BRITI, Paolo (il Cieco da Venezia)
Fu uno dei più fecondi e fortunati poeti popolari veneziani del sec. XVII, ma di lui sappiamo ben poco, come accade sovente per figure del genere che restano di fatto escluse dalla vita culturale e letteraria ufficiale. Del B. infatti non resta neppure un libro, ma solo stampe di poche pagine, pubblicate dai tipografi meno illustri e che egli stesso probabilmente vendeva durante le sue peregrinazioni di affermato cantastorie per tutto il Veneto; le stampe infatti portano la data di Venezia, Treviso, Vicenza e Verona. Le scarse notizie che lo riguardano si ricavano dalle opere; infatti fino alla metà del Settecento nessuno studiosolo considerò degno di qualche attenzione. Delimitano l'arco della sua vita le date della prima e dell'ultima edizione conosciuta delle sue opere, il 1619 e 1681; ma quest'ultima è assai meno probante perché si riferisce alla ristampa remondiniana di un Burlevole e ridicoloso Lunario, che era già apparso nel 1666, mentre alla fine degli anni sessanta improvvisamente si diradano le stampe di cose sue.
Poche notizie precise di lui è Possibile ricavare dalle sue canzoni, siaperché sono per la maggior parte di tipo narrativo, sia perché i rari riferimenti autobiografio che è possibile accertare sono generici, e rispondono all'immagine del poeta più consueta e diffusa nella fantasia popolare. Basterebbe a provare quest'intonazione generale l'uso insistente dell'appellatico di "Cieco da Venezia", che, secondo un gusto molto diffuso in quegli anni, recuperava a livello popolare l'aspetto più patetico dell'antica leggenda omerica; non che il B. non fosse cieco davvero, come spesso erano i cantastorie, solo di poco diversi dai mendicanti (vedi del B. la Nova e curiosa canzonetta sopra quel cieco che dimanda "cosa feu che non me dà limosina"), ma l'appellativo, quasi un soprannome, valevaa circondare la sua figura di un fascino leggendario.
Di argomento dichiaratamente autobiografico sono la Nuova canzonetta sopra la prigionia del B. nella qual si lamenta d'esser abbandonato da i suoi più cari amici (Treviso, Righettini, 1664), la Canzonetta nova,nella qual s'intende la qualità delle persone quali restavano disgustati per la morte del B.,e anco di quelle persone che godevano della sua morte (Verona, Merlo, s.d.) e il Testamento de P. B. fatto da lui quandola città persuadeva che fusso morto per accidente occorsogli (Venezia, Remondini, s.d.); dalle quali si ricava che il B. aveva moglie e figlia e che gli accaddero varie sventure: nel 1664, o, secondo altri studiosi, dal Quadrio in poi, nel '41, era finito in galera non sappiamo per quale ragione, ma certo, a sentir lui, ingiustamente; in un'altra occasione era caduto in acqua rischiando di morire annegato e, salvato per miracolo, scrisse per questo il suo Testamento.
In esso il B. parla di casi consueti e quotidiani della vita: amore, famiglia, debiti, piccoli risentimenti, per concludere, non senza originalità: "Lasso il buon tempo a i richi, / A i grami le fadighe"; nella canzonetta scritta nella stessa occasione i suoi amici e nemici restano senza volto, personaggi della vita popolare completamente privi di qualsiasi carattere individuale: "Ma per prima mi credo / Che la mia morte rincresceva ai osti, / E che per mi pianzeva i lessi e i rosti; / Suspirava per le miserie mie / Le insegne e le osterie".
Ciò che immediatamente distingue il B. dai molti cantatori suoi contemporanei è la coscienza che ha della propria personalità poetica, che lo spinge a dichiarare espressamente la paternità della sua opera. Le sue composizioni pur di evidente origine popolare tradiscono qualche manifesta ambizione letteraria, tanto che il Dazzi, proprio a questo proposito, ha potuto parlare di una "lirica da strada", che "è un sottoprodotto della lirica letteraria, narrativa e sentimentale, di cui conserva non pochi vizi, discesa a produzione spicciola, maneggiata da modesti poeti di popolo, in forme non prive di una certa elaborazione, ma che immediatamente tradiscono la musica sottostante, e che sono prontamente accessibili e acquisibili al popolo".
