CELOTTI, Paolo
Nato a Udine nel 1676, frequentò la scuola dei gesuiti di Gorizia e poi dei serviti a Udine e Venezia. Trasferitosi definitivamente nella capitale, si dedicò con impegno agli studi filosofici e teologici sotto la guida di Odoardo Maria Valsecchi, consultore della Repubblica, che gli suggerì di allargare i suoi interessi anche alla storia e alle Sacre Scritture. Sono di questi anni l'Omnium conciliorum generalium approbatorum catena aurea (Romae 1703), diligente ricostruzione delle principali deliberazioni antiereticali dei concili ecumenici, e i Totius Novi Testamenti loca principaliora... (Venetiis 1705), un'ampia silloge di conclusiones fondate su passi scritturali, volte a confutare le più note dottrine dei luterani, calvinisti e anabattisti. Successo al Valsecchi come rettore dello Studio veneto, proseguì nella sua attività pubblicistica centrata sulla polemica antiluterana e scrisse nel giro di due anni gli Asserta historico-scripturalia ab orbe condito ad Chr. natum (Venetiis 1709), breve compendio di storia sacra ispirato all'esigenza di un ritorno alla purezza dei primi precetti religiosi e la Doctrina catholica divi Augustini adversus haereticos (Venetiis 1709), la più completa espressione della sua solida e vasta dottrina teologica. Ormai noto negli ambienti ecclesiastici e ben introdotto nel mondo politico della Repubblica, che secondo una consuetudine ormai secolare sceglieva tra i serviti i suoi consultori in iure, iniziò il 28 apr. 1708 la sua attività al servizio dello Stato come coadiutore di fra' Celso Viccioni e percorse rapidamente tutti i gradi della carriera. Teologo nel maggio dello stesso anno, consultore il 28 marzo 1715, ma con riserva al Valsecchi della revisione delle bolle, venne impiegato anche in numerose missioni diplomatiche, che gli aprirono l'amicizia dei più influenti patrizi e la preziosa conoscenza delle esperienze politiche e religiose delle principali nazioni europee. Lo troviamo così a Vienna con Vettor Zane, a Londra con Alvise Pisani e Niccolò Erizzo, a Parigi con Giovanni Emo; a conclusione di queste peregrinazioni europee giunse il 30 luglio 1723 la nomina a revisore delle bolle che gli consentì di svolgere le alte cariche di teologo e consultore iniure nella pienezza di poteri e in un clima di totale fiducia da parte del Senato.
Ben trentatré volumi di consulte, raccolte dal governo e riposte a pubblica memoria e consultazione nei Secreta del Collegio, testimoniano dell'ampiezza e varietà del suo decennale lavoro nella magistratura già ricoperta da Paolo Sarpi. L'improvviso deterioramento delle relazioni veneto-pontificie verificatosi pochi anni dopo la sua morte a causa del decreto del 7sett. 1754, che subordinava la pubblicazione di atti pontifici a "previa licenza". del principe, si può forse più agevolmente comprendere ripercorrendo con pazienza le tormentate vicende dei rapporti fra Stato e Chiesa nella prima metà del secolo. Quando nel 1751 il C. lasciò la sua carica, Venezia vedeva concludersi con un amaro e pesante insuccesso la lunga vicenda del patriarcato di Aquileia, ma forse proprio per questo reagì allo smacco con una vivace ripresa delle istanze giurisdizionalistiche sempre più confortate dal favore dell'opinione pubblica italiana ed europea. Nel 1754 il nunzio Branciforte descriveva con parole catastrofiche le, condizioni della giurisdizione ecclesiastica, ormai ridotta "in tale decadenza che oggimai può dirsi non restare più che perdere, avendo la potestà secolare invaso ed occupato quasi tutto" e giungeva a considerare un successo "che le cose fossero riformate e ridotte ai termini ed alle massime di fra' Paolo" (Stella, Chiesa e Stato..., p. 336). A questa vera e propria guerra di logoramento delle posizioni ecclesiastiche condotta da Venezia nella prima metà del Settecento, di cui il Branciforte coglieva, sia pure con una punto di esagerazione, le evidenti conseguenze, il C. diede per oltre quarant'anni un contributo fondamentale, con una lunga azione di contenimento del potere e dei privilegi del clero.Fondamento e fonte primaria della dottrina e delle proposte del C. erano il pensiero e gli scritti del Sarpi cui egli tributava una venerazione incondizionata. Alla Repubblica di Venezia, ben degna