FERRARI, Paolo
Commediografo, nato a Modena il 5 aprile 1822, morto a Milano il 9 marzo 1889. Studiò dapprima a Massa, dove il padre Sigismondo, ufficiale dell'esercito ducale, si era stabilito nel 1833, e poi, dal 1838, a Modena. Laureatosi in legge nel 1843, tornò a Massa per esercitarvi la professione; sposò nel 1845. Nel 1848 tornò a Modena; ebbe qualche parte nei moti di quegli anni, sì che dopo Custoza fu costretto a rifugiarsi per qualche mese a Vignola, dove scrisse le sue prime commedie: Un ballo in provincia, rappresentata solo nel 1861, e Un'anima debole, che fu rifatta in Opinione e cuore (1863) e poi in Roberto Wighlius (1871); ma già nel 1847 aveva scritto a Massa, nel dialetto di quella città, Sor Baltromeo calzolaro, che poi divenne nel 1865 Il codicillo dello zio Venanzio. Irrecitabili per ragioni politiche furono i cinque atti di Un'anima forte trasformati in seguito in un romanzo, Artista e cospiratore (1864) e poi in Vecchie storie (1867); ottenne invece un certo successo locale, recitata nel 1852 dallo stesso F. nella parte del protagonista, Scetticismo o Il quinto lustro della vita (1851) che poi, rimaneggiata, s'intitolò La donna e lo scettico ('64). Pure del 1851 è il capolavoro del F., Goldoni e le sue sedici commedie nuove, cui offrirono lo spunto le Memorie goldoniane. La commedia valse al F. un premio a un concorso drammatico fiorentino, e a Firenze fu recitata la prima volta, nel 1852: ma solo dopo che fu recitata a Venezia nel novembre 1853 da Achille Maieroni, essa cominciò a correre regolarmente e trionfalmente le scene d'Italia. L'anno prima Tommaso Salvini aveva rappresentato a Modena il Tartufo moderno, che, per la costante abitudine del F. di rimaneggiare le cose sue, divenne poi Prosa (1858). In questo tempo il F. fu nominato direttore scenico dell'Accademia filodrammatica modenese. Un'altra commedia storica, Dante a Verona, che gli era costata lunghe fatiche, fu rappresentata solo nel 1875, ma non resse a lungo sulla scena; subito invece, nel 1853, fu recitata Una poltrona storica, tratta dall'autobiografia dell'Alfieri: tenue commediola. Mentre si accingeva a comporre La satira e Panni, ispiratagli da un libro del Cantù apparso nel 1854, fu colpito da una malattia, che lo tenne quasi cieco per circa due anni, durante i quali dettò La scuola degli innamorati, recitata nel 1854. Guarito, scrisse in quaranta giorni La satira e Parini, che fu rappresentata dalla compagnia Dondini a Torino nel 1856, con enorme successo. Il F. partecipava intanto alle cospirazioni e alle vicende politiche di quegli anni, valido assertore della causa nazionale: il Farini lo nominò direttore della Gazzetta ufficiale; si contentò in seguito dei modesti uffici di segretario dell'università e di professore al liceo di Modena, finché nel 1861 il Mamiani lo mandò a insegnare storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, dove, passato presto alla cattedra di letteratura italiana e di estetica, restò sino alla morte. Nel 1859 aveva scritto in due giorni un atto in dialetto modenese, La medseina d'onna ragaza amalèda, recitato subito a Modena; esso, ridotto in italiano, fu rappresentato la prima volta a Milano nel 1862.
Col periodo milanese della vita del F. si può, grosso modo, far coincidere una seconda fase della sua attività drammatica, in cui egli, abbandonate le commedie "storiche" o "popolari", si diede alla commedia contemporanea o "di carattere" o "a tesi". Ma va notato non solo che tale coincidenza naturalmente non è rigorosa quanto alla cronologia (Prosa segue già il nuovo indirizzo), ma soprattutto che il F. producendo solo commedie contemporanee non fa che ubbidire al suo istinto unico, di poeta che si sarebbe vergognato di essere tale se dalla sua arte non si fosse potuto trarre un ammaestramento morale. In servizio di tale intento sono scritte anche le prime commedie del F., e come tali, dunque, anch'esse sono a tesi; solo che a un certo punto della sua vita il commediografo pensò che meglio avrebbe raggiunto il suo scopo educativo portando sulla scena situazioni e personaggi tolti dal mondo contemporaneo. Abbiamo dunque da una parte rimaneggiamenti di commedie vecchie o rifacimenti e adattamenti goldoniani (Amore senza stima, 1868; L'attrice cameriera, 1871; Amici e rivali, 1872; Per vendetta, 1879) traduzioni dal francese, o commediole minori (tra cui Nessuno va al campo, recitata nel 1868), e dall'altra il gruppo delle commedie propriamente a tesi: Il duello (1868), che suscitò gran clamore di discussioni; Gli uomini serî (1868); Cause ed effetti (1871); Il ridicolo (1872); Il suicidio (1875); Le due dame (1877). Dopo questa commedia la fama del F. cominciò a illanguidire: Alberto Pregalli (1880) fu un insuccesso, e il F. sembrò perdere la fiducia in sé stesso. Tacque pressoché del tutto per qualche anno; con la sua ultima commedia, Fulvio Testi (1888) tornò, con molta stanchezza, ai modi e motivi della commedia "storica" che avevano dato l'aire alla sua fortunata carriera.
