tomasini (I. Ph. Tomasini, Titus Livius Patavinus, Padova 1630, p. 34) e il Pignoria (L. Pignoria, Symbol. epist. libri, I, Padova 1628, pp. 44, 100). Pure, il giudizio dei B. è perfettamente coerente con il suo modernismo, con la sua polemica anti-arcaicizzante, con la sua generale avversione verso ogni forma di naturalismo letterario e linguistico. Di questo stato d'animo, che è suo e di vasti strati della cultura italiana contemporanea, il B. darà prova un anno dopo, recensendo con sbalorditiva velocità il Vocabolario degli Accademici della Crusca, uscito a stampa a Venezia nel febbraio del 1612. Verso la fine dell'anno veniva alla luce infatti una prima edizione dell'opera del B. destinata a menare maggior scalpore: l'Anticrusca overo il Paragone dell'italiana lingua. Di quest'opera si cita spesso la stampa che porta la data 1613: ma in realtà essa era già stampata, nell'ottobre del '12, in una edizione in tutto simile a quella dei '13 fuorché nelle pagine non numerate. Nella dedica dell'Anticrusca a V. Grimani, che anche nell'edizione del '13 porta la data 28 ott. 1612, il B. annuncia di aver ormai portato a termine, accanto a questo lavoro di minore impegno, un'opera di ben maggiore difficoltà. Si tratta naturalmente dei Commentari alla Poetica d'Aristotele, un lavoro di vasta e composita mole che vedrà la luce nel 1613 a Padova, nella tipografia personale del B. (Beniana), dedicato a Francesco Maria II, duca di Urbino. Nella stessa dedica dell'Anticrusca il B. dichiara di aver portato ormai a termine la revisione della Comparatione e d'esser pronto a darla alle stampe: uscirà infatti il mese dopo, con una dedica in data 26 nov. 1612.
L'Anticrusca, immediatamente diffusa, provocò a Firenze disorientamento e reazione. Gli anziani, come Bastiano de' Rossi, che avevano assistito alla nascita dell'Accadernia, cercarono di indurre i più accesi a non rispondere e a non rinfocolare polemiche. La loro opinione prevalse, anche se Benedetto Fioretti (Udeno Nisiely) aveva quasi approntato a titolo personale una risposta che non vide la luce, ma della quale conosciamo il titolo, tipicamente cruscante: Frullone dell'Anticrusca. Il Fioretti non rinunciò comunque ad esprimere il suo parere sul B. e lo fece nel I vol. dei suoi Proginnasmi Poetici (Firenze 1620, p. 6), dandogli della "bestia" in fatto di "fiorentina favella". Il primo biografo del Fioretti, Francesco Cionacci (B. Fioretti, Osservazioni alle creanze, Firenze 1675, introd.), insinua che proprio da questo divieto sia sorto nel Fioretti un certo risentimento verso l'ambiente accademico, di cui sarebbero prova i liberi giudizi che più tardi espresse nei suoi Proginnasmi in favore dei Tasso e della poesia moderna in generale. Nel frattempo, per suo conto, aveva impugnato le tesi dei B. Orlando Pescetti con un libello violentemente polemico e a tratti offensivo, uscito a Verona nel 1613 pei tipi di A. Tamo e dedicato a Cosimo II de' Medici col titolo: Risposta di O. Pescetti all'Anticrusca di P. Beni. Non passarono che pochi mesi, ed ecco la risposta del B., che prende il titolo dal nome del fuoruscito toscano Bartolomeo Cavalcanti, noto già verso la metà del Cinquecento per la sua posizione antipuristica rispetto ai canoni della tradizione accademica fiorentina. L'opera uscì sotto uno scoperto pseudonimo (Il Cavalcanti overo la difesa dell'Anticrusca di Michelangelo Fonte, Padova 1614) e con una conciliante dedica del B. a Cosimo II de' Medici. Quest'ultimo respinse l'esemplare inviatogli in omaggio e intervenne presso il Senato veneziano perché fosse proibita la diffusione di questa risposta, duramente polemica nei riguardi della tradizione letteraria fiorentina (così legata ai temi della restaurazione politica medicea fin dai tempi di Cosimo I).
