GIOVIO, Paolo
– Nacque a Como da Luigi Zobio, notaio, di famiglia patrizia, ed Elisabetta Benzi. La data di nascita cui viene comunemente dato credito è il 21 apr. 1483, sebbene fosse attestata soltanto dall'iscrizione che compariva sulla tomba provvisoria. Se però si ritiene attendibile la testimonianza dello stesso G. (per es. Iovii opera, II, p. 178) la nascita deve essere postdatata al 1486.
Al tempo in cui visse il nonno del G., Giovanni, gli Zobio erano stati ammessi al rango di decuriones, ma, come lo stesso G. ebbe a confessare, le loro condizioni finanziarie erano relativamente modeste (ibid., VIII, p. 126). La tradizione di famiglia, che molto influenzò il G., voleva che gli Zobio fossero originari dell'Isola Comacina, nei pressi della quale essi possedevano ancora nel XVI secolo terre e benefici. La forma moderna del cognome venne adottata dalla famiglia quando il G., agli esordi della sua carriera di umanista a Roma, latinizzò Zobio in "Iovius".
Rimasto orfano del padre non ancora adolescente, il G. fu cresciuto dal fratello maggiore, Benedetto, i cui studi storici, filologici e archeologici stimolarono l'interesse e l'emulazione del giovane (ibid., pp. 126 s.). Il primo esercizio letterario del G. che ci è pervenuto è un'epistola, redatta nello stile di Plinio il Giovane, che descrive la vita di campagna nella villa di famiglia. Gli studi letterari del G. continuarono probabilmente a Milano con Demetrio Calcondila e Giano Parrasio (ibid., IX, p. 281). In seguito – non oltre l'autunno 1506 – si trasferì a Padova, dove intraprese lo studio della medicina ed ebbe come maestro di filosofia Pietro Pomponazzi (alle cui dispute con Alessandro Achillini ebbe occasione di assistere). In questo ambiente pose le basi del futuro incarico di filosofia allo Studio romano (ibid., p. 96). Ma già nella primavera del 1507 il G. si trasferì a Pavia, dove portò a termine gli studi di medicina con il giovane anatomista veronese Marcantonio Della Torre (ibid., VIII, pp. 85 s., 92). Da quanto scrive nell'elogium del Della Torre, risulta chiaro che il G. aveva assimilato dai suoi maestri di Padova e di Pavia l'entusiasmo, allora diffuso, per un ritorno ai testi medici greci originali. Circa queste tematiche, ci è pervenuto il frammento di uno scritto del G., in forma di disputa scolastica, dal titolo Noctes Pa. Iovii actae Comi 1508. Durante il suo soggiorno a Pavia, il G. strinse amicizia con due giovani nobili, il poeta Nicolò d'Arco e il futuro prelato Ottobono Fieschi da Genova. Dopo avere conseguito, a Pavia nel 1511, la doppia laurea in filosofia e medicina, il G. avrebbe preferito con ogni probabilità ritornare a Como ed emulare l'attività letteraria del fratello. Tuttavia, cedendo alle insistenze di quest'ultimo, si decise con qualche riluttanza a intraprendere la pratica della medicina, partendo per Roma in una data imprecisata nel 1512 (Iovii opera, II, pp. 138, 153; IX, p. 255).
Il primo impiego del G., forse ottenuto per il tramite degli amici genovesi, fu quello di medico e umanista presso il cardinale Bandinello Sauli (ibid., I, p. 85). Nel ruolo dei professori dello Studio romano, ripristinato da Leone X, il G. compare nel 1514 come lettore di filosofia morale, con uno stipendio di 130 fiorini. Pur insegnando filosofia e praticando la medicina – "certiore aliquanto quaestu quam gloria", come egli ebbe a lamentarsi –, il G. cominciò a porre mano al suo grande progetto: scrivere la storia del suo tempo (ibid., III, p. 5). La sua prima lettera conservataci, datata 30 maggio 1514, è destinata al condottiero Bartolomeo d'Alviano, al quale il G. chiedeva particolari riguardo alla guerra del Cadore e alla battaglia di Agnadello per le sue Historiae. Una lettera del 15 dic. 1515 (la seconda delle lettere note del G.) testimonia che egli già scambiava notizie con Marino Sanuto. La frequentazione dell'Accademia Romana gli permise di affinare la sua prosa latina e lo spinse verso le forme del classicismo più rigoroso, ispirato dai modelli di Cesare, Sallustio e Livio (ibid., IX, p. 256). La maestria raggiunta nel padroneggiare la lingua classica fece sì che l'ottavo libro delle sue Historiae, dedicato alla storia turca fino alla recente battaglia di Calderan del 1514, e il primo a essere diffuso nel 1515, riscuotesse l'ammirazione generale dell'ambiente romano e dello stesso pontefice Leone X.
