FREGOSO, Paolo
Nacque a Genova nel 1430 da Battista, reputato uomo d'arme, fratello del doge Tommaso, che Battista scalzò per poche ore nel 1437, e da Ilaria Guinigi di Paolo signore di Lucca, sua seconda moglie. Dai due matrimoni (il primo con Violante Spinola di Obizzo) Battista ebbe almeno sette figli. Nel quadro della strategia familiare, in cui a ogni componente era assegnato un settore del potere, il F., rimasto orfano nel 1442, venne avviato dal fratello Pietro alla carriera ecclesiastica. Dopo aver compiuto studi umanistici all'università di Pavia, con esiti brillanti specie in latino, passò nel 1448 a Bologna. Qui, già chierico ma ancora studente, ricevette, con breve dell'8 maggio di Niccolò V, la nomina a protonotario apostolico e il successivo 23 luglio un canonicato nella cattedrale di Savona, dove non sembra tuttavia essersi mai trasferito. Nel 1450 si spostò invece a Sestri Ponente, presso il monastero cistercense di S. Andrea; qui il 1° ag. 1451 ricevette quattro benefici nelle diocesi di Genova e Savona.
Al monastero di S. Andrea, Pietro affidò la formazione propriamente religiosa del F.; il convento era allora retto dall'abate Gregorio di Camogli e aveva fama di simpatie hussite. Pertanto non sembra da escludere che certe aspirazioni riformistiche di questi esponenti della famiglia Fregoso possano essere spiegate con tale educazione: del resto lo stesso G. Savonarola, durante il terzo dogato del F., pur non citandolo direttamente, attribuirà il merito della vita morigerata di Genova alla sua direzione politica.
Mentre, tra il 1452 e il 1453 il F. era tornato a Bologna per addottorarsi, la morte pressoché contemporanea dell'abate Gregorio e dell'arcivescovo di Genova, Giacomo Imperiale e soprattutto la protezione papale gli consentirono di bruciare le tappe della carriera ecclesiastica: Niccolò V gli conferì infatti, nel 1452, la commenda dell'abbazia di S. Andrea e, con bolla del 6 febbr. 1453, l'amministrazione dell'arcidiocesi di Genova. La consacrazione ad arcivescovo, rimandata allora per la troppo giovane età, avvenne il 12 apr. 1456 con bolla di Callisto III.
La morte di Pietro, seguita dall'uccisione dell'altro fratello Tommasino, sollecitò il F. - e forse addirittura lo costrinse - ad assumere il ruolo politico che gli imponeva l'onore familiare, prima ancora dell'ambizione personale. Si trattava in effetti di continuare il progetto politico di Pietro, recuperando, come fondamento del potere personale e dogale, la base originaria dei "cappellazzi" Fregoso, cioè la rappresentanza degli interessi dei "populares" e in particolare della componente degli "artifices" allora in conflittuale ma ancor fluida ricomposizione attorno al sistema delle Compere di S. Giorgio. Probabilmente, all'inizio, il F. si era illuso che l'eredità politica di Pietro potesse essere assunta da Prospero Adorno o da Ludovico Fregoso; ma, dopo aver constatato la debolezza del primo di fronte alle grandi famiglie della nobiltà feudale e il moderatismo del secondo, più favorevole alla componente dei "mercatores" e simpatizzante per il Banco di S. Giorgio, il F. si ritenne obbligato all'assunzione della responsabilità politica.
Nel 1461, ai primi segni di insofferenza del popolo genovese nei confronti delle pesanti tassazioni imposte dalla dominazione francese, il F. lasciò la villa fuori Genova dove si era ritirato dopo l'uccisione di Pietro e di Tommasino e il 12 marzo si presentò in città alla testa degli uomini della fazione Fregoso e a fianco di Prospero Adorno.
Il patto sottoscritto dal F. con il capo del clan rivale, mediatore il duca di Milano Francesco Sforza, per riprendere la città ai Francesi, non era un'esperienza inedita nella storia cittadina; ma nell'interpretazione che ne diede inizialmente il F., al di là delle ipocrite intenzioni attribuitegli dai cronisti genovesi e sforzeschi, costituiva un intelligente tentativo di recupero della solidarietà con gli Adorno in nome della comune base "popolare".
