PAOLO di Lello Petrone
PAOLO di Lello Petrone. – Le notizie sulla famiglia di Paolo di Lello Petrone sono alquanto scarse. Il tentativo di ricostruire un albero genealogico dagli inizi del Trecento (Isoldi, Prefazione, p. LXXIV) lascia qualche perplessità, anche perché non è possibile stabilire quando il patronimico Petronis si sia convertito in cognome.
Il padre Lello è con ogni probabilità da identificare con quel Lellus Petronis che il 3 nov. 1372 fece da testimone all’atto di nomina di un arbitro, nella persona di Raimondo de Tholomeis di Siena miles e senatore di Roma, stipulato nel palazzo del Campidoglio dal notaio Paulus de Serromanis. Nel 1407 Lello era già morto, come attesta un atto del giugno di quello stesso anno (Iacovacci, p. 662), in cui tre dei suoi quattro figli maschi, Paolo, Giovanni e Cola, vendevano una vigna fuori porta Castello. È questa la prima notizia dell’autore della cronaca volgare romana chiamata Mesticanza. Un altro figlio di Lello, Giacomo, fu rettore di S. Maria in Campitelli e uditore del vicario del papa nel 1400. Di Giovanni di Lello si sa invece che fu caporione di Ponte e poi conservatore nel 1447, che fu iscritto alla Società del Salvatore ad Sancta Sanctorum, che ebbe cinque figli maschi (Melchiorre, Alessandro, Girolamo, Lello e Gaspare), che morì nel 1467 e fu sepolto nella chiesa di S. Salvatore in Lauro (Iacovacci, p. 668).
Paolo di Lello Petrone, nato probabilmente intorno al 1388, risiedeva nel rione Ponte, lungo la via Recta (attuale via dei Coronari), non lontano da ponte Sant’Angelo e ai piedi di Monte Giordano, dove sorgeva una delle principali residenze fortificate degli Orsini, come egli stesso racconta: «Romano so’, e lla mia gente posa / Nello rion di Ponte in via diritta / A pè del monte casa gratiosa» (Lamento, c. 56r). Dalla sua residenza nell’area di influenza degli Orsini e dall’atteggiamento ostile ai Colonna che emerge dai suoi scritti – soprattutto dalla Mesticanza – si può dedurre una netta scelta di campo a favore degli Orsini da parte di Petrone nella contrapposizione tra le due grandi stirpi baronali romane. Tale posizione lo contrappone nettamente a un altro grande cronista romano del XV secolo, Stefano Infessura, che fu invece sostenitore dei Colonna.
Paolo di Lello Petrone era un notaio «imperiali auctoritate», come testimoniato dai suoi protocolli relativi agli anni 1416-29 (Roma, Archivio di Stato, Collegio dei Notai Capitolini, 938 e 939), La maggior parte degli atti compresi in questi protocolli sono stipulati a Roma e nel rione Ponte, spesso nel portico della sua casa, o davanti alla chiesa dei Ss. Celso e Giuliano, o anche a palazzo Orsini a Monte Giordano («Actum Rome in Monte Iordani in maiori sala palatii Ursinorum»; prot. 938, c. 25v). Alcuni atti furono stipulati anche fuori di Roma: a Fermo, Nepi, Corneto, Civita Castellana, Castro S. Elia, Magliano e Sangemini. La sua clientela era costituita soprattutto da artigiani, bottegai e membri delle famiglie dell’aristocrazia municipale (i nobiles viri). Alla carta 30r del protocollo 938 si legge un breve ricordo relativo all’elezione di papa Martino V, accompagnato dal disegno di una tiara. Un altro protocollo di Paolo di Lello Petrone si trova nell’Archivio del Capitolo di S. Pietro e comprende gli «instrumenta spectantia et pertinentia ad Sacrosanctam Basilicam Principis Apostolorum» (c. 1r). Il protocollo abbraccia il periodo compreso tra il 3 maggio 1441 e il 21 maggio 1447, dunque si estende fino ai primi mesi del pontificato di Niccolò V.