Caduto in disgrazia il cardinale Sauli, il G. entrò a servizio presso il cardinale Giulio de' Medici, sempre nella veste di medico e umanista, senza essere in apparenza coinvolto nella cosiddetta "congiura dei cardinali" (Iovii opera, IX, p. 256). Dal 1517, il G. fu stabilmente accanto al Medici, prima cardinale e poi papa, il che lo portò a vivere nell'ambiente della Curia romana, a stretto contatto con molti protagonisti della storia che egli andava scrivendo.
Al seguito del Medici, che durante gli ultimi anni del pontificato di Leone X fu delegato a governare Firenze, il G. trascorse molto tempo sulle rive dell'Arno. Ebbe così occasione di lavorare alle sue Historiae e di partecipare alla vita intellettuale fiorentina, prendendo parte, lui, uomo dei Medici, alle conversazioni degli Orti Oricellari, che riunivano i nostalgici del passato repubblicano cittadino. Fu in questi anni che egli ebbe modo di conoscere a fondo la tradizione storiografica fiorentina, incluso il De bello Italico di Bernardo Rucellai. Al contempo, il G. veniva impiegato in compiti più propriamente cortigiani per i suoi protettori: fu lui, per esempio, a scegliere i temi del famoso ciclo di affreschi della villa medicea di Poggio a Caiano. Non mancarono prese di posizione di una certa consistenza politica, come quando il G., coinvolto direttamente come lombardo, appoggiò con entusiasmo la guerra condotta da Leone X contro i Francesi per ristabilire la "libertas Italiae", che si sarebbe riottenuta cacciando gli Oltremontani dalla penisola e reintegrando gli Sforza a Milano. Di questa guerra il G. fece un'esperienza diretta quando, nel 1521, accompagnando il cardinal Medici durante la sua missione di legato presso gli eserciti, fu costretto ad assistere al sacco di Como da parte delle truppe spagnole del marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d'Avalos.
La libertà di Milano sotto la famiglia degli Sforza divenne in questo momento il cardine della riflessione politica gioviana. Nei mesi del pontificato di Adriano VI, il G. continuò ad aiutare il suo padrone Giulio de' Medici a conservare l'alleanza imperiale, condividendo il suo temporaneo esilio fiorentino durante il periodo di influenza in Curia del cardinal F. Soderini. Nel 1522-23, accompagnò l'agente imperiale Gerolamo Adorno nella sua missione a Venezia, che aveva lo scopo di affrancare la Serenissima dalla Francia e attirarla nel campo asburgico (Iovii opera, I, p. 101). Nel 1523, il G. ebbe l'onore di consegnare al giovane marchese Federico Gonzaga le insegne della Chiesa e il bastone del capitanato della Repubblica fiorentina (ibid., pp. 103 s.).
L'ascesa del suo protettore al soglio pontificio con il nome di Clemente VII, nel 1523, portò il G. a godere di un'influenza ancora maggiore. Conosciuto come persona cui il papa prestava ascolto, egli era ricercato e "carezzato" da una schiera di ambasciatori e rappresentanti delle corti principesche. I suoi quartieri in Vaticano, il "Paradiso", divennero luogo d'incontro di prelati e diplomatici alla ricerca delle ultime notizie. Sempre più, inoltre, il G. traeva le informazioni necessarie alla redazione delle sue Historiae da una fitta rete di rapporti epistolari: era questo un piccolo patrimonio cui egli dedicò ogni cura e coltivò lungo tutta la vita, guadagnandosi presso gli storici ottocenteschi la fama di protogiornalista. Critico sottile delle arti e delle lettere, nel corso di questi anni, il G. iniziò ad acquisire a Roma una posizione di primo piano. Fu al G. che Francesco Arsilli dedicò il suo De poetis urbanis (in calce alla miscellanea poetica latina Coryciana, stampata a Roma da Giacomo Mazzocchi nel 1524). Il gioviano Liber de piscibus Romanis, scritto su suggerimento del cardinale Francesco Ludovico di Borbone, è il risultato della partecipazione a feste e banchetti papali, di cui il G. era diventato assiduo frequentatore: nel suo rifacimento dell'Orlando innamorato di M.M. Boiardo, F. Berni tratteggiò una descrizione satirica del G. che serviva a tavola Clemente VII. Deluso di non ottenere sollecitamente da Clemente VII una lauta ricompensa per i suoi servigi, il G. riceveva però di che vivere dall'amico e protettore G.M. Giberti, il potente datario pontificio, che lo beneficò con svariate "grazie" datariali, di cui il G. poté godere per l'intera sua carriera (Iovii opera, IX, p. 256). Che il G. non abbandonasse la pratica medica durante il tempo trascorso al servizio del papa è dimostrato dal trattato De optima victus ratione, composto durante i giorni drammatici del sacco di Roma per il datario successore di Giberti, il prelato Felice Trofino.