La questione stava assumendo una pericolosa dimensione politica allorché il Senato veneziano aderì alla richiesta di Cosimo. Lorenzo Pignoria, che di questa vicenda ci dà una diretta testimonianza in alcune lettere a Paolo Gualdo (Pignoria, in Lettere d'uomini illustri), dice che il B. si adoperò per ottenere che anche la Risposta del Pescetti fosse tolta di circolazione: ma le sue richieste in questo senso vennero respinte. D'altro canto, pago della posizione assunta nella disputa da Cosimo, dall'Accademia della Crusca e dal Senato veneziano, il Pescetti non rispose al Cavalcanti e la polemica che, come dice il Pignoria, "incominciata con la penna", avrebbe potuto finire "con i pistolesi", sembrò per allora sedata. Il B., lungi dal darsi per vinto, continuò per ancora diversi anni l'opera intrapresa, aggiungendo all'Anticrusca altre tre parti. Il manoscritto dell'opera ottenne il 7 ottobre 1624 l'"imprimatur" da parte dell'inquisitore di Padova. Ma dopo pochi mesi sopravveniva la morte del B. e alle stampe nessuno pensò più. A parte la risposta del Pescetti (che era toscano d'origine, ma ormai da tempo stabilito a Verona) l'unica reazione immediata che il B. ricevé dall'ambiente toscano fu una curiosa pasquinata in ventotto stanze, stampata a Lucca nel 1613 col titolo: Fantastica visione di Parri da Pozzolatico, moderno in Pian de' Giullari.
Nel 1613 usciva a Padova la prima edizione dell'opera forse più impegnativa del B., i Commentarii in Arist. Poeticam, che furono ristampati e via via arricchiti nel 1622-23 e nel 1625, nell'edizione delle Opere, con l'aggiunta di settantacinque orazioni, venticinque in più di quelle che già il B. aveva raccolte e poste in luce sempre nel 1613 presso F. Bolzetta a Padova. Alcune di queste erano già state impresse separatamente fin dai tempi del soggiorno romano del B. e durante i primi armi padovani.
Nel 1616 usciva poi, sempre a Padova, un commento ai primi dieci canti della Gerusalemme Liberata, con una lunga introduzione polemica (Il Goffredo ovvero Gerusalemme liberata... col commento di P. B., Padova 1616).
Questo lavoro, che il B. aveva promesso fin dai tempi della Comparatione, non ebbe gran successo e fu escluso (forse anche perché incompiuto) dai successivi commenti "secolari" dei poema tassesco. In esso il B. si proponeva di stabilire la superiorità del Tasso su ogni altro poeta della tradizione classica sul piano dell'elocuzione, dopo averne dimostrata l'esemplarità dal punto di vista dell'invenzione e della disposizione.
Altri opuscoli sparsi del B. comparvero negli anni seguenti: il Mazzuchelli cita anche lavori rimasti manoscritti. Ma alcuni di questi videro la luce, rifusi in opere più vaste (come nella Poetica e nei De Historia scribenda libri), in quell'abbozzo di Opera omnia che fu la rara edizione veneziana (Io. Guerilius, 1622-25, in 5 voll.) che lo storico bresciano non riuscì a consultare. In essa trovarono sistemazione anche trentacinque epistole, prefazioni, epitaffi, elogi, ecc. Alcuni opuscoli che si possono trovare sparsi (Commentarii in sex priores libros Aeneidos, Venetiis 1622; Commentarii in Arist. libros Rhetoricorum duobus tomis explicatis, Venetiis 1624; Platonis Poetica ex eius dialogis collecta, Venetiis 1624) furono inclusi nella suddetta edizione delle opere: gli ultimi due in particolare furono rifusi nell'edizione definitiva dei Commentarii alla Poetica (1625).
Ritiratosi dall'insegnamento nel 1623, il B. moriva nella sua casa di Padova il 12 febbr. 1625.