Dopo aver costretto il contingente armato francese a rifugiarsi nella fortezza del Castelletto, il F. volle mantenere per sé la guida spirituale della città, affidando quella politica all'Adorno, consapevole tuttavia che non sarebbero mancati tentativi di spezzare il loro accordo da parte delle famiglie della nobiltà vecchia e segnatamente degli Spinola. In effetti, superato il momento cruciale della violenta controffensiva francese, sbaragliata il 17 luglio 1460 grazie all'aiuto militare dello Sforza ma soprattutto alla concordata sortita del F., l'Adorno vietò a quest'ultimo, acclamato dal popolo per la vittoria riportata, il ritorno in città.
Contrariamente agli sdegnati commenti delle cronache, sembra ben giustificata la reazione del F., che in un primo momento spostò il suo appoggio militare in favore dell'elezione dogale di membri della sua famiglia, Spinetta e Ludovico; poi, deluso dalla moderazione del secondo, il 14 maggio 1462 lo sostituì.
La brevità dell'esperienza (dal 14 al 31 maggio) è genericamente attribuita all'insofferenza della città per il personaggio; ma la lettura attenta di un cronista cinquecentesco a lui non certo favorevole, il Foglietta, chiarisce il ruolo di leader autenticamente "popolare" del F., un ruolo tanto più scomodo perché in quei pochi giorni, egli trovò modo di inimicarsi il Banco di S. Giorgio anche sulla questione della Corsica, che riconsegnò a Tommasino di Giano Fregoso. Il F. depose "senza veruna resistenza" il dogato perché "gli parve cosa pericolosa tenerlo contro al volere di tutta la città" (Foglietta, p. 509) e, al termine di una pubblica assemblea in S. Maria delle Vigne, lasciò il posto a quattro rettori, scelti tra gli "artifices". Questa magistratura venne travolta, dopo soli otto giorni, dalla reazione nobiliare, che rielesse doge Ludovico Fregoso. Ma la "mansueta… figura di Ludovico" risultò troppo moderata per il F. che, l'8 genn. 1463, "pentito di aver deposto il Principato" (ibid.), costrinse Ludovico a cedergli la carica (e, dopo un mese di prigionia, lo restituì ai reintegrati feudi sarzanesi) e ottenne, dietro richiesta al nuovo papa Pio II, dispensa ecclesiastica per esercitare la carica.
Il F. resse questo secondo dogato per circa un anno e mezzo, durante il quale, ottenuta l'alleanza di Ibleto Fieschi, preziosa specialmente sotto il profilo militare, cercò di riprendere il progetto del fratello Pietro, favorendo le corporazioni manifatturiere e insistendo su forme di tassazione diretta capaci di sottrarre alla Casa di S. Giorgio il ruolo surrogatorio che le attribuiva il governo dello Stato. Ma, come per Pietro, l'opposizione concorde del Banco di S. Giorgio, dei grandi mercanti e dei gentiluomini (questi ultimi, seguendo la prassi abituale di fronte ai tentativi di tassazione diretta, abbandonarono la città per i loro feudi) costrinse il F. in una situazione insostenibile.
I grandi mercanti, concentratisi a Savona, fecero crollare il mercato genovese (i "luoghi" di S. Giorgio precipitarono da 100 a 23 lire) e chiesero l'intervento del duca di Milano. Con compensi territoriali Francesco Sforza ottenne l'appoggio di Ibleto Fieschi, Spinetta Fregoso e Prospero Adorno e inviò contro il F. un esercito ai comandi di Jacopo Vimercati, al quale di unirono montanari della riviera di Levante agli ordini di Ibleto Fieschi nonché Paolo Doria e Gerolamo Spinola, dalla Riviera di Ponente, con i fuorusciti di Savona.
