PAOLO da Gualdo Cattaneo
PAOLO da Gualdo Cattaneo. – Nato prima del 1380, questo scultore, attivo a Roma e nel Lazio meridionale nei primi due decenni del Quattrocento, era originario di Gualdo Cattaneo in Umbria.
Dall’epigrafe incisa sulla fronte del sarcofago di Bartolomeo Carafa della Spina (morto il 25 aprile 1405) in S. Maria in Aventino a Roma si può dedurre che Paolo nacque prima del 1380 perché il suo nome, apposto a firma dell’opera, è accompagnato dalla qualifica di «magister», per la quale occorreva aver compiuto 25 anni.
Bartolomeo Carafa, «locumtenens magisterii» dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, era stato inizialmente sepolto nella basilica di S. Pietro in Vaticano, nella cappella della Vera Croce, atterrata al tempo di papa Niccolò V. Menzionato per la prima volta nel cimitero di S. Maria in Aventino nel 1584, il suo monumento funebre fu trasportato nel 1611 all’interno della chiesa, dove subì ulteriori rimaneggiamenti al tempo dei restauri piranesiani (Die mittelalterlichen Grabmäler, 1994, pp. 110, 114 n. 4); oggi è ridotto al solo sarcofago con il gisant in abito militare. Sulla fronte dell’arca, ai lati dell’epigrafe, entro due specchiature delimitate da semicolonne tortili, spiccano gli stemmi del defunto costituiti dallo scudo inclinato sormontato dall’elmo con cercine, lambrecchini e cimiero formato dal busto di un angelo ad ali spiegate. L’articolazione della fronte del sarcofago Carafa denuncia una sostanziale estraneità rispetto alla tradizione umbro-romana delle arche funerarie: la tripartizione con semicolonne e le imprese araldiche a rilievo nelle specchiature laterali rimandano alla moda trecentesca delle urne sepolcrali di area veneta, alla quale rinvia anche il decoro a fogliami nelle cornici inferiori e superiori della fronte dei più tardi sarcofagi dell’Anguillara e Stefaneschi. Riferimenti lombardi affiorano inoltre nel robusto realismo del gisant Carafa – quasi fisicamente presente –, nel fermo e tornito plasticismo della sua figura e nell’elastico turgore del suo volto, oltreché nella cura riservata al costume militare e all’araldica, pur se scevra da soverchi indugi ornamentali.
È plausibile che Paolo fosse giunto nell’Urbe dopo aver maturato esperienze settentrionali, per esempio, nel cantiere del duomo di Milano, abbandonato da molti scultori dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti (1402) proprio per cercare nuove opportunità d’ingaggio verso sud – a Orvieto, all’Aquila, a Sulmona, a Napoli.
Il monumento Carafa fu forse preceduto, sia pure di pochi mesi, dal monumento funebre per il viterbese Antonio de’ Vecchi, vescovo di Fermo (morto il 21 giugno 1405), ugualmente sepolto nella basilica di S. Pietro in Vaticano. Dell’opera sopravvive soltanto la mutila lapide firmata «[pavlvs d]e gvaldo fecit»: l’indicazione del luogo natale – assente negli altri monumenti romani autografi – suggerisce che lo scultore non fosse ancora noto a Roma.
L’epigrafe fu rinvenuta nel 1776 nel corso dei lavori di abbattimento della Sagrestia Vecchia della basilica Vaticana e collocata nelle Sacre Grotte, dove tuttora si conserva nel corridoio della Cappella Ungherese (Pasqualetti, 2001, pp. 39 s. n. 7). È probabile che del monumento de’ Vecchi facessero parte due angeli reggi-cortina – oggi nell’aula inferiore del Sinodo nel palazzo apostolico Vaticano – un tempo assemblati con elementi scultorei di diversa provenienza nella cappella della Pietà nella basilica Vaticana (pp. 25 s.). Pur costituendo un modello per gli angeli del successivo monumento funebre dell’Anguillara a Capranica di Sutri, «al tempo stesso se ne distinguono per una maggiore ricercatezza, specialmente nel panneggio più articolato e più morbido»; i loro volti «fortemente geometrizzati e meno sensibilmente plasmati rispetto a quelli degli stemmi Carafa» (p. 25) fanno sospettare l’intervento di un collaboratore dei primi tempi romani di Paolo, che forse non poteva ancora contare su allievi diretti per fare fronte alle commissioni.
A Roma Paolo poté soddisfare i gusti di una committenza desiderosa di inseguire la moda cavalleresca dei sepolcri settentrionali, incontrando specialmente il favore della colonia napoletana raccolta attorno a Bonifacio IX Tomacelli, ritratto da Paolo nell’immagine onoraria oggi nel chiostro della basilica romana di S. Paolo fuori le Mura.