Con crescente preoccupazione, manifestata nelle lettere del periodo, il G. vedeva Clemente VII lentamente abbandonare quell'alleanza con l'imperatore che, da cardinale, aveva promosso con tanto ardore. Sebbene ostile alla Lega di Cognac, il G. rimase accanto al pontefice durante il sacco di Roma, sino al momento in cui i nemici del papa insistettero affinché egli riducesse il suo entourage (ibid., IX, p. 167). Dopo aver ricevuto, a ricompensa della sua fedeltà, il vescovado di Nocera dei Pagani, reso vacante nel 1527 dalla morte del cardinale Domenico Iacobazzi, il G. si recò a visitare la sua sede, che trovò devastata dalla guerra (ibid., I, p. 124). Nel corso della visita, ricevette l'invito a recarsi presso Vittoria Colonna, a Ischia, dove soggiornò molti mesi, rientrando a Roma solo dopo che il papa vi ebbe fatto ritorno, nel tardo autunno del 1528. A Ischia il G. si legò d'amicizia non solo con la Colonna ma anche con Costanza d'Avalos e con Alfonso, marchese del Vasto, che egli ebbe modo di aiutare dopo la battaglia navale di Capo d'Orso (ibid., IV, p. 53). Il G. ebbe anche agio di dedicarsi a conversazioni e riflessioni letterarie che gli ispirarono l'importante dialogo De viris et foeminis aetate nostra florentibus, scritto durante il suo soggiorno nell'isola. All'incoronazione di Carlo V, avvenuta a Bologna nel 1529, il G. ricevette dall'imperatore il titolo di conte palatino e la concessione di aggiungere le colonne d'Ercole allo stemma di famiglia per i servigi resi alla causa imperiale così come per la sua posizione nei confronti del papa e per la sua crescente reputazione come storico contemporaneo. Durante gli ultimi anni del pontificato di Clemente VII, il G. si legò, forse assecondando un desiderio del papa, al giovane cardinale Ippolito de' Medici, che egli inutilmente tentò di salvare dalla sua avventatezza. Come membro della cerchia di Ippolito, il G. fu testimone dell'elaborata ma deludente crociata in Ungheria di Carlo V.
Nonostante la morte di Clemente VII, nel 1534, e quella del cardinal Ippolito, l'anno seguente, lasciassero il G. temporaneamente privo di un protettore, egli trovò presto rimedio alla duplice perdita, legandosi non tanto al nuovo papa, Paolo III, quanto a suo nipote, il cardinale Alessandro Farnese. Nell'anziano cortigiano il giovane cardinale trovava un avvincente raconteur e un relatore disponibile e informato sulla storia di molti personaggi e sulle situazioni diplomatiche con le quali egli, non ancora esperto, avrebbe dovuto confrontarsi. Le lettere del G. al cardinale Alessandro hanno lo stesso tono familiare di quelle scritte nel primo ventennio del 1500 al giovane Federico Gonzaga o, una decina d'anni più tardi, all'altrettanto giovane Ippolito de' Medici (Iovii opera, I, pp. 217 s.). Negli anni che seguirono il G. accompagnò il papa e il cardinale in numerose occasioni importanti, come i colloqui di Nizza (1538) e di Busseto (1543).
