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Beni, Paolo

di Aurelia Accame Bobbio - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Beni, Paolo

Aurelia Accame Bobbio

Letterato (Candia 1552 c. - Padova 1625), professore di filosofia a Roma e di lettere classiche a Padova. Il suo atteggiamento verso D. è intimamente inserito nella polemica in favore del Tasso, col quale aveva stretto amicizia avendolo incontrato a Padova nell'Accademia degli Animosi; e più in generale in favore dei moderni contro gli antichi. Obiettivi principali della sua polemica sono il Salviati, che negli Avvertimenti (1584-86) e nella Risposta all'Apologia del Tasso (1585-88) aveva difeso e lodato la Commedia per la lingua e il metro, e in genere la Crusca, che nel 1595 aveva ripubblicato la Commedia, esaltandola, nell'introduzione di B. De Rossi, principalmente come testo di lingua.

Già nella Comparazione di Omero, Virgilio e Torquato (1607) idea centrale della sua critica è che la letteratura si perfeziona col tempo e quindi i moderni sono ovviamente superiori agli antichi nella lingua, nello stile, nel gusto. Quest'apertura secentesca verso i moderni si combina in lui, come in altri, con una persistente fedeltà ad Aristotele, per cui difetto dei latini può esser stata, ad es., l'ignoranza delle sue presunte regole. Posizione che nei riguardi di D. si riflette quando nega contro i suoi difensori che la Commedia sia un poema eroico per unità d'azione compiuta da un solo eroe, perché Aristotele non esige che unità d'azione e, se mai, l'eroe principale deve rivelare le sue virtù di capo conducendo l'impresa non da solo ma per mezzo di molti, come appunto il Goffredo tassesco. Nell'Anticrusca (1612) D. è col Boccaccio rimproverato di espressioni dialettali fiorentine che oggi suonerebbero " leziose ed affettate ", e per queste né D. né altri può far testo. Nel trattato Il Cavalcanti, overo Difesa dell'Anticrusca (1614), sotto il nome di Michelangelo Fonte, riafferma il principio che il fiorentino contemporaneo è superiore a quello del Trecento e dedica la sua difesa a Bartolomeo Cavalcanti, appunto perché questi aveva sostenuto la superiorità del Petrarca contro l'esaltazione di D. fatta dal Salviati e dalla Crusca.

Nel riallacciarsi al Bembo, che cita, per le critiche alla lingua mescidata di latino, di vocaboli stranieri o rari o rozzi, nonché per le similitudini " basse ", come quella degli scabbiosi col ragazzo aspettato dal segnorso, il B. dimostra che, nonostante l'apertura verso l'evolversi della lingua e dello stile, egli rimane, almeno nei riguardi di D., sostanzialmente fermo a un gusto cinquecentesco, anzi in nome di questo condanna il " barbaro " Trecento con esclusione del Petrarca. Lo conferma la riprovazione, consueta agli avversari di D. in questa età, del titolo di " Commedia ", perché " non è né Commedia, né Tragedia, né Poema eroico, ma un miscuglio o capriccio senza regole e senza forma di poetica azione ", e soprattutto l'avversione a ogni immagine ardita e nuova che lo ferma decisamente al di qua del gusto barocco. Per confutare il Salviati, prende in esame Pd XXV, dove tutto è biasimato, dal continga (che è linguaggio " fidenziano ") alle immagini del ‛ vincere il volto ' per ‛ vista ' come impropria, della basilica per ‛ Chiesa trionfante ' come " oscurissima ", dell'uomo che si matura per il cielo ai raggi degli apostoli, come " inaudita ", fino al paragone degli apostoli, che sono " castissimi ", coi colombi, perché improprio e fisicamente inesatto.

Errato è poi, per il B., il pensiero dantesco in teologia, storia e scienza naturale; né accetta per D. la scusa dell'imperizia dei tempi, che pur era giustificata dal suo principio, perché il fallimento di lui come poeta è dovuto a mancanza d'ingegno. Comprova la sua sensibilità cinquecentesca l'esaltazione del Petrarca per proprietà di linguaggio contro le presunte stravaganze di D.: il far che il lume parli e che la barca canti " dà segno di poco intendimento di poesia ". Se si giova del De vulg. Eloq. per sostenere la nazionalità della lingua contro la fiorentinità del così detto buon secolo, rimprovera poi al poeta di aver contravvenuto ai suoi principii usando il barbaro fiorentino dei suoi tempi. La sua diatriba antidantesca lascia invero trasparire in più luoghi il puntiglio di ritorsione polemica in difesa del Tasso contro i cruscanti: non si spiegherebbe altrimenti come rimproveri a D. i latinismi che loda nel Tasso, se non perché come " fidenziani " li aveva accusati nel suo poeta diletto il Salviati. La sua critica totalmente negativa non si giustifica né si svolge, come in altri avversari di D., in questo tempo, in fedele e ragionata coerenza a principi di poetica e di morale, bensì martella i suoi colpi, con un certo impeto stilistico a tratti notevole, per il gusto di demolire un idolo caro ai letterati dell'altra sponda, con argomenti non meno insensibili alla poesia e alla storia che quelli di cui i cruscanti bersagliavano il Tasso.

Bibl. - Scritti del B. contenenti osservazioni su D.: Comparazione di Omero, Virgilio e Torquato, Padova 1607; L'Anticrusca, overo il paragone dell'italiana lingua, ibid. 1612; Il Cavalcanti, overo la difesa dell'Antiscrusca, di Michelangelo Fonte, ibid. 1614. - Sul B. in generale, v. G. Mazzacurati, B.P., in Dizion. biogr. degli Ital. VIII (1966) 494. Nei riguardi di D., v. in particolare: U. Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e D., in " Giorn. stor. " XLII (1903) 132-137; U. Limentani, La fortuna di D. nel Seicento, in " Studi secenteschi " V (1964), con notizie bibliografiche; M. Puppo, introduzione a Discussioni linguistiche del Settecento, Torino 1955, 14-16.

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