di fregiarsi della dignità regia perché "se ben non porta il titolo di Re, è però in sostanza Re, ed ha tutte le prerogative di sovranità, di maestà ed ampiezza di stati, e tutte quelle altre circostanze necessarie per farla Re di sostanza, non diferente dagl'altri che nel titolo" (Consultori in iure, filza 191, f. 217), il C. attribuisce il diritto di legiferare liberamente e senza limiti su tutte le materie di interesse dei sudditi e, reputa "una pazzia" l'opinione che il clero sia mai stato sottratto alla competenza del principe secolare, anche se particolari e legittimi motivi di rispetto alla dignità e alla sacralità della funzione sacerdotale hanno ispirato alla benevolenza della Serenissima la concessione di alcuni privilegi, come l'esenzione dal foro laico nelle azioni personali limitatamente alle magistrature inferiori. Nonostante questa distinzione, è facile "che le cose temporali vestite di color spirituale sian tratte all'ecclesiastico con diminuzione dell'autorità temporale" e proprio al recupero paziente e metodico di tutti i margini di giurisdizione laica usurpati dalla secolare invadenza del clero il C. dedicò la sua opera di consultore colto e profondo, sensibile alle grandi questioni di principio ma soprattutto attento ai concreti provvedimenti giurisdizionalistici. Su ogni aspetto della vita pubblica e privata dello Stato il C. fornì al Senato pareri brevi, concisi, densi di dottrina e di riferimenti storici, sempre corredati da precise proposte immediatamente realizzabili. Ribadì l'interesse dello Stato ad anteporre i cittadini agli stranieri nella collazione dei benefici ecclesiastici, non esitò a proporre il sequestro delle rendite in caso di controversia con la Curia, ripropose con durezza il divieto ai religiosi sudditi di appellarsi alla S. Sede o ai nunzi apostolici per questioni attinenti alla disciplina monastica, escluse qualsiasi ingerenza degli ecclesiastici nell'amministrazione dei beni di confraternite, luoghi pii e fabbriche laiche.
Nel maggio del 1724 avanzò con chiarezza la tesi che tutte le leggi del mondo fanno del principe il "protettore delle ultime volontà e maggiormente di quelle che sono per cause Pie" (ibid., filza 192, f. 79), teoria non nuova nel diritto veneto ma la cui ripresa da parte del C. è particolarmente significativa perché nel 1764-66 costituirà la premessa della creazione della Deputazione "ad pias causas" e delle massicce alienazioni di beni ecclesiastici. Richiesto dal Senato di un parere su alcuni casi controversi di applicazione del diritto di asilo, il C. propose una linea di condotta cauta ma ferma, che mirava a limitare l'applicazione di questo antico privile. gio ormai dilatatosi oltre misura con grave danno del prestigio dello Stato e dell'Ordine pubblico. Al foro secolare il C. rivendicò la competenza per reati come la bigamia, il furto sacrilego, le "stregherie", su cui si protendeva minacciosa l'ombra del S. Uffizio, un'istituzione che nella "sua purità è una delle più proficue cose per la conservazione della religione che sia nella Chiesa di Dio, così nelli termini che la Corte Romana l'ha in parte ridotto e tutta via si sforza con ogni opportunità di ridurlo è uno dei più efficaci instromenti che l'ingegno umano habbia potuto ritrovare per la grandezza di essa Corte" (ibid., filza 192, f. 217). Da questo duro giudizio il C. faceva discendere una serie di consulte tese a ribadire in termini categorici le condizioni cui a suo tempo Venezia aveva subordinato l'istituzione nello Stato del S. Uffizio (assoluta indipendenza da Roma e organizzazione autonoma e vigilata dalle autorità secolari) e a ridurre lentamente e senza clamorose controversie la sfera di competenza e la severità di funzionamento. Innanzitutto si sforzò di restringere al massimo la nozione di "eresia", da lui definita "un error dell'intelletto", negando la pericolosità sociale di colui che crede falsamente ma tiene il suo errore dentro di sé qualificandosi dunque come "eretico formale e ribelle di Dio e della Santa Fede nel foro interno" ma non per questo "soggetto all'Officio dell'Inquisizione e molto meno alle pene da quello fulminate contro gli heretici" (ibid., filza 187, f. 19). A questo esplicito invito a tollerare il dissenso religioso