A più riprese, il G. esortò il cardinal nipote a seguire la sua formula per la pace in Europa: una forte alleanza tra papa e imperatore per contenere le ambizioni francesi in Italia; energiche campagne contro i Turchi per garantire la libertà dei mari e per affrancare l'Ungheria; se necessario, una soluzione militare al problema del protestantesimo. A più riprese, tuttavia, il G. si trovò ad assistere al contrario di quanto egli auspicava: l'imperatore veniva continuamente messo in difficoltà dagli attacchi francesi e si rivelava incapace di intervenire efficacemente sia contro i protestanti sia contro i Turchi; il papa, in via di principio impegnato contro entrambi, era sempre più incline a compiacere la Francia contro l'Impero, con l'obiettivo di favorire gli interessi della famiglia Farnese a discapito della respublica Christiana.
All'ascesa di Paolo III al soglio, l'entusiasmo del G. per la politica del nuovo pontefice era genuino e sincero. La determinazione con cui il pontefice guidava l'Italia e la Chiesa, sommata al trionfo di Carlo V a Tunisi nel 1535, indusse il G. a riprendere la stesura delle Historiae abbandonata nel difficile periodo seguito al sacco di Roma. La disillusione venne solo più tardi, con il crescente disgusto per il nepotismo del papa Farnese e la convinzione che la sua politica conciliare fosse un pericoloso errore. Fautore della riforma degli abusi più evidenti, il G. inizialmente simpatizzò con le richieste di Lutero (per es. nella Vita Leonis decimi, IV), per poi rendersi conto che le posizioni dei luterani divergevano ormai troppo da quelle della Chiesa di Roma tanto da rendere impossibile qualsiasi accordo o compromesso dottrinale. Secondo l'opinione del G., sovente espressa nella corrispondenza del periodo, un concilio avrebbe avuto la conseguenza di rafforzare i luterani: da un lato perché sarebbe arrivato troppo tardi, dall'altro in quanto avrebbe consegnato la Chiesa ai riformatori radicali, che egli detestava ardentemente. L'ostinato rifiuto del G. ad assistere alle sedute del concilio di Trento contribuì ad alienargli la stima di Paolo III e dimostrò quanto fossero diventati anacronistici, nella nuova realtà della Controriforma, prelati del suo stampo.
Nei giorni migliori della sua vita accanto ai Farnese l'influenza del G. nell'ambiente romano raggiunse l'apice. Fu lui, infatti, a presentare il Vasari al cardinale Farnese e a ottenergli l'incarico di affrescare una delle grandi aulae della Cancelleria. Fu ancora lui a spronare il Vasari a intraprendere la stesura delle famose Vite e a incoraggiarlo durante tutta la loro composizione. Dal 1535 sino almeno al 1541 il G. fu membro della congregazione dei deputati per la Fabbrica di S. Pietro. Nel decennio compreso tra il 1534 e il 1544, il motto del G. divenne "Spes mea in Farnesii gratia". Né le sue aspettative furono totalmente disilluse, visto che una non modesta messe di benefici, regalie e privilegi ottenuti per il tramite dell'indulgente cardinal nipote andò ad aumentare i benefici e le rendite già elargite dai Medici. A tutto ciò il G. poté sommare indennità corrispostegli da Carlo V e da Francesco I, nonché regali e grazie assegnategli da numerosi altri protettori, come Federico Gonzaga, Ercole II d'Este, Cosimo I de' Medici, Francesco II Sforza, Ferrante Gonzaga, Fernando Álvarez de Toledo duca d'Alba e Alfonso d'Avalos marchese del Vasto; a quest'ultimo egli dà credito di avere maggiormente contribuito alla costruzione del suo Musaeum. La cordialità dei rapporti del G. con i principali sostenitori della politica imperiale in Italia, specialmente con Ferrante Gonzaga, fu tale, però, che alla fine gli alienò le simpatie di Paolo III. In parte a causa delle sue amicizie, in parte per il disinteresse che egli apertamente manifestava nei confronti del movimento della Riforma della Chiesa, il G. perse non solo la porpora cui tanto aveva ambito, ma anche il vescovato di Como, resosi vacante nel 1548. Fu il rifiuto del papa ad accordargli persino un'indennità sulla sede che lo spinse – "per salvare l'onore con i compaesani" – a lasciare Roma nell'autunno del 1549, dopo una permanenza di trentasette anni.
