PAVOLINI, Paolo Emilio
– Primogenito di Giovanni, insegnante di origini elbane, e di Lidia (o Lida) Vanneschi, figlia di un capitano dell’esercito, nacque a Livorno il 10 luglio 1864, ed ebbe come unico fratello Angiolo (1880-1965), botanico e mineralista.
Compì gli studi a Pisa; allievo di Emilio Teza dal 1883, apprese da lui il sanscrito e si laureò in lettere il 6 luglio 1886 con una dissertazione su I nomi e gli epiteti omerici del mare (Pisa 1890). Ebbe poi la nomina di insegnante ginnasiale a Bologna, ove pure, presso l’Accademia di storia e letteratura polacca e slava, studiò russo e polacco sotto la guida di Malwina Ogonowska. Ottenuta la borsa di studio Gori-Feroni a Siena, dal 1889 al 1891 fu a Berlino dove frequentò Ernst Leumann, Albrecht Weber e Karl Friedrich Geldner, e si accostò al pāli e al pracrito. Nel 1892 si recò a Londra e, nello stesso anno, conseguì la libera docenza in sanscrito presso il R. Istituto di studi superiori di Firenze. Si stabilì nel capoluogo toscano, assumendo nel 1892-93 l’incarico dell’insegnamento di sanscrito (dal 1925 sanscrito e civiltà dell’India antica) rimasto vacante dopo che Angelo De Gubernatis era stato chiamato a Roma nel 1890. Mantenne la cattedra sino al 1935, diventando professore straordinario nel 1895, ordinario nel 1901. Nel 1900 gli fu affidato anche l’incarico di lingua tedesca, al quale rinunciò l’anno successivo.
A Firenze Pavolini trovò un ambiente particolarmente attivo nel campo degli studi orientali: nel 1886 erano stati fondati, per iniziativa di De Gubernatis, la Società asiatica italiana e il Museo indiano. Della Società fu nominato consigliere nel 1896, segretario generale nel 1901, vicepresidente nel 1903; infine nel 1916 ne divenne l’ultimo presidente, succedendo al semitista Fausto Lasinio e mantenendo sino al 1940 la carica che, dopo di lui, rimase vacante. Del Giornale della Società asiatica italiana, organo dell’istituzione, fu una delle firme più ricorrenti, pubblicandovi gran parte dei suoi articoli scientifici e il catalogo dei manoscritti indiani conservati nella Biblioteca nazionale di Firenze (1907). In quegli anni la città toscana divenne anche un importante centro di promozione della cultura classica grazie soprattutto alla nascita nel 1897 della Società per la diffusione e l’incoraggiamento degli studi classici, di cui Pavolini fu segretario a partire dal 1902 e più tardi, dal 1931 al 1937, presidente. Diresse il bollettino della Società, la rivista Atene e Roma, tra il 1907 e il 1919, e collaborò a Il Marzocco, la testata letteraria più autorevole nella Firenze dell’epoca, fondata da un altro membro della Società per gli studi classici, Angiolo Orvieto.
Nel vivace contesto fiorentino Pavolini, il 4 novembre 1903, presso l’aula magna del R. Istituto, tenne un’apprezzata prolusione sulle caratteristiche della letteratura indiana. Nel 1904 gli fu quindi affidato il compito di succedere all’antichista Achille Coen a capo della Biblioteca della sezione di filosofia e filologia. Nello stesso anno ricoprì il ruolo di segretario della facoltà e divenne inoltre socio corrispondente dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria.