Nell'opera del B. si possono distinguere tre fasi, non disposte cronologicamente ma secondo circoli di interesse. La sua attività umanistica (nella quale si possono far rientrare le operette occasionali scritte nel periodo romano) reca già chiaramente i segni della consunzione cui è giunto il tradizionale metodo filologico, divenuto strumento di indagine esclusivamente stilistica e perciò sempre più estraneo alle premesse con cui s'era affermato nel Quattrocento, come arma di restauro e di comprensione storica. Del senso della storia cui ma giunta la nostra grande cultura umanistica il B. sembra anzi non aver ereditato che la parodia: nella sua querelle tra antichità e modernità gli sfondi appaiono singolarmente appiattiti. Ne risente anche la sua filologia volgare, che è quasi del tutto priva di ricostruzioni", e inerte al di fuori della generica opposizione tra passato e presente. La sua valutazione dei modelli tradizionali è gravemente inficiata da questa cecità, così tipica del resto di certo deteriore razionalismo. Come nel caso di Dante, del quale egli poté dire che era autore "aspro, rozzo, laido, sconcio e senza giudizio" (Il Cavalcanti, p. 16) e aggiungere che "...ciò avvenne non tanto per l'altezza dell'argomento, o imperitia di que' tempi, quanto per mancamento d'ingegno (parlo dei poetare) e di giuditio" (ibid., p. 26). La stessa avversione dei B. per Omero e Livio, ad esempio, seppur del tutto coerente con il suo ideale letterario di pulitezza, di eleganza, di artificio e di cultura imitativa (siamo decisamente agli antipodi del gusto "barbarico" di certe vivaci zone della nostra cultura umanistica), rappresenta già eloquentemente la natura pesantemente retorica del pensiero suo e di molti contemporanei.
Il pensiero filosofico dei B. oscilla tra le suggestioni platoniche (Patrizi, Bruno) e gli schemi aristotelici, enciclopedistici, essenzialmente razionalistici della sua formazione padovana, non senza che qualche traccia delle Poetiche platoniche d'alcuni contemporanei giungesse a complicare a tratti il suo pensiero in materia, portandolo su posizioni più astratte di quelle comuni alla esegesi aristotelica di tradizione patavina.
La polemica letteraria del B., che è poi il motivo dominante della sua attività, si può dividere in due momenti: uno teoretico, rappresentato dal primo intervento nella questione metrica (1600) e poi dai Commentarii alla Poetica (1613), con tutte le successive aggiunte e precisazioni; uno empirico, dimostrativo, Più concretamente legato ai terni della letteratura contemporanea. Della Poetica beniana la critica recente ci ha lasciato definizioni lusinghiere: dallo Spingam (che pur considerandola al di fuori dei limiti storici del suo lavoro la definisce "l'ultimo grande commento italiano che abbia avuto risonanza europea") al Toffanin, che ne La Fine dell'Umanesimo la prende come un punto d'arrivo in senso secentista di tutta l'esegesi tardo-rinascimentale. L'ultimo che se ne sia occupato, lo Jannaco (che è anche l'unico che l'abbia fatto in maniera esauriente), ha messo in risalto l'impegno profondo e per certi versi definitivo dell'opera, l'ampiezza delle suggestioni che da essa derivano, la validità d'alcune sistemazioni filologiche del complesso materiale aristotelico. Al concetto di mimesis si sovrappone in lui (ma in questo senso c'è già un notevole precedente nella Poetica del Riccobono) un'idea di poesia come "fictio fabulosa", evasione mitica dal reale fortemente controllata da una severa divisione dei generi e dei relativi strumenti stifistici, contenutistici, lessicali.
Proprio in questo senso, sul duplice piano cioè della fedeltà al genere e della coerenza delle scelte stilistiche. la Gerusalemme Liberata appariva al B. esemplare: dall'anno della prima edizione della Comparatione (1607) fino si può dire alla morte la lotta del B. per Paffermazione dei poeta caro alla sua giovinezza non conosce soste.
La parentesi polemica contro la Crusca restituisce il pensiero linguistico del B. alle sue fonti cinquecentesche e lo qualifica entro quella sempre più larga affermazione dell'"italianità" che aveva trovato i suoi episodi più clamorosi, nella generazione precedente alla sua, con le Battaglie del Muzio e con la polemica tra il Tasso e il Salviati.