Dopo un inverno e un'estate trascorsi nel suo adorato Musaeum, nell'autunno del 1550 il G. si stabilì a Firenze alla corte di Cosimo ed Eleonora. Là, circondato dagli agi di una residenza ufficiale, incoraggiato dal duca e circondato dalla sollecitudine dei cortigiani, il G. portò a termine la sua opera principale, i Sui temporis historiarum libri. Come dimostrano le lettere scambiate con il cancelliere ducale Lelio Torelli, la decisione del G. di dedicare le Historiae a Cosimo I e di pubblicarle a Firenze era stata presa ben prima di abbandonare Roma. A Firenze, il tipografo ducale Lorenzo Torrentino aveva stampato nel 1548 l'editio princeps della Vita Leonis decimi e offriva le migliori garanzie per un'elegante edizione dell'opera maggiore. Il primo volume delle Historiae, in gran parte composto di libri già scritti in precedenza, fu approntato per la pubblicazione mentre il G. si trovava ancora a Como, e venne stampato nel corso dell'inverno e della primavera del 1550. Quando il G. giunse a Firenze, in settembre, il volume era già in commercio. Quasi subito, il G. si trovò coinvolto in una controversia scatenata dall'inserimento di una lettera di A. Alciato in una pagina del primo fascicolo che altrimenti sarebbe rimasta bianca. Le polemiche suscitate dalla pubblicazione della lettera, la cui autenticità fu immediatamente negata dall'erede dell'Alciato, rafforzò il G. nella decisione di respingere le preghiere degli amici romani e di restare a Firenze per completare le parti incompiute della sua opera. Dei venti libri che compongono il volume II, almeno sette furono redatti per intero o in parte tra l'autunno del 1550 e l'inizio dell'estate del 1552. La stampa fu completata nel settembre 1552.
La morte sorprese il G. quando, soddisfatto dell'edizione delle Historiae, era di nuovo impegnato nella difesa del suo lavoro. Spirò a Firenze nella notte tra l'11 e il 12 dic. 1552, dopo una breve colica, e fu sepolto, per volere di Cosimo I, nella chiesa di S. Lorenzo. Gli eredi del G. diedero disposizione affinché fosse eseguito un monumento funebre adeguato, con una statua di Francesco Giamberti da Sangallo. Completato nel 1574, fu collocato nel chiostro, vicino all'entrata della Biblioteca Laurenziana, dove si trova tuttora.
Esistono almeno quattro immagini del G. dal vero. Dei due personaggi che conversano nel ritratto del cardinal Sauli dipinto nel 1516 da Sebastiano del Piombo (Washington, DC, National Gallery), il G. è quasi certamente la figura di destra. I tratti sono fini, il volto delicato e nobile, malgrado la prominenza del naso, grande e sottile. Questo è probabilmente il modello utilizzato per l'incisione in legno presente nell'edizione basileese degli Elogia del 1577 stampata dal tipografo lucchese Pietro Perna e per una medaglia eseguita da Ludwig Neufahrer nel 1532. Un vero e proprio ritratto, dovuto al Vasari, di cui oggi si ignora la sede, mostrava lo storico in età matura, con la penna in mano. Tale ritratto è ritenuto essere l'originale di quello al Museo civico di Como e dell'incisione che compare nel frontespizio nell'edizione degli Elogia di Basilea del 1575. Il G. fu anche incluso dal Vasari tra i personaggi riprodotti dal vero negli affreschi della Cancelleria, a Roma, con Paolo III nell'atto di dispensare ricompense. Il ritratto che forse meglio di ogni altro cattura lo spirito del G. è però il medaglione eseguito da Francesco da Sangallo quando lo storico era già anziano (Firenze, Bargello; Londra, British Museum). Vi si coglie la vivace energia che animava l'uomo e ne stimolava la creazione intellettuale, anche quando alle fatiche del servizio prestato a corte si aggiunsero i frequenti attacchi di gotta che afflissero gli ultimi anni di vita del Giovio.