Ha pertanto il sopravvento il genere della canzonetta, che trascura gli antichi argomenti eroici per dare spazio a più spiccati interessi realistici, a una vena comica popolare che si riallaccia direttamente al gusto diffuso dalla commedia dell'arte. Il tema dominante diventa l'amore con le sue vicende quotidiane e avventurose, talvolta boccaccesche, un amore ricco di passioni e di sentimenti, ma pronto a scontrarsi con la dura realtà della vita.
Proprio tra le canzonette di questo genere si riscontrano i risultati più, felici del B., come la Nuova canzonetta nella qual s'intende un giovine, che abbandona la sua Signora,per poter resistere alla spesa (Venezia, Usci, 1624), nota anche con il titolo L'abbandono, e il Ridicoloso dialogo fatto tra homo e donna (ibid. s.d.), il Felicissimo incontro il qual fece un giovane in t'una contadina (ibid. 1623), Checco bello ritorna dalla sua Marietina (Verona, Merlo, 1629), il Pentimento di Catte (ibid. 1629), e infine il Bellissimo lamento fatto da una vedoa dimostrando l'infenito dolore che ella sente sendoli morto il marito (Venezia, Usci, s.d.). In queste composizioni "si rileva nell'andamento una tarda influenza della canzonetta giustiniana, impoverita, impacciata tecnicamente, e tuttavia rotta qua e là da certa vivacità nuova, di vena genuinamente popolare, magari dispettosa" (Dazzi).
Altre volte il B. si ispira direttamente alla cronaca, come nel Compassionevole successo occorso nella villa di Marocho,dove s'intende il misero e infelice Napoli che dandosi in preda alla disperatione si dà la morte di sua propria mano (Venezia, Usci, 1624); o più spesso dà alle sue canzonette un tono moralistico e pedagogico come nel Publico disprezo fatto sopra le meretrici,con una general esortatione di emendarsi di vita e questo serve anco a gl'uomini quali tengono la sua amicitia (Venezia, Bonfadino, 1622), nella Canzonetta nuova sopra le novemila e novecento e novantanove astutie e malitie delle donne (Venezia s.d.), e infine nella Curiosissima canzonetta sopra i scomesanti,dove si dichiara la prohibitione di simil vitio. Opera nova sentenziosa e rediculosa insieme (Venezia, Bonfadino, 1621).
Anche in questi casi comunque il B. non smentisce la sua affermazione di poetica: "De no me impazzar mai dai copi in suso" (di non curarmi mai dai tetti in su), che contraddistingue il suo realismo popolare.
Bibl.: F. S. Quadrio, Indice univ. dalla Storia e Ragione di ogni poesia..., Milano 1752, p. 43; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, p. 2114; G. Duplessis, Chansons et poésies populaires de P. B.,aveugle vénitien, in Bulletin du bibliophile, s.6, 1843, pp. 295-306 (elenca quarantaquattro canzoni del B.); R. Barbiera, Poesie venez. scelte e annotate, Firenze 1886, pp. 16-20 (con testi); A. Pilot, Antologia della poesia veneziana, Venezia 1913, pp. 65-81, 924 (con testi); F. Novati, La racc. di stampe Popolari ital. della biblioteca di F. Reina, in Lares, II (1913), estratto; R. Barbiera, Venezia nel canto de' suoipoeti, Milano 1925, pp. 15-19 (con testi); P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Bergamo 1929, p. 72; G. A. Quarti, Quattro secoli di vita venez. nella storia,nell'arte e nella poesia, I, Milano 1941, pp. 146-164 (con testi: elenca novantotto canzoni del B.); M. Dazzi, Il fiore della lirica veneziana, II, Venezia 1956, pp. 85-119 (con testi); B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, a cura di N. Vianello, Venezia-Roma 1959, pp. 102, 123-126, 233 s. (con testi); M. Cappucci, in C. Jannaco, Il Seicento, Milano 1966, pp. 209, 281.