Pavolini ebbe il merito di presentare ai contemporanei un luminoso repertorio della grande epica indiana attraverso le raccolte antologiche ricavate dal Rāmāyaṇa (Crestomazia del Ramayaṇa, Firenze 1895) e dal Mahābhārata (Palermo 1902). Illustrò inoltre i principi delle scuole buddiste pubblicando un manuale divulgativo (Buddismo, Milano 1898) e, in seguito, la traduzione di alcune porzioni del Canone Theravāda (Testi di morale buddistica, Lanciano 1912), e coltivò un fecondo interesse anche per il jainismo curando l’edizione del Pañcattiyasaṃgahasutta (Il compendio dei cinque elementi, in Giornale della Società asiatica italiana, 1901, vol. 14, pp. 1-40). Si mosse con sicurezza nell’ambito indianistico grazie soprattutto a un’incalzante curiosità per lingue diverse: si avvicinò al malese e al birmano, e in brevi note rese conto delle redazioni di testi della letteratura buddista prodotte in tali ambienti linguistici. Inoltre, sulla scia del suo maestro Teza, che fu non solo valente classicista ma anche traduttore raffinato di opere letterarie contemporanee da lingue europee, manifestò subito versatilità d’ingegno trascorrendo dal greco moderno all’ungherese all’ucraino (Poesie tradotte dal magiaro, greco moderno e piccolo russo, Venezia 1889). Particolare predilezione mostrò per le espressioni poetiche del folclore, traducendo i Canti popolari in dialetto cretese (Firenze 1897) e curando un’edizione riveduta e ampliata dei Canti popolari greci di Niccolò Tommaseo (Milano-Palermo-Napoli 1905). Proprio in virtù di questa versatilità egli poté scrivere con Guido Mazzoni un celebrato manuale di Letterature straniere (Firenze 1906).
Intorno al 1900 Pavolini intraprese lo studio del finnico, seguendo Teza e Domenico Comparetti. All’apprendimento della lingua si dedicò con zelo, al punto da orientare sempre più i suoi interessi verso tale filologia. Nel 1904 si recò per la prima volta in Finlandia, ove tornò nel 1925 e nel 1935. Al rientro dal primo viaggio manifestò la propria riconoscenza nei confronti della nazione che l’aveva accolto, pubblicando la traduzione in finnico di alcune sentenze indiane sull’ospitalità (Intialaisia mietelmiä vieraanvaraisuudesta, Firenze 1905). Negli anni seguenti collaborò alla rivista finlandese di storia e letteratura Valvoja-Aika. L’opera più rappresentativa di questa nuova fase dei suoi studi resta senz’altro la monumentale versione in ottonari dei cinquanta canti del Kalevala (Palermo 1910), il poema epico finlandese di cui fu compilatore nella prima metà dell’Ottocento Elias Lönnrot. Dopo l’uscita di questo opus magnum, l’ordinario di sanscrito si dedicò quasi esclusivamente alla traduzione letteraria da lingue occidentali, in particolare ugrofinniche, curando l’edizione italiana di János tanitvány (Giovanni il discepolo, Lanciano 1912), dramma in tre atti dell’autrice ungherese Renée Erdos.
Nel 1914 Pavolini strinse amicizia con alcuni intellettuali polacchi residenti a Firenze, tramite i quali ebbe uno scambio con il circolo polono-italiano Leonardo da Vinci di Varsavia. Tornò dunque a studiare la lingua della quale aveva appreso i primi rudimenti durante il soggiorno bolognese, e accostò la vasta letteratura polacca ottocentesca volgendola in maniera elegante e fedele. In tal modo gli italiani cominciarono ad apprezzare il poeta romantico Juliusz Sɫowacki attraverso la versione di Anhelli (Lanciano 1919), e i polacchi ebbero modo di conoscere i detti indiani resi nella loro lingua (Aforyzmy indyjskie, Warszawa 1925). Pavolini proseguì indefessamente nell’opera di mediatore tra culture, traducendo dall’inglese i canti ossianici (Poemi scelti e altre leggende celtiche, Firenze 1924) e dal norvegese Gengångere (Gli spettri, Firenze 1925) di Henrik Ibsen. Più limitata fu in quegli anni la sua produzione di indianista, nell’ambito della quale si segnalano lo studio de L’opera di Demetrio Galanos (Firenze 1913), il filosofo greco che visse a Benares a cavallo tra Sette e Ottocento lasciando sette volumi di versioni dal sanscrito, e la traduzione di Mille sentenze indiane (Firenze 1927).
Iscritto al Partito nazionale fascista (PNF) sin dal 1921, Pavolini fece parte della prima giunta comunale fascista di Firenze guidata da Antonio Garbasso. Eppure, indipendentemente dall’orientamento ideologico, nel 1925 in Senato accademico prese le difese, sottolineandone l’eccellenza didattica e scientifica, dell’antifascista Gaetano Salvemini, costretto a dare le dimissioni dalla cattedra di storia moderna e interdetto dall’insegnamento. Con eguale indipendenza di giudizio, nel 1929 propose la nomina di Eugenio Montale a direttore del Gabinetto Vieusseux, del quale egli fu presidente dal 1926 al 1935. In quel periodo Pavolini divenne membro di diverse organizzazioni fasciste; fu inoltre accademico dei Lincei dal 1926 e accademico d’Italia dal 1930. Nell’Accademia d’Italia, il 30 novembre 1930, commemorò Alfredo Trombetti, teorico del monogenismo del linguaggio, con il quale pure aveva polemizzato sulle pagine del Marzocco tra il 1906 e il 1907.