Consapevole della disparità delle forze, il F. preferì abbandonare la città con quattro navi; ma lasciò una guarnigione di 500 uomini nella fortezza del Castelletto, affidata alla cognata Bartolomea Grimaldi, energica vedova di Pietro, e al fratello Pandolfo, nella speranza di un rientro che si rivelerà impossibile. Quaranta giorni dopo infatti il nuovo governatore sforzesco otteneva da Bartolomea la consegna del Castelletto, dietro minaccia di confisca dei suoi feudi novesi e dietro indennizzo di 14.000 fiorini d'oro. Il governo sforzesco a Genova si sarebbe consolidato per quindici anni (e si consolidò anche il sistema delle Compere di S. Giorgio) e il F. costretto all'esilio, dopo aver sistemato presso la corte di Mantova due dei figli avuti con scandalo da una non identificata novizia, Fregosino e Alessandro (degli altri figli - Tommaso, Agostino, Fregosina - si perdono le tracce), si diede alla pirateria.
Le prime operazioni mirarono a colpire i commerci genovesi su due prodotti vitali, il sale e il grano, sulle rotte francesi di Villafranca e su quelle di Corsica e di Sicilia; poi, dopo l'energica reazione genovese affidata a Francesco Spinola (che riuscì a catturare con una brillante operazione di sorpresa parte della flotta del F., costretto a recarsi, nel 1465, a Venezia a raccogliere denaro a prestito), anche contro altre bandiere sulle rotte saracene.
Durante questi anni, trascorsi prevalentemente sul mare - anche se intervallati da periodi a Mantova, dove si trovava, ad esempio, nel 1471 in domicilio coatto presso B. Cavriani per decreto del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza - il F. accumulò una notevole esperienza di comandante marittimo che, nel 1481, gli avrebbe permesso di ottenere dal papa la conduzione dell'impresa di Otranto.
Il ritorno del F. a forme più consuete di attività politica era comunque già avvenuto, benché senza successo, nel 1477, quando l'assassinio del duca di Milano aveva riaperto in Genova i conflitti per la conquista del potere. Infatti, nonostante il giuramento di fedeltà prestato al nuovo duca Gian Galeazzo dagli ambasciatori genovesi il 28 genn. 1477, a metà marzo una sommossa popolare offrì l'occasione di rientrare in città a Matteo e Ibleto Fieschi. Quest'ultimo, con lettera del 28 marzo, sollecitò il F. a raggiungere Genova da Mantova, dove allora si trovava, per partecipare coi suoi partigiani alla cacciata del dominio sforzesco. Prontamente e, sul piano militare, vittoriosamente intervenuto ancora una volta, il F. si vide vietato l'ingresso in città proprio dal governo di Ibleto Fieschi; questo del resto fu costretto a cedere a sua volta al contrattacco sforzesco.
Il 17 ag. 1478 il F. lasciò il territorio ligure per il Parmense e si ritirò, dall'ottobre, nell'abbazia cistercense di Fonteviva, di cui era commendatario. Dopo due brevi viaggi a Venezia e a Mantova, si recò a Roma, accolto con favore da Sisto IV. Contemporaneamente, alla fine del novembre 1478, a Genova assumeva il dogato il nipote del F., Battista. Questo consentì al F. non solo il rientro a Genova, ma anche (probabilmente sollecitata da Battista) l'elezione a cardinale col titolo di S. Anastasia, concessogli il 15 maggio 1480 (nel 1490 lo mutò col titolo di S. Sisto).
Nel giugno 1481 l'interesse comune del papa e di Battista Fregoso al recupero di terre e mercati caduti in mano turca fece convergere sul F., grazie alla sua esperienza piratesca, la nomina a generale dell'armata di 24 galee allestita a Genova con la sovrintendenza del legato papale, cardinale G.B. Savelli, e destinata a congiungersi con la flotta napoletana per la riconquista di Otranto.
Alla spedizione, circondata di grande solennità, parteciparono sia le grandi famiglie armatoriali sia le corporazione artigiane che, coordinate dal frate minore Domenico di Ponzolo, fornirono molti dei capitani delle galee. Fatta tappa sul Tevere per ricevere il 30 giugno la benedizione papale, l'armata salpò da Napoli il 4 luglio e il 10 settembre, dopo circa un mese di assedio, ottenne la capitolazione di Otranto.