Le risorse del G. erano invero prodigiose. Inesauribile era anche la tenacia nelle faccende più pratiche, come la richiesta della corresponsione delle rendite dovutegli. Quando le sue finanze o l'onore erano chiamati in causa, il G. era noto per la sua mordacità: "dicacissimus" lo definì il segretario di Carlo V (Lettres sur la vie intérieure de l'empereur Charles V, a cura di F. de Reiffenberg, Bruxelles 1843, p. 58). Commensale brillante e piacevole, il G. dava libero sfogo a un'arguzia che spesso feriva; ciò gli valse numerose inimicizie, come si evince dalle pasquinate che lo ritraggono come un venale ciarlatano, un parassita, un omosessuale, un uomo offensivo, un buffone (cfr. Pasquinate romane del '500, ad indicem). Rispetto ai costumi della Roma rinascimentale, tuttavia, il G. conservava una sorta di senso della moralità vecchio stile: ancorché buongustaio e amante del vino, egli detestava l'ubriachezza e la smoderatezza; disapprovò i buffoni della corte di Leone X, cui preferì la corte di Clemente VII, che, a paragone, appariva quasi puritana. Benché non particolarmente devoto, egli era tuttavia un rispettoso uomo di chiesa. Modotemporis, egli era un nepotista e un ecclesiastico avido; all'episcopato sommò svariati benefici, ad alcuni dei quali rinunciò poi a favore dei nipoti. Intelletto non originalissimo, il G. era però sagace e di ampi interessi. La potenza della sua memoria stupiva i contemporanei (cfr. L. Domenichi, Ragionamento… d'imprese, Firenze 1556, p. 91). Ariosto lo annoverò tra quegli umanisti romani la cui conversazione trasmetteva un piacere intellettuale elevato e puro (Satire, VII).
L'opera più importante cui il G. legò il suo nome sono le Historiae, il cui ordine di composizione è ricostruibile in maniera abbastanza precisa. È noto che il G. iniziò a lavorare all'opera poco dopo il suo arrivo a Roma, e che l'originale del libro VIII (gli attuali libri XIII e XIV) venne diffuso nel 1515. I colophon, insieme con altre indicazioni significative contenute nella sua corrispondenza, dimostrano che il G. compose i libri XV-XVIII a Firenze tra il 1520 e il 1522. Durante la visita a Venezia nel 1523 per accompagnare G. Adorno, parlò della revisione del libro I. È quindi plausibile che i libri compresi tra il I e il XVIII, che vanno dal 1494 a tutto il 1516, fossero scritti già nel 1524. Questo piano di composizione evidenzia la possibilità che il G. derivasse l'idea dell'importanza dell'invasione di Carlo VIII nella storia contemporanea dal De bello Italico di Bernardo Rucellai, che trattava gli avvenimenti dal 1494 al 1499 (Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, Laurenziano 68.25). È ipotizzabile inoltre che il G. avesse iniziato la sua trattazione partendo dagli eventi più vicini a lui, per rendersi poi conto che le fila del suo racconto riconducevano tutte al 1494. Ormai anziano, espresse a Camillo Porzio il rimpianto di non essere stato in grado di risalire sino alla congiura dei baroni napoletani. Nel 1524, dunque, il pensiero politico gioviano aveva già sviluppato appieno quella riflessione che avrebbe in seguito acquisito tanta rilevanza nella Storia d'Italia del Guicciardini, vale a dire che era la discordia tra gli Italiani ad avere portato lo straniero nel paese.
Origine di molta perplessità negli studi gioviani è la sorte dei "libri mancanti" delle Historiae. I libri dal V al X, dedicati agli avvenimenti accaduti tra il 1498 e la morte di papa Giulio II (1513), sono trattati solo da epitomi. Al tempo della pubblicazione, il G. affermò che questi libri erano andati perduti nel sacco di Roma; ma, non trovando menzione del loro smarrimento all'epoca, gli studiosi hanno ritenuto che la storia della loro perdita fosse una comoda invenzione, ed è difficile oggi stabilire la verità. Nessuna incertezza, invece, per quanto attiene agli altri sei libri che contengono epitomi, vale a dire i libri dal XIX al XXIV, dove sono trattati gli avvenimenti compresi nel decennio 1517-27: il G. stesso confessò di non averli mai scritti. Egli ora prometteva di colmare il vuoto, ora dichiarava di non poter costringere se stesso a scrivere la cronaca di anni che non si potevano ricordare senza dolore, né raccontare ai posteri senza il rischio di un giudizio disonorevole.