Assisa su un trono recante sui fianchi gli stemmi papali riprodotti a rilievo, l’effigie di Bonifacio IX è ricordata dalle fonti cinquecentesche sulla controfacciata della basilica ostiense, a destra del portale maggiore, accanto all’altare intitolato a S. Paolo; l’opera subì vari spostamenti prima di trovare l’attuale sistemazione (Pasqualetti, 2001, p. 19). Sull’alto basamento, non pertinente all’effigie, è apposta una lapide che, nel commemorarne il restauro promosso da Lucrezia Tomacelli Colonna (dunque fra il 1597, anno delle sue nozze con Filippo Colonna principe di Paliano, e il 1622, anno della sua morte), riconduce l’opera alla committenza della Congregazione cassinese. Malgrado l’evidente anacronismo – la Congregazione assunse questo nome soltanto nel 1504 quando vi aderì l’abbazia di Montecassino –, l’epigrafe attesta a suo modo il coinvolgimento del cenobio – retto dal 1396 al 1415 da Enrico Tomacelli, nipote del papa – nella commissione del monumento, segno di gratitudine per i provvedimenti assunti da Bonifacio nell’anno 1400 per il restauro della basilica ostiense (pp. 19 s.).
Benché non firmata, l’opera presenta tutte le caratteristiche delle effigi scolpite da Paolo: dall’inconfondibile formulario somatico al robusto modellato atto a produrre effetti di sintetico realismo ritrattistico. Il ricco movimento delle vesti al di sotto delle ginocchia non autorizza sospetti di rilavorazione, anzi il trattamento dei lembi si confronta agevolmente con quello riservato alla parte inferiore del camice del gisant Stefaneschi, oltretutto parzialmente resecata. Riconducibile a un intervento successivo – forse risalente al pontificato di Innocenzo VIII Cibo – è l’iscrizione sul libro che il pontefice tiene fermo con la mano sul ginocchio sinistro: grafia e tenore del testo non si accordano infatti con una cronologia di inizio Quattrocento (pp. 17-21).
Entro la fine del primo decennio del Quattrocento si colloca il monumento funebre dei fratelli dell’Anguillara – Francesco (morto nel 1406) e Niccolò (morto nel 1408) – eretto nella chiesa di S. Francesco a Capranica di Sutri, già intitolata a S. Lorenzo.
Il complesso funerario, non firmato ma attribuito su base stilistica, fu realizzato con l’ampio concorso della bottega. Rifacendosi alla tradizione napoletana delle doppie sepolture, il monumento è costituito da un alto baldacchino a parete e da un sarcofago su colonne con i corpi dei due fratelli in abito militare distesi entro un padiglione a cortine scostate dagli angeli. Sul tetto della camera funeraria stanno le effigi dei defunti inginocchiate ai lati del gruppo della Madonna col Bambino, alla quale vengono raccomandate dai Ss. Francesco e Lorenzo oggi collocati in terra accanto al monumento.
Alla fine del secondo decennio del Quattrocento risale l’esecuzione del monumento funebre del cardinal Pietro Stefaneschi (morto il 31 ottobre 1417) nella basilica di S. Maria in Trastevere.
Firmato «magister pavlvs» in calce all’epigrafe sulla fronte del sarcofago, il complesso funerario era originariamente nella navata destra, addossato alla parete presso l’altare di S. Pietro (Pasqualetti, 2001, p. 46 n. 112). In concomitanza con i lavori di costruzione dell’attuale, omonima cappella, iniziata nel 1583, il monumento fu spostato nel braccio sinistro del transetto (Die mittelalterlichen Grabmäler, 1994, p. 128) e ridotto al solo sarcofago su mensole con l’immagine del defunto, la quale figura tra i migliori raggiungimenti dello scultore umbro. I vistosi motivi floreali sui cuscini e sulla dalmatica dell’effigie cardinalizia si rinvengono anche nel copricapo indossato dal gisant del più tardo monumento funebre di Briobris a Vetralla.
Nello stesso anno in cui morì Stefaneschi, Riccardo Gattola di S. Giacomo (morto dopo il 1420), nobile di Gaeta documentato al servizio di Ladislao di Durazzo in qualità di comandante di Castel Sant’Angelo a Roma, richiese a «magistrv pavlv de gavlv catanii» la realizzazione del proprio sepolcro, come si evince dall’epigrafe in volgare (Pasqualetti, 2001, p. 45 n. 101).
La provenienza del monumento dalla chiesa di S. Francesco a Gaeta è tramandata da Girolamo Gattola (1788) che ne lasciò una dettagliata descrizione (Pasqualetti, 2001, p. 33). Quanto rimane del complesso, smembrato dopo le soppressioni napoleoniche, è diviso fra il Museo Bardini a Firenze (lastra di copertura del sarcofago con figura giacente ed epigrafe; statue dell’Angelo annunciante e della Vergine annunciata) e il Walters Art Museum a Baltimora (fronte del sarcofago recante a rilievo gli stemmi e la scena della commendatio animae di Gattola). Di recente sono stati individuati numerosi altri frammenti, fra i quali gli Angeli reggicortina del Museo Ivan Bruschi di Arezzo. Il monumento, che specialmente nella fronte del sarcofago e nelle statue caratterizzate da condotta poco sorvegliata denuncia l’intervento massiccio della bottega, dovette essere spedito per mare e assemblato in loco (Pasqualetti, 2001, p. 33).