Tuttavia le prospettive genovesi, e inizialmente anche del F., di ulteriori sviluppi dell'offensiva (che la morte di Maometto II nel maggio 1481 e le rivalità tra i figli sembravano favorire) vennero frustrate dal diffondersi della peste, che obbligò il F. a rientrare a Civitavecchia con le ciurme decimate, e dal clima di sospetti e rivalità tra gli alleati cristiani. Nel concistoro tenuto il 3 ottobre a Civitavecchia alla presenza del papa il F. venne accusato dal legato napoletano di aver sabotato il progetto di attacco alle coste albanesi; alle giustificazioni addotte dal F. (peste, mancanza di denaro, stagione avanzata) si aggiunse la replica di uno dei patroni genovesi presenti, G. Stella, che denunciò l'ingiusta esclusione della flotta e dei balestrieri genovesi dal bottino, il rifiuto di vettovagliamento opposto dal duca di Calabria e avanzò sospetti sulla sincerità napoletana circa il progetto albanese. D'altra parte le accuse contro il F. trovarono larga eco anche nelle fonti e tra gli storici genovesi, ma la raccolta di documenti pubblicata dal Grasso consente di affermare che la condotta del F. fu non solo adeguata sul piano strategico, ma anche equilibrata su quello diplomatico e in complessiva sintonia con le direttive del suo governo e le necessità del suo equipaggio.
Il 23 nov. 1483 il F. assumeva per la terza volta il dogato, destituendo il nipote.
Anche in questo caso le fonti genovesi indulgono alla deplorazione. Occorre tuttavia rilevare che la deposizione di Battista avvenne effettivamente con l'inganno, ma secondo modalità consuete ai tempi. Anzi, appare positivo che essa sia stata incruenta e, in qualche misura, volta ad affermare l'importanza del consenso popolare accanto al privilegio della famiglia e del clan: il giorno seguente convocava una pubblica assemblea in cui rimetteva il passaggio dei poteri alla ratifica del Senato e di una rappresentanza di trecento cittadini. D'altra parte il sospetto di accordi di Battista con l'imperatore per ottenere la signoria su Genova, attraverso la formula del vicariato-feudo perpetuo per sé e discendenti, addotto dal F. come motivo della destituzione, era condiviso non solo da altri membri della famiglia, ma anche da autorevoli esponenti della città come Lazzaro Doria, concordi col F. nel ribadire il carattere repubblicano del dogato genovese.
Su questa linea i quattro anni del dogato del F. (dal 25 nov. 1483 al 9 luglio 1487), seguiti da un anno come governatore ducale (fino all'8 ag. 1488), nonostante l'ostilità del Banco di S. Giorgio, videro un tentativo di riconciliazione tra i commercianti, forse interpretabile come ricompattamento di "mercatores" e "artifices", affidato alla mediazione di alcuni frati minori; una serie di leggi suntuarie (quelle apprezzate dal Savonarola), un attivo patrocinio nei confronti delle vittime di fallimenti e di sequestri e, importantissima, la fondazione del Monte di pietà a opera di fra Angelo da Chivasso.
Proprio il periodo relativamente lungo del terzo dogato suggerisce l'esistenza di un consenso popolare al tentativo di "buon governo" del F. che, per i suoi avversari, poteva essere improduttivo interrompere; finche l'occasione venne offerta dalla sfortunata guerra di Sarzana. La città con il suo territorio, feudo dei Fregoso dal 1421 e importante scalo per il commercio del sale verso la Lombardia e la Toscana (commercio che di fatto i Fregoso vi svolgevano lucrosamente fuori del regime di monopolio, passato nel 1454 all'Officium salis di S. Giorgio), era stata venduta nel 1468 ai Fiorentini da Ludovico Fregoso, sotto la pressione militare degli Sforza, contravvenendo al vincolo di inalienabilità. Il figlio di Ludovico, Agostino, era riuscito a riconquistarla militarmente e a restituirla a Genova nel 1479, provocando la reazione di Lorenzo de' Medici, che nel 1484, dopo il fallimento di lunghe mediazioni diplomatiche, aveva occupato Pietrasanta, territorio genovese sulla strada di Sarzana. Il F. aveva inviato subito al nuovo papa, il genovese Innocenzo VIII, un'ambasceria perché si facesse mediatore di pace: e infatti il 6 genn. 1486, a Roma fu firmato il trattato che, lasciando a Firenze Pietrasanta e territori limitrofi, affidava Sarzana al Banco di S. Giorgio. Ma nel giugno 1487 i Fiorentini occuparono Sarzana, non senza preventivo consenso del papa, più vicino agli interessi di Lorenzo che a quelli dei Genovesi, come il F. aveva già capito. E forse anche condiviso, poiché l'attribuzione di Sarzana al Banco di S. Giorgio significava un ulteriore rafforzamento del blocco di interessi tra il Banco, i maggiori mercanti e la nobiltà che, nel gennaio 1487, gli aveva imposto il controllo di un Duocenvirato dotato di amplissimi poteri sul Comune e sul Banco di S. Giorgio.