Pietro Cossa chiamò il F. il legittimo padre della moderna commedia italiana. In effetti, il suo Goldoni, scritto quando il dominio sulle scene italiane del teatro francese, dello Scribe, del Dumas padre e minori, era indisturbato, e appena qualche passo autonomo avevano tentato il Giacometti, il Gherardi del Testa e Vincenzo Martini, parve, con la sua freschezza goldoniana, segnare l'emancipazione del teatro italiano. La semplicità della trama e dei movimenti scenici, l'umanità bonaria dei caratteri disegnati con sobria spontaneità, rendono questa commedia, che è il capolavoro del F., non indegna del suo grande modello. Inferiore le resta La satira e Parini, più macchinosa, in cui l'intento didascalico (il F. volle opporre la satira civile, pariniana, alla satira-libello e mostrare i diversi effetti di esse) si dichiara più apertamente e pesantemente. Popolare, anzi proverbiale, è divenuto un personaggio di essa, il marchese Colombi: nel presidente ereditario dell'Accademia degli Enormi la vivacità naturale dell'ingegno si accompagna con la più completa mancanza di cultura, sicché gli spropositi più madornali escono dalla sua bocca, senza che egli se ne accorga o, fattone accorto, se ne meravigli e vergogni.
Già in Prosa, la prima delle sue commedie di costumi contemporanei, il F. aveva mostrato quel che era il suo ideale morale. In essa difendeva la vita borghese, di famiglia, "prosaica" contro la vita "poetica", ex lege, romantica. Il F. non postula nessuna legge morale assoluta ed eterna, da cui si rischierebbe di dovere a fil di logica dedurre conclusioni contrarie alla morale spicciola, corrente, comunemente accettata: come infatti accadde al Dumas figlio, che a voler essere coerente e ligio al suo intento moralizzatore, finì col sembrare a molti contemporanei, e al F. stesso, incoerente con sé medesimo e immorale. Il Dumas parte in battaglia contro i contingenti pregiudizî sociali, in nome dell'eternità della legge morale; il F., in nome della morale spicciola, "umana", com'egli diceva, si fa paladino dei pregiudizî, che considera "valvole di sicurezza" con cui la società garantisce il proprio ordine interno. Se, per es., il Dumas della Dame aux camélias e delle Idées de Madame Aubray si batte appassionatamente contro il pregiudizio sociale per cui una peccatrice non può essere redenta, il F. di Due dame - come del resto anche È. Augier ed È. Pailleron di Faux ménages - si affretta a dimostrare che una redenzione simile può tutt'al più costituire un'eccezione, e che la società si deve basare sulle regole, e non sulle eccezioni; e persino il ridicolo che colpisce i mariti traditi non è - come avevano sostenuto il Dumas e l'Augier - un'ingiustizia sociale: questo ridicolo è invece necessario, in quanto la paura di esso sprona efficacemente i mariti a tutelare il loro onore, e quindi la vita della famiglia (Il ridicolo).
È dunque chiaro che il F. si muove nel mondo dei problemi agitati dal teatro francese a lui contemporaneo, anche quando dissente da talune conclusioni a cui quello giunge; e in questa consonanza d'ispirazione si palesa la sua stretta parentela con esso meglio che nei raffronti particolari che pure si sono istituiti. Ma non bisogna immaginare, come alcuni hanno fatto, che il F. sia un servile rimasticatore del teatro altrui. Egli è un osservatore diretto ed acuto della realtà, e sa penetrare nel fondo delle anime dei suoi personaggi (il conte Sirchi di Duello è una delle figure più complesse e vive del teatro italiano); e l'intento educativo che si propose nasce da una sua intima e profonda persuasione. Conoscitore perfetto della tecnica teatrale (usava mettere in scena personalmente le sue commedie, ed era direttore minuziosissimo), gli nocque piuttosto la scarsezza della fantasia. La quale si palesa non tanto nei frequenti rifacimenti di cose sue - si chiamava da sé "animale ruminante" -, e non solo nei riecheggiamenti, talvolta assai precisi, di commedie altrui, ma soprattutto nella pesantezza della macchina delle sue commedie, che spesso soffoca l'ispirazione originaria e genuina sotto una molteplicità di motivi eterogenei.
Le commedie del F. son quasi tutte edite; molte di esse più volte. Cfr. le raccolte Opere dranmatiche, Milano 1877-1884; Teatro scelto, ivi 1890; Teatro dialettale modenese, a cura di T. Sorbelli, Modena 1922.
Bibl.: L. Fortis, P. F. Milano 1889; C. Castrucci, Il teatro di P. F., Città di Castello 1898; V. Ferrari, P. F., Milano 1899, che si fonda anche su memorie autobiografiche di P. F., e contiene un elenco delle opere drammatiche di lui; D. Valeri, L'efficacia del teatro francese sul teatro di P. F., in Riv. d'Italia, XII (1909), i, pp. 257-328; L. Tonelli, L'evoluzione del teatro contemporaneo in Italia, Palermo 1913, pp. 170-196; Yorick, Il teatro di P. F., Milano 1922; N. De Bellis, Il teatro di P.F., Roma 1922; B. Croce, in Lett. d. nuova Italia, 3ª ed., Bari 1929, I, pp. 313-330.