di tipo nicodemitico il C. aggiunse la proposta di sottrarre al S. Uffizio la competenza sulle persone di nazione cristiana "la quale tutta intiera viva con riti proprii diversi da i nostri" (inglesi, tedeschi, eretici francesi) e di negare validità alla proibizione di libri da parte dell'Inquisizione romana e della Congregazione dell'Indice. Molto significativo anche il suo suggerimento di ribadire con fermezza al S. Uffizio il divieto di procedere ad inquisizione con la sola notizia del delitto contro la prassi della denuncia certa e limitata a persona definita (ibid., filza 187, f. 427; filza 189, passim; filza 192, f. 149). Anche l'attività del tribunale della nunziatura di Venezia, "assoluto, indipendente dal Principe, diretto e governato con le sue proprie massime, per lo più opposte alle pubbliche, e totalmente soggetto al Pontefice", appariva al C. un pericoloso attentato alla sovranità dello Stato e pur ammettendo che la sua chiusura avrebbe danneggiato i meno abbienti per il forzato trasferimento delle cause a Roma, non esitò a consigliare al Senato, nel caso di "un'interrotta corrispondenza con Roma", di valersi del "diritto delle genti, che dà l'uso delle rappresaglie e di tutti quei mezzi che giovano a vendicare l'ingiuria" senza alcun riguardo al potere temporale del papa che ha per oggetto "le cose di mondo e non di paradiso" (ibid., filza 201, ff. 346-350).
Contro gli abusi dell'autorità del papa il C. aveva parole di inusitata violenza che sembrano uscite dalla penna di Lutero: eletto in conclavi dominati da cabale, trame e intrallazzi politici, il romano pontefice deve alla dabbenaggine e alla debolezza di laici ed ecclesiastici il suo immenso potere "che non riconosce più confini e che non è oggi possibile limitare bastando che s'impedisca solamente di far progressi maggiori". Talvolta la "superstizione", i "pregiudizj" e "la debolezza dello spirito" di un popolo accecato dalla idolatria trasformano per un solo voto un "vecchio cardinale in un Gran Lama, in una divinità di cui si viene in folla a ricevere la benedizione, sebbene quattro giorni prima egli avrebbe traversato tutta Roma senza che alcuno avesse degnato di riguardarlo".
Nei lunghi anni di lavoro come teologo e consultore in iure il C. allargò la sua preparazione anche al campo della storia e dell'erudizione che gli fornivano preziosi sussidi per alcune consulte sulle origini e i diritti del patriarcato di Aquileia e sulla controversa questione delle acque del Tartaro.
Attivo e lucido sin negli anni della vecchiaia, il C. dedicò le sue energie anche all'Ordine dei servi di Maria di cui fu a lungo provinciale per la Patria del Friuli, e solo a partire dal 19 maggio 1745 acconsentì a farsi affiancare nella sua carica da Anton Maria Bosini (o Borini) e poi dall'udinese Enrico Fanzio destinato a succedergli. Onorevolmente giubilato il 27 maggio 1751, morì nel convento dei serviti di Venezia il 9 nov. 1754.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Roma expulsis, filza 94; Ibid., Inquisitori di Stato, buste 471, 472; Ibid., Consultori in iure, filze 187-225; Udine, Bibl. com., Documenti per la storia del Patriarcato di Aquileja, busta 2; B. Hartmann, Oraz. funebre in lode del Rev.mo Padre Maestro fra P. C. dell'Ordine de' Servi di Maria Vergine..., recitata... il di 11 novembre 1754..., Venezia 1754; B. Asquini, Cent'ottanta e più uomini illustri del Friuli…,Venezia 1735, p. 64; G. Nave, Fra Paolo Sarpi giustificato. Dissertaz. epistolare, Colonia 1752, p. 95; G. Moschini, Della letter. venez. del sec. XVIII fino a' nostri giorni, IV, Venezia 1808, pp. 52 s.; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, I, Venezia 1824, pp. 85-86, 356; G. G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da' letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 364-365; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinattant'anni. Studii storici. Appendice, Venezia 1857, p. 64; F. Di Manzano, Cenni biogr. dei letterati ed artisti friulani dal sec. IV al XIX, Udine 1884, pp. 56-57; D. Tassini, Ifriulani (ignoti) "Consultori in iure" della Repubblica di Venezia, II, Frate P. C., Tarcento 1909; A. Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia…, Città del Vaticano 1964, ad Indicem.