Firmato «m[agister] pavlvs de gvaldo cattanie» è il monumento funebre di Briobris, figlio naturale di Giovanni Sciarra di Vico, signore di Vetralla, premorto al padre all’età di trentatré anni e documentato soltanto dall’epigrafe incisa sulla fronte dell’urna sepolcrale.
Del complesso funerario, sito nella chiesa di S. Francesco a Vetralla e databile tra la fine del secondo e gli inizi del terzo decennio del Quattrocento, si conserva il solo sarcofago con gisant, murato nella nicchia ad arcosolio sulla parete della navata destra a seguito della ristrutturazione dell’edificio avvenuta nel 1612; il monumento originario doveva essere di tipo freestanding e trovarsi fra le prime due colonne a sinistra entrando nella chiesa (pp. 26-28).
La figura recumbente di Briobris rivela importanti analogie – dalla tipologia fisica all’accurata resa dell’abbigliamento militare e degli ornati – con le cariatidi del monumento funebre di Ludovico Aldomorisco (morto nel 1421) in S. Lorenzo Maggiore a Napoli, firmato da Antonio Baboccio da Piperno, il principale attore della scena artistica locale in età durazzesca che, secondo la tradizione, avrebbe soggiornato a Milano prima del 1407 (pp. 29 s.).
Fra le opere ascritte a Paolo figurano due statuette maschili del Museo civico di Spoleto (p. 26), probabilmente provenienti da un monumento funebre.
In rapporto con le effigi documentate del maestro esse mostrano affinità di ordine fisionomico e di condotta scultorea decisamente più puntuali delle teste-mensola di S. Maria delle Grazie a Giano dell’Umbria che gli sono state recentemente attribuite (Neri Lusanna, 2009, pp. 66-71).
Di problematica paternità la statua di S. Giacomo, conservata in una nicchia dell’omonimo Ospedale romano, alla quale fanno riferimento alcune proposte critiche volte a individuare le radici della cultura artistica di Paolo ora in ambito romano-arnolfiano (Negri Arnoldi, 2003), ora in ambito umbro-romano, ma a contatto con il mondo tardo-gotico fiorentino (Neri Lusanna, 2009).
Il formulario somatico e le modalità di panneggio della statua non sembrano però riconducibili allo scultore umbro: tra le altre cose, gli è completamente estraneo il trattamento della capigliatura che incornicia sin dalle tempie il volto dell’apostolo mediante una profonda linea d’ombra. Più vicina ai modi di Paolo è la statua di S. Margherita nel duomo di Montefiascone (pp. 59-66), strutturata e modellata in maniera del tutto differente rispetto al S. Giacomo romano al quale è stata tuttavia accostata.
Ignoti sono il luogo e la data di morte di Paolo, del quale non si hanno più notizie dopo il 1417.
Fonti e Bibl.: A. Muñoz, Maestro P. da G. detto ‘Paolo Romano’, in Rassegna d’arte umbra, II-III (1911), pp. 29-35; Id., Meister Paulus, in Monatshefte für Kunstwissenschaft, IV (1911), pp. 73 s.; Id., Il ripristino della chiesa di S. Maria Nuova a Viterbo e il S. Francesco di Vetralla, in Bollettino d’arte, IV (1912), pp. 121-145; R. Cervone, L’apporto umbro di Maestro P. da G., in Il Quattrocento a Viterbo (catal., Viterbo), a cura di R. Cannatà - C. Strinati, Roma 1983, pp. 313-323; Il Museo Bardini a Firenze, a cura di E. Neri Lusanna - L. Faedo, II, Firenze 1986, pp. 34 s.; Die mittelalterlichen Grabmäler in Rom und in Latium vom 13. bis zum 15. Jahrhundert, II, Die monumentalgräber, a cura di J. Garms - A. Sommerlechner - W. Telesko, Wien 1994, pp. 112-115 n. 33, 126-129 n. 37, 157 s. n. 50, 187-191 n. 71, 201-204 n. 78; Statuaria lapidea dagli Etruschi al Barocco, a cura di M. Scalini (catal., Firenze), Livorno 1999, p. 50 n. 18; S. Cesari, Magister Paulus, uno scultore tra XIV e XV secolo, Roma 2001; C. Pasqualetti, P. da G. C.: uno scultore umbro a Roma e nel Lazio agli inizi del Quattrocento, in Prospettiva, 2001, pp. 12-46 nn. 103-104; F. Negri Arnoldi, Il San Giacomo di Maestro P. da G., in Confronto, II (2003), pp. 123-125; E. Neri Lusanna, Gli inizi di P. da G.: vecchi equivoci sulla sua formazione e nuove proposte, in Studi di storia dell’arte, XX (2009), pp. 53-72; N. Bernini, Lo smembrato monumento sepolcrale di Riccardo Gattola di San Giacomo a Gaeta, opera di P. da G. C.: dal ritrovamento delle sue parti alla loro ricollocazione virtuale, in corso di stampa.