Particolarmente vitale, nel pensiero del B., appare l'idea che il patrimonio linguistico debba svilupparsi e arricchirsi seguendo il corso della civiltà. Così si esprime ad esempio nell'Anticrusca, parlando de Le ricchezze della lingua di F. Alunno (dall'analisi di quest'opera egli muove infatti per polemizzare contro la Crusca, accusata di non aver saputo fare di meglio): "Poiché le parole sono inventate per spiegare i concetti dell'animo e poiché si richiede che la copia delle voci serva il più che si può alla varietà e ampiezza dei concetti... la presente opera è poverissima di voci, sì che tai ricchezze a me sembrano estrema povertà... Né dico ciò perché alcuna lingua sia tanto copiosa che non venga superata e dai concetti e dalle cose istesse le quali per mezzo dei concetti e delle voci vengono da noi spiegate" (p. 6). Il "naturalismo" di Boccaccio e di Dante, le loro frequenti incertezze semantiche e ortografiche, appaiono al B. frutto dell'ignoranza del volgo, dalla quale la letteratura si riscatta solo dopo l'esperienza umanistica e rinascimentale, avvicinandosi sempre più ai tempi suoi. A naturale perciò che la sua ironia contro la Crusca sia particolarmente eccitata proprio da quel lavoro di recupero e di restauro della letteratura minore, sul quale è fondata, insieme col Vocabolario, tutta la grande filologia toscana del secondo Cinquecento, dal Borghini al Salviati. Gli pare già grave che la Crusca sia giunta a "classicizzare" prosatori come Boccaccio e Sacchetti, poeti come Dante, senza accorgersi che solo dopo di loro e alcuni nobili prosatori (moderni e contemporanei del B.) sono andati col giudizio dell'orecchio scegliendo le più temperate voci e gentili, sì che al difetto di quel secolo ha trovato qualche compenso il presente" (ibid., pp. 15-16). Ma quel che è molto peggio agli occhi dei B. è che, al posto del Tasso, possano essere proposti a modelli i vari Villani, Buti, l'autore del Novellino e del Fiore di virtù "... e un immenso numero di volgarizzatori, di contratti antichi e altre scritture di notai e di quaderni de' conti " (ibid., p. 44). Certe parole del B., in questo senso, sembra di averle già lette nella I Divisione della Poetica del Trissino, nei Discorsi e nella Apologia dei Tasso. In esse è implicita quell'idea di un superamento della tradizione che risale appunto ai primi allievi padovani del Bembo e che doveva fatalmente urtare contro il moderato tradizionalismo toscano, contro il gusto arcaizzante della nuova filologia fiorentina. "Intanto se alcuno in questi nostri ragionamenti e discorsi, che tra virtuosi Accademici andiani compartendo, incontrasse alcuna parola, la qual più tosto latina e peregrina sembrasse alle sue orecchie, che italiana e materna, piacciali in tanta angustia e difficoltà benignemente dispensarci: anzi, mentre da, Greci e da, Latini appariamo e trasportiarno le scienze e l'arti più nobili, habbia per bene e lodi che la nostra lingua, come quella che (a dirne il vero) è purtroppo angusta e povera, e perciò alquanto sterile e infeconda, si vada a poco a poco dilatando e avanzando, e con l'abbondanti ricchezze della Greca e Latina favella divenga copiosa, ricca e feconda" (Comparatione di T. Tasso con Homero e Virgilio, rist. 1612, introd.).
Alle scelte ormai tradizionali nella sua cerchia per un tipo di linguaggio letterario e poetico svincolato dalla tradizione arcaicizzante dei testi trecenteschi, corroborato dalle esperienze più recenti della cultura, non esclusa l'esperienza umanistica e i relativi prestiti stilistici e lessicali, nel B. si aggiungevano i primi fermenti di quella polemica ancor più vasta e radicale tra presente e tradizione che nei suoi stessi anni andava prendendo più sicura coscienza di sé, dopo essere uscita dall'incubazione del contemporaneo razionalismo, particolarmente nell'opera di Alessandro Tassoni. Il B. aveva, come colleghi all'università, dei rinnovatori come Galileo e l'Acquapendente: per non parlare del Cremonino, che nonostante tutto restava per allora il simbolo di un razionalismo già abbastanza libero dagli schemi scolastici tradizionali. Tutto questo giustificava ai suoi occhi la superiorità del poeta e dei prosatore moderno sui classici: tanto maggiori sono le remore stilistiche e metriche, i limiti lessicali imposti dalla tradizione e dalle condizioni contemporanee della letteratura, tanto più rifulge l'artificio, l'abilità retorica, la volontà di superamento, l'invenzione. È questa del resto la sua poetica: e proprio in questa valutazione troppo esclusiva del lavoro formale, dell'impegno tecnico e stilistico, dell'artificio retorico, essa prelude (senza però avallarle ancora del tutto) alle prossime poetiche del concettismo, al Peregrini e al Pallavicino.