È noto che il G. smise di lavorare alle Historiae all'incirca nel periodo dell'ascesa di Clemente VII, che egli incolpò di non ricompensare adeguatamente il suo lavoro. Riprese a scrivere solo nel 1535, quando la vittoriosa crociata di Carlo V contro Tunisi e l'energico governo di Paolo III gli infusero nuova speranza nel futuro (Historiae, XXXIV). Iniziando dalla Dieta di Ratisbona e dalla crociata ungherese di Carlo V nel 1532, cui egli stesso prese parte, il G. di nuovo si diede a narrare la storia dei suoi tempi redigendo ciascun libro nell'arco di uno o due anni dall'accadimento dei fatti. Nel 1546 il suo racconto aveva raggiunto l'anno 1544 e il G. pensava alla pubblicazione. Tuttavia non ne fece nulla, probabilmente a causa delle lacune che ancora sussistevano. Fu solo al suo arrivo a Firenze, nell'autunno del 1550, che egli cominciò a lavorare sui libri riguardanti la storia fiorentina. Soltanto dopo lunghi colloqui con il duca e con vecchi repubblicani come B. Varchi, il G. si sentì pronto a completare la stesura di quegli episodi cruciali. Nella primavera del 1551 aveva terminato il libro XXXVIII, che tratta gli avvenimenti del 1536-37 e l'ascesa di Cosimo de' Medici. I libri dal XXV al XXIX, che analizzano gli eventi storici degli anni compresi tra il 1527 e il 1530, vennero scritti tra l'autunno del 1551 e la primavera del 1552. Il libro XXXV, dedicato alle campagne del 1536 di Carlo V e di Francesco I in Piccardia e in Provenza - episodi che il G. considerava particolarmente sgradevoli - fu completato soltanto nella primavera del 1552, l'ultimo anno della sua vita.
Composti, dunque, nell'arco di un'intera esistenza, i libri delle Historiae registrano le diverse reazioni che la storia del suo tempo produsse nel loro autore. Il senso di grandezza che pervade i primi libri cede alla disillusione che informa gli ultimi: questi traboccano delle insanabili contese che opponevano i monarchi cristiani e riflettono lo spirito di un'esistenza passata a testimoniare come tali conflitti, inutili e spietati, fossero solo fonte di sofferenza. Il G. sapeva che Carlo non si sarebbe mai arreso, né Francesco avrebbe cessato di ambire a Milano, qualunque fosse stato il prezzo da pagare in vite e in ricchezze. Tra i passi più efficaci delle Historiae, vi sono quelli del libro XLV, in cui viene descritto il destino dei prigionieri cristiani, catturati durante le scorrerie di Barbarossa lungo le coste del Mediterraneo e portati come schiavi a Costantinopoli nelle stive delle galee turche, mentre il sovrano del Sacro Romano Impero e il re cristianissimo si affrontavano in Europa del Nord (il G. temette sempre e vivacemente le incursioni turche lungo la penisola italiana). Se le aspirazioni di Carlo V suscitavano nel giovane G. sentimenti di simpatia, verso la fine della sua vita egli provava invece solo esasperazione di fronte ai due monarchi guerrieri e non si attardava più a ricercare i torti e le ragioni di tante infinite dispute.
Pubblicando le Historiae, il G. credeva di estendere la fama del suo nome "ad non incertam spem sempiternae laudis" (Iovii opera, III, p. 5). Sfortunatamente, esse non ricevettero mai il plauso che l'autore credeva meritassero né dai contemporanei né, al contrario di quanto egli stesso aveva fiduciosamente previsto, dalla posterità. A causa dei suoi convinti sentimenti filomedicei la reazione degli storici fiorentini di matrice repubblicana alle Historiae fu immediata e ostile. Sebbene incapaci di trovare veri e propri errori nel racconto degli avvenimenti della città, gli storici fiorentini si impegnarono in una campagna di detrazione contro il G., pur assumendo a fondamento delle loro storie la sua stessa opera. La loro critica più sostanziale si appuntava sul fatto che il G. non aveva compreso la costituzione fiorentina. Al G., in effetti, mancava – come il Varchi e Federico di Scipione Alberti furono pronti a imputargli – un adeguato interesse per le forme costituzionali, ma è altrettanto vero che nelle Historiae mancano quei giudizi arguti su uomini e avvenimenti che si ritrovano di frequente nelle lettere e che avrebbero potuto conferire ai lunghi racconti di guerre e di battaglie una dimensione sociale ancora più divagante. Altri attacchi giunsero dai sostenitori dei Farnese, così come pure da taluni dei vecchi nemici "litterati" del G.: tra questi va ricordato l'atteggiamento di alcuni cattolici zelanti, come Girolamo Muzio, il quale, nel 1550, lo denunciò all'Inquisizione (Lettere catholiche del Mutio iustinopolitano, Venezia 1571, pp. 99-102). In Francia tale fu l'ostilità suscitata dalla trattazione gioviana delle posizioni francesi, che la sua reputazione ne fu irrimediabilmente compromessa: l'opinione largamente negativa sulla sua storiografia trapela fin nel Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle (Basle 1741). In Spagna l'ostilità nutrita per le frequenti descrizioni gioviane delle efferatezze perpetrate dai soldati spagnoli assunse la forma dell'Antijovio, pubblicato, con più pompa che sostanza, dal vecchio soldato Gonzalo Jiménez de Quesada.