Nel maggio-giugno del 1420 Petrone fu prigioniero a Viterbo in circostanze che egli stesso non intese chiarire («Dentro in Viterbo mi trovai presone / Tradito foi da cavalieri erranti / Forria longo a dire el modo e ’l come» Lamento, c. 56r). L’episodio avvenne qualche mese prima dell’entrata a Roma di Martino V, quando lo Stato della Chiesa era teatro di lotta tra capitani d’armi che si contendevano il controllo del territorio e della stessa città di Roma. Proprio nel 1420 accaddero a Viterbo episodi di insubordinazione nei confronti della Chiesa, tanto che Martino V, che vi soggiornò nell’estate di quell’anno mentre ritornava a Roma da Firenze, pretese dalle istituzioni cittadine e dal clero un giuramento di fedeltà; poi perdonò i «Viterbesi fuorusciti, fra’ quali non pochi se ne contavano ribelli di Santa Chiesa» (Bussi, pp. 232 s.). Il perdono del papa fu sollecitato da Giovanni Gatti (d’Andrea, p. 131). Ma non è dato sapere l’esatta ragione della prigionia di Paolo di Lello Petrone. Nel 1429 Paolo sposò Iacobella di Cecco Topposi, ancora vivente nel 1486 (Iacovacci, p. 671).
Dopo l’elezione di Eugenio IV (1431), fautore degli Orsini contro i Colonna, Petrone fu coinvolto in un episodio che dimostra la sua piena fedeltà al nuovo pontefice e lo vede schierato in prima linea a sua difesa. Dopo la fuga da Roma di Eugenio IV (maggio 1434) e la creazione di una Repubblica romana ispirata a ideali libertari, Paolo di Lello Petrone, insieme al fratello Giovanni e ai nipoti Lello e Gaspare, partecipò a un tentativo, non riuscito, di restituire la città al pontefice. A causa della scoperta della trama filopontificia, essi furono costretti a fuggire da Roma il 15 ottobre 1434 (Mesticanza, pp. 7 s.) e a rimanerne lontani fino al 27 ottobre, quando il papa ristabilì il proprio controllo sulla città e pose fine alla breve vita della Repubblica. Ulteriore conferma dell’ostilità di Paolo nei confronti dei Colonna offre un episodio accaduto nel marzo del 1437, quando su incarico di Giovanni Vitelleschi – che governava Roma e il suo territorio durante l’assenza del papa in qualità di vicecamerlengo – andò ad assistere all’incendio e all’abbattimento della rocca di Palestrina, ultima roccaforte colonnese dopo le distruzioni dell’esercito papale. Tale notizia si ricava da uno solo dei codici della Mesticanza, mentre nel resto della tradizione manoscritta essa fu probabilmente censurata insieme al compiacimento per quanto era stato fatto contro la «maledetta» stirpe dei Colonna. Si legge dunque nell’edizione della Mesticanza soltanto che Vitelleschi il 20 marzo «ce mandò 12 mastri per rione de Roma a farla infocare spianare sciervicare smurare et in tutto disabbitare» (p. 35). Nel 1437 Paolo di Lello Petrone prese anche parte a un’ambasceria inviata dal popolo romano al papa, a Firenze, per perorare la causa di un suo rientro, ma, come è noto, Eugenio IV restò lontano da Roma per ben nove anni.
Non si conosce la data della morte di Paolo, ma l’interruzione sia della cronaca sia dell’attività di notaio nel 1447 (l’ultimo atto stipulato per conto del capitolo di S. Pietro è del 21 maggio 1447, f. 127 r-v) lasciano supporre che essa sia avvenuta nel medesimo anno.
La prima opera fino a noi pervenuta di Paolo di Lello Petrone è il Lamento in terzine, scritto in un «volgare toscaneggiante, ma con alcuni caratteri romaneschi» (D’Achille - Giovanardi, 1984, p. 42), presumibilmente composto a breve distanza di tempo dall’incarcerazione a Viterbo del 1420. È un’opera nella quale, accanto alla veloce narrazione delle tristi esperienze personali del carcere, domina il tema topico di Roma: la sua grandezza nell’età antica, dove trionfavano le virtù civili, la giustizia, la libertà e la legge («Roma dolente, quant’eri gioiosa! / Signoriavi tucto l’universo: / Dov’è lla gente tua vitoriosa?»; c. 56r), a confronto con la crisi della città contemporanea, dilaniata dalle lotte intestine e in preda al vizio. Emerge, dai versi del Lamento, la passione politica di un cittadino che auspica la pace e deplora la violenza e l’ingiustizia: egli appare – in questa fase – indifferentemente ostile a tutti i baroni, agli Orsini come ai Colonna e ai Savelli («Del bianco dico como dello bruno / Et l’una e llaltra parte vo’ pregare / che lla lor terra degan ben trattare»; c. 56v), in linea con l’ideologia antimagnatizia dei governi popolari del Trecento romano.