Opere: In Timaeum Platonis sive in naturalem atque divinam Platonis et Arist. Philosophiam decades tres, Romae 1594 (poi 1605; Patavii 1624); Oratio pro feria quarta Cinerum, Romae 1594; Disputatio in qua quaeritur, an sive actori sive reo..., Romae 1594; De Ecclesiasticis Baronii Annalibus Disputatio, Romae 1596; Discorsi sopra l'inondazione del Tevere, Roma, Facciotto (in fine è l'indicazione Muzi), 1599; De humanitatis studiis oratio, Patavii 1600; Disputatio in qua ostenditur praestare comoediam atque tragoediam metrorum vinculis solvere, Patavii 1600; Risposta alle considerazioni e ai dubbi del... dott. Malacreta sopra il Pastor Fido, Padova 1600; Discorso nel quale si dichiarano e stabiliscono molte cose pertinenti alla Risposta data a, dubbi e alle considerazioni del Malacreta sopra il Pastor Fido, Venezia 1600; Qua tandem ratione dirimi possit controversia... de efficaci Dei auxilio et libero arbitrio, Patavii 1603; Comparatione di Homero, Virgilio e T. Tasso..., Padova 1607 (e 1612 nell'ed. aum. di tre discorsi col tit. Comparatione di T. Tasso con Homero e Virgilio insieme con la difesa di Ariosto paragonato ad Homero); De historia libri quatuor, Venetiis 1611 (e poi 1614, 1622); L'Anticrusca overo il Paragone dell'italiana lingua, Padova 1612 (e 1613); Commentarii in Arist. poeticam, Patavii 1613 (e poi Venetiis 1622-23, 1625); Orationes quinquaginta, Patavii 1613; Il Cavalcanti overo la difesa dell'Anticrusca di Michelangelo Fonte, Padova 1614; Rime varie, Padova 1614 (anche in appendice a Il Cavalcanti); Il Goffredo ovvero Gerus. lib. del Tasso col commento di P. B., Padova 1616; Commentarii in sex priores libros Aeneidos Virgilii, Venetiis 1622; Commentarii in Arist. libros Rhetoricorum duobus tomis explicatis, Venetiis 1624; Orationes quinque et septuaginta, Venetiis 1624; Trattato dell'orikine e fasti familiari della famiglia Trissina, Padova 1624.
Le opere del B. furono in parte raccolte come si è detto, vivente l'autore, nell'ediz. veneziana (apud Io. Guerilium, 1622-25, in 5 voll.) ormai molto rara, nella quale videro la luce insieme con la Poetica, aumentata di nuovi discorsi, altre orazioni, epistole, commentari sulla Poetica di Platone "ex cius dialogis corecta", una Apologia allo scenofilico, epigrammi, epitaffi e altre cose minori. Ristampe parziali delle opere del B. in T. Tasso, Opere, Venezia 1722-42, vol. VIII (1738), XI (1740), e in Controversie sulla Gerus. Lib., a cura di G. Rosini, Pisa 1827, vol. II. Il Tomasini e il Mazzuchelli riportano la bibliografia delle opere a stampa e di una parte dei mss. del Beni. Il Mazzuchelli in particolare dà una descrizione delle tre parti dell'Anticrusca rimaste inedite e che avrebbero dovuto esaminare rispettivamente La Fabbrica del Mondo (1548) di F. Alunno ferrarese, Il Memoriale della lingua di G. Pergamini da Fossombrone (1602) ed infine il Vocabolario della Crusca. Una descrizione di questo ms., che si trovava ancora ai tempi del Mazzuchelli presso la Libreria Soranzo a Venezia, è conservata nel tom. I del catal. a penna della suddetta Libreria (ora cod. Marc. Ital. X, 137 [6568], p. 223) del bibliotecario F. Marchiorí. Il ms. è poi andato disperso. V. Rossi (Labiblioteca del sen. veneziano I. Soranzo, in Scritti di critica letteraria, Firenze 1930), dopo averlo riconosciuto in un catalogo della vendita Sneyd, che venne tenuta a Londra nel 1903, lo annovera tra quelli di cui è oscura la sorte.
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