Questa magistratura straordinaria dimostrò subito autorevolezza e insubordinazione al F. facendo arrestare a Lerici un suo protetto, presidente della podestaria, Tommasino di Giano Fregoso, per intrighi con parenti in Corsica. D'altra parte lo stesso elenco dei duocenviri mostra la perdita di credibilità del F. presso quei "populares" di cui aveva progettato la riconciliazione; né valsero i tentativi intimidatori contro i magistrati piu indipendenti. Riconoscendo il proprio isolamento, il F. accettò di mantenere la guida di Genova come governatore sforzesco, secondo quanto votato da un Gran Consiglio il 5 luglio 1487. Rapidamente concluse le convenzioni, con l'avallo dei Dodici di balia, del Banco di S. Giorgio e dell'ufficio di Moneta, il 12 luglio il F. annunziava ai popoli delle due Riviere, ai principi d'Italia e al re di Francia, il mutamento avvenuto in Genova, definendolo eufemisticamente "aderenza" al duca di Milano.
Il governatorato sforzesco, nelle intenzioni del Banco di S. Giorgio e dei Dodici di balia, avrebbe dovuto garantire, con l'aiuto o diplomatico o militare di Ludovico il Moro, la restituzione di Sarzana; ma tutte le ambascerie e le richieste genovesi in tal senso, ufficialmente sottoscritte dal F., vennero aggirate dal Moro per un intero anno; fino a quando, inopinatamente, il 3 luglio 1488, proprio il Moro venne delegato da Genova a trattare la tregua coi Fiorentini. Il gioco dei sospetti e delle accuse incrociate si fece a questo punto inestricabile: il 13 luglio il Comune di Genova approvò la tregua conclusa dallo Sforza, ma il successivo 8 agosto il F. venne deposto dalla carica di governatore ducale sotto accusa di aver ceduto alle pressioni del Moro per la tregua, benché Genova continuasse a professarsi, dopo qualche incertezza, governatorato sforzesco. È significativo che gli ambasciatori genovesi, nel successivo aprile inviati al Moro per ribadirgli la contrarietà alla tregua a suo tempo sottoscritta, ricevessero istruzioni di incolpare retroattivamente il F. di aver estorto quella delibera alla maggioranza contraria.
È difficile in questo gioco delle parti comprendere se effettivamente il F. si sia comportato con doppiezza o se sia stato usato come capro espiatorio; certo, nel periodo finale, avvertendo che la posizione si faceva per lui sempre più critica, predispose garanzie per sé e per i propri figli: un prestito personale alla Repubblica, il 30 ag. 1487, gli portò in pegno il vicariato di La Spezia; per il figlio Alessandro, giovane canonico, aveva ottenuto il 5 marzo 1487 il vescovato di Ventimiglia; nel successivo maggio, per Fregosino vantaggiose nozze con Chiara Sforza, sorellastra di Gian Galeazzo, e il titolo di conte palatino. Proprio lo splendore principesco di quelle nozze irritò i grandi della nobiltà genovese, in particolare i Fieschi che, guidati da Ibleto e da Gian Luigi, riannodarono i legami coi fuorusciti Adorno e con il deposto Battista Fregoso. La coalizione armata, sfruttando il malcontento per la questione di Sarzana, piombò su Genova l'8 ag. 1488 e costrinse il F. e Fregosino, a capo dei loro armati, a una lotta corpo a corpo per i vicoli di Genova, dal quartiere di S. Siro, che i Fregoso avevano trasformato in una sorta di cittadella partigiana, fino alla soprastante fortezza del Castelletto. Qui rinchiusi, il F. e Fregosino poterono resistere fino all'ottobre e patteggiare la consegna del Castelletto personalmente al Moro.
L'accordo, sottoscritto il 21 ottobre, riservava al F. una pensione annua di 6.000 monete d'oro e 1.000 a Fregosino (accordo onorato dal Moro fino al 1493) e consentiva loro di lasciare Genova con due navi cariche dei loro averi, fatti salvi tutti i benefici in città.
Salpato per Roma il 30 ottobre, il F. si imbatté in un fortunale al largo della Corsica, in cui andò perduta una delle navi e da cui salvò a stento la vita. Alla corte di Innocenzo VIII egli riprese anche formalmente lo status cardinalizio: rinsaldò legami di amicizia con il cardinal Savelli, ne intrecciò di nuovi soprattutto con alti prelati veneti e acquistò personale prestigio, tanto che nell'agosto 1492, nel conclave che portò alla elezione di Alessandro VI, il suo nome circolò insistentemente tra i papabili.
Ufficialmente il F. era tra i sostenitori di Giuliano Della Rovere, con il quale continuerà a rappresentare il partito avverso al Borgia; Alessandro VI seppe però stornarne i malumori, nominandolo nel 1493 legato in Campania e facendogli balenare la possibilità di spingere il re di Napoli contro il governo sforzesco di Prospero Adorno. Il progetto ebbe nel F. un tenace sostenitore e si tradusse nella sua partecipazione a due sfortunati attacchi della flotta aragonese a Portovenere e a Rapallo, rispettivamente il 17 luglio e l'8 sett. 1494. Nel gioco di mobili alleanze prodotto dalla discesa di Carlo VIII, il F. trovò presso il sovrano francese - dopo la rottura di questo col Moro - ospitalità e occasione di riscatto, col suo eterno antagonista Ibleto Fieschi e col cardinal Della Rovere. I tre infatti salirono insieme sulle navi francesi che, il 10 marzo 1495, avevano espugnato Gaeta e, con un piccolo ma efficiente esercito il 6 luglio, lo stesso giorno della battaglia di Fornovo, tentarono l'attacco a Genova. Vanificato il tentativo dall'annunzio della sconfitta francese e dal convergere delle milizie sforzesche su Genova, il F. raggiunse Carlo VIII ad Asti (dove si ricongiunse anche con Fregosino) e lo seguì a Vercelli, presenziando il 9 ott. 1495 alla firma della pace con il duca di Milano. Poiché il Moro con questo trattato cedeva al re, almeno nominalmente, anche Genova, il F., tra fine 1495 e inizio 1496, tentò per l'ultima volta senza successo il ritorno in città insieme al figlio. Il 13 febbr. 1496 fu costretto a rinunciare anche alla carica di arcivescovo (che però riassunse, da Roma, il 29 luglio) e tornò presso Carlo VIII in Francia. Mentre il re andava preparando una nuova spedizione in Italia, il F. abbandonò la corte, raggiungendo Venezia - dove le autorità contraccambiarono con splendide accoglienze le preziose informazioni militari che egli poteva offrire - e poi Roma.
L'ultimo anno di vita vide il F. ricorrentemente malato; morì a Roma il 22 marzo 1498.
L'annotazione del Sanuto alla registrazione della sua morte ("era povero cardinale et havia poca entrata") conferma, al di là dei rovesci che certo ne caratterizzarono il destino, la natura indipendente e orgogliosa di una personalità straordinaria, la cui ambiziosa utopia sarà demonizzata da una tradizione storiografica conformisticamente disposta a sottoscrivere la condanna di un prete-politico scomodo per il Banco di S. Giorgio, per gli Sforza e per gli strati alti della Repubblica genovese.
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