La Mesticanza è una cronaca romana in volgare romanesco, «che nei mss. ha subito un processo di toscanizzazione» (D’Achille - Giovanardi, 1984 p. 42), nella quale è inserito un sonetto cantato. Essa riguarda – per la parte attualmente conservata – le vicende della città di Roma negli anni 1434-47. Ma l’originale perduto, autografo di Paolo, dal quale derivano oltre venti manoscritti, comprendeva – come ha dimostrato Isoldi – anche la narrazione dei fatti di anni precedenti. I riferimenti ad avvenimenti già narrati presenti nel testo (per es., «come a carte XV è detto») hanno consentito all’editore di ipotizzare che la data iniziale degli eventi nell’originale perduto sia il 1420, anno del solenne ingresso a Roma di Martino V, che segnò una svolta importante nella vita della città dopo i lunghi anni dello Scisma. La mancanza delle prime pagine della cronaca impedisce di comprendere se il forte impegno anticolonnese di Paolo durante il pontificato di Eugenio IV sia il risultato di una lenta evoluzione personale in rapporto alle esperienze vissute ai tempi di Martino V oppure l’esplicitazione di una scelta di parte a lungo sopita e finalmente liberata dall’elezione del Condulmer, schierato a favore degli Orsini.
La Mesticanza racconta, secondo un ordine rigorosamente cronologico, la storia della città in un periodo difficile e turbolento, segnato dalla lunga assenza del papa, rientrato a Roma solo nel settembre del 1443, e dalle lotte tra le fazioni: le discordie intestine, le guerre e i trattati, che portano l’attenzione fuori della città e dello Stato della Chiesa, la vita quotidiana con le sue cerimonie e le sue tradizioni. L’opera comprende lunghi elenchi di nomi – suddivisi per rioni – di cittadini implicati in varie vicende, o eletti alle magistrature municipali oppure destinatari di un dono di abiti da parte di Eugenio IV.
Come l’Anonimo romano, autore della Cronica trecentesca, anche Paolo di Lello Petrone aveva una cultura sia latina sia volgare. Usava il latino quotidianamente per l’esercizio della professione di notaio e tale circostanza avvalora l’uso del volgare come una scelta consapevole, legata alla cultura di coloro ai quali egli intendeva destinare la propria opera, persone che potevano non conoscere il latino, ma che erano considerate capaci e degne di formarsi una coscienza storica e politica dei fatti recenti e contemporanei. È purtroppo assente qualunque motivazione esplicita della scelta del volgare sia da parte di Paolo sia degli altri cronisti romani del XV secolo. Si deve tuttavia supporre una ragione molto simile a quella dell’Anonimo romano, che indica un impegno culturale e politico del suo autore e richiama i praecepta della storiografia classica. Ma c’è di più: dalle pagine della Mesticanza emerge un aspetto molto particolare della destinazione dell’opera. Alcune espressioni ne suggeriscono infatti una lettura ad alta voce, in ambito familiare o appena allargato ad amici fidati, dove pochi comprendevano il latino e soltanto alcuni erano in grado di leggere. Nella Mesticanza Paolo si rivolge ai destinatari della sua opera non soltanto con un: «havete letto» (p. 12), ma anche con un «Como de sopra avete odito...» (p. 19), o «Avete odito de nanzi come a dì 29 de maio lo papa perdio lo stato de Roma» (p. 9). La conferma della ristrettezza del pubblico al quale l’autore della Mesticanza valutava potesse giungere la sua opera, che pur fermamente egli aveva deciso di scrivere nel bene e nel male che c’era da raccontare, è peraltro da leggere in quei continui richiami ad altre parti del libro con il numero del foglio («secondo che a carte 23 havete, credo, lietto»; p. 21), che indicano come l’autore non riuscisse con la propria immaginazione ad andare al di là dell’esistenza di un unico manoscritto, probabilmente da conservare e da leggere in famiglia. Una previsione, per certi versi, molto realistica almeno per l’epoca della vita di Paolo e dei suoi immediati successori, visto che non si conserva neppure un manoscritto quattrocentesco della Mesticanza e che la sua edizione moderna si è potuta avvalere soltanto di codici più tardi.