In Germania, dove l'avversione dei protestanti era prevedibile, anche i filoimperiali si schierarono contro la trattazione gioviana. Il G. stesso affermò che, a convincente dimostrazione della sua imparzialità, sarebbe dovuto bastare il fatto che i Francesi lo consideravano filoimperiale e i filoimperiali un francofilo (Iovii opera, II, p. 184). La determinazione del Giovio a procedere "senza arte e senza parte" è provata dal tentativo, compiuto da Carlo V e dalla sua corte, di fare pressione sul G. tramite il duca di Firenze al fine di sottoporre a censura imperiale il secondo volume delle Historiae. Di propria iniziativa, il G. aveva comunque mandato in Germania per una revisione il resoconto della spedizione di Tunisi, ma dei numerosi cambiamenti che gli vennero suggeriti accolse soltanto quelli per i quali aveva ragione di credere che i cortigiani dell'imperatore fossero informati più diffusamente rispetto alle sue prime fonti.
Il G. utilizzava il metodo storico tucidideo, che contemplava una sorta di "testimonianza oculare della storia"; esso si fondava sul confronto e la composizione di resoconti individuali di partecipanti e testimoni degli avvenimenti (Iovii opera, II, p. 104). Instancabile nel richiedere colloqui con coloro che avevano assistito a eventi che egli intendeva raccontare, il G. sfruttava la sua posizione a Roma per accedere a molte delle figure chiave delle sue Historiae; quando i colloqui non si rivelavano possibili, egli ricercava notizie tramite il rapporto epistolare (ibid., IX, pp. 256 s.). Dall'imperatore e dal re di Francia agli schiavi delle galee moresche, il G. valutava ogni fonte possibile al fine di ottenere resoconti equilibrati degli avvenimenti più recenti. Per quelli passati utilizzava storie umanistiche, cronache, memorie e anche gli archivi papali. Il metodo gioviano di valutare versioni diverse di uno stesso fatto per ricavarne la verità va così oltre il metodo liviano, basato sull'affidabilità di un'unica fonte principale. Nell'attenzione prestata alla topografia e nella fiducia che dimostrava tanto nell'osservazione personale quanto nella testimonianza oculare, il G. seguiva il metodo di Polibio, con la cui opera aveva molta familiarità (ibid., II, p. 226). Agli esordi della sua carriera romana, inoltre, quando era al servizio del cardinale Sauli, Giovanni Maria Cattaneo, anche lui cortigiano del cardinale, aveva dedicato al G. la traduzione del dialogo di Luciano su come scrivere la storia: il che testimonia il suo interesse già a quella data per la storiografia greca. In una lettera a Girolamo Scannapeco, il G. si definisce addirittura discepolo di Luciano (Iovii opera, I, p. 174). A Firenze egli ebbe l'opportunità di conoscere le opere di Leonardo Bruni, il cui ritratto egli possedeva già da tempo nel suo museo (ibid., p. 92). Come dimostra il contributo del·Cochrane, le Historiae gioviane esemplificano uno dei fondamenti della storiografia del Bruni, vale a dire lo sviluppo di un coerente principio esplicativo: come il Bruni, infatti, il G. individua nel comportamento umano la causa prima degli eventi storici sebbene, assecondando la tradizione umanistica, egli spesso citi il potere della fortuna e del destino per dare conto di quanto di inesplicabile è presente nelle umane faccende. "Fato prudentia minor" rimase il suo motto per tutta la vita.