Il 16 marzo 1926 Pavolini fu eletto preside della facoltà di lettere, carica che ricoprì sino al 30 ottobre 1930, e poi dal 24 gennaio 1933 al 28 ottobre 1935. Durante la sua presidenza promosse la creazione della cattedra di letteratura polacca, affidando nel 1927-28 un ciclo di lezioni al critico letterario Oskar Skarbek-Tɫuchowski, e facendo istituire un lettorato di lingua polacca, dal 1931 tenuto da Antonina Brzozowski, moglie del filosofo Stanisɫaw Brzozowski. Nel maggio 1929 organizzò il primo Congresso nazionale delle tradizioni popolari e, l’anno seguente, promosse un accordo con lo Smith College del Massachusetts. Tra il 27 maggio e l’11 giugno 1930 svolse un ciclo di conferenze a Poznàn e Varsavia e rappresentò l’Italia al congresso per il quarto centenario della nascita del poeta rinascimentale Jan Kochanowski. Dopo il ritiro dall’ateneo fiorentino, fu invitato per il 1935-36 presso l’Università di Helsinki, dove tenne un corso di grammatica sanscrita e un seminario su Dante, dal quale trasse il volume Dante e la Finlandia (Milano 1938). L’ultima sua pubblicazione fu la traduzione di Seitsäman veljestä (I sette fratelli, Torino 1941) del finlandese Aleksis Kivi.
Il 15 settembre 1942 Pavolini morì a Quattordio (Alessandria) dove, tre giorni dopo, furono celebrati i solenni funerali con pubblici onori.
Dalla prima moglie, Margherita Cantagalli, ebbe tre figli: Lidia (1896-1914), Corrado (1897-1980), che fu scrittore e sceneggiatore, e Alessandro (1903-1945) che divenne ministro della Cultura popolare. Nel 1941, dopo la morte di Margherita, sposò Paola Faggioli, sua allieva e collaboratrice, dalla quale aveva già avuto una bambina, chiamata Aina dal nome di una delle eroine del Kalevala.
Fonti e Bibl.: Un ricco epistolario è conservato nel fondo Orvieto dell’Archivio contemporaneo Alessandro Bonsanti, a Firenze, presso il Gabinetto G.P. Vieusseux, nel cui archivio storico sono contenuti i verbali delle adunanze e la corrispondenza (serie XX) intrattenuta da Pavolini negli anni della sua presidenza. A lui sono indirizzate molte lettere conservate nella sezione Atene e Roma della Biblioteca umanistica dell’Università di Firenze.
C. Formichi, P.E. P., in L’Italia che scrive, 1920, n. 2, p. 1; P., VI. Lingue dell’India, in Rivista degli studi orientali, V (1927), 2, pp. 247-258; G. Pasquali, Ricordo di P.E. P., in Primato, 1° ottobre 1942, pp. 253 s.; A. Ballini, P.E. P., in Rivista degli studi orientali, XX (1942), 2, pp. 329 s.; G. Tucci, P.E. P., in Annuario della R. Accademia d’Italia, XV (1943), pp. 7-13; G. Devoto, Un epigono della cultura ottocentesca, in Nuova antologia, 16 dicembre 1943, pp. 245-253; S. Rosi, Gli studi di orientalistica a Firenze nella seconda metà dell’800, in La conoscenza dell’Asia e dell’Africa in Italia nei secc. XVIII e XIX, a cura di U. Marazzi, I, Napoli 1984, pp. 103-120; P. Marrassini, Una facoltà improduttiva, in L’Università degli studi di Firenze 1924-2004, a cura di S. Rogari, Firenze 2004, pp. 49-164; A. Zieliński, P.E. P. e Aurelio Palmieri, due grandi polonofili italiani, in Le letterature straniere nell’Italia dell’entre-deux-guerres, a cura di E. Esposito, Lecce 2004, pp. 255-268.