Altro importante elemento di continuità con la Cronica trecentesca è il principio classico dell’utilità e dell’esemplarità della storia, che va conosciuta sia nei suoi aspetti positivi sia in quelli negativi. Altrettanto in linea con la tradizione classica e con le scelte dell’Anonimo romano è l’obbedienza dell’autore a una concezione autoptica della narrazione storica: la Mesticanza comprende tutti fatti contemporanei alla vita dell’autore, fatti romani o strettamente correlati alle vicende romane. Marco Antonio Altieri – nel primo decennio del Cinquecento – ricorda Paolo di Lello Petrone come «diligente et curioso notatore di quel tanto che innel suo seculo de novo succedessi» (Li Nuptiali, p. 113, dove tuttavia viene confuso con il padre e chiamato «misser Lelio Petrone»).
La cultura di Paolo, quale emerge dalle sue opere, può essere definita una cultura di stampo giuridico e notarile come quella di molti altri cronisti romani del Quattrocento che esercitavano la professione di notaio (Miglio, 1983, p. 753), ma anche una cultura non impermeabile agli stimoli dell’Umanesimo e al fascino degli autori antichi. Un dotto e pretenzioso «dice Aristotele che dato uno inconveniente sequentur mille» apre il capitolo a proposito dell’utilità e dell’esemplarità della storia.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio Storico Capitolino, Notai, Sez. I, vol. 649/12, cc. 87r-88v (notaio Paulus de Serromanis); Roma, Archivio di Stato di Roma, Collegio dei Notai Capitolini, 938 e 939; Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Archivio del Capitolo di San Pietro, Privilegi e atti notarili, 15; ibid., D. Iacovacci, Repertorii di famiglie, Ott. lat. 2552/II, pp. 662-671. Il Lamento (Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 4807, c. 56r-v, da cui cito) è edito da A. Corvisieri, Varietà, in Archivio della Società romana di storia patria, II (1879), pp. 491-503; poi in A. Medin - L. Frati, Lamenti storici dei secoli XIV, XV e XVI, II, Bologna 1888, pp. 1-12; La Mesticanza, tràdita da numerosi manoscritti, è edita da L.A. Muratori sulla base del solo codice Vat. lat. 6823, in RIS, 24, Mediolani 1738, coll. 1103-1130; poi, con un’ampia recensione dei manoscritti, un’introduzione storica e un glossario, in La mesticanza di Paolo di Lello Petrone, a cura di F. Isoldi, RIS, 24,2, Città di Castello 1910-1912, pp. I-LXXXI e 1-63; Li Nuptiali di Marco Antonio Altieri pubblicati da Enrico Narducci, Introduzione di M. Miglio, appendice documentaria e indice ragionato dei nomi di A. Modigliani, Roma 1995 (RR inedita, 9 anastatica), p. 113; F. d’Andrea, Cronica, ed. a cura di P. Egidi, prefazione a cura di G. Lombardi, Manziana 2002, p. 131; O. Panvinio, Historia delle vite de’ Sommi Pontefici dal Salvatore nostro sino a Gregorio XV, Venetia 1622, terza c. non numerata; F. Bussi, Istoria della città di Viterbo, Bologna 1742, pp. 232 s.; O. Tommasini, Il Diario di Stefano Infessura. Studio preparatorio, in Archivio della Società romana di storia patria, XI (1888), pp. 481-640, 579; B. Migliorini - G. Folena, Testi non toscani del Quattrocento, Modena 1953, pp. 48-50; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, p. 277; G. Ernst, Die Toskanisierung des römischen Dialekts im 15. und 16. Jahrhundert, Tübingen 1970, p. 20; M. Miglio, Mesticanze, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, Atti del 2° seminario (6-8 maggio 1982), a cura di M. Miglio, Città del Vaticano 1983, pp. 749-755; P. D’Achille - C. Giovanardi, La letteratura volgare e i dialetti di Roma e del Lazio. Bibliografia dei testi e degli studi, I. Dalle origini al 1550, Roma 1984, pp. 42 s.; I. Lori Sanfilippo, Notai e protocolli, in Alle origini della nuova Roma Martino V (1417-1431), Atti del Convegno, Roma, 2-5 marzo 1992, a cura di M. Chiabò et al., Roma 1992, pp. 414, 417 s., 420-422, 425, 427, 431 s.; A. Modigliani, La lettura “storica” delle fonti in volgare: il caso di Roma. Memorie cittadine e familiari, in Storia della lingua e storia, Atti del II Convegno dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana, Catania 26-28 ott. 1999, a cura di G. Alfieri, Firenze 2003, pp. 233-253: 239, 242, 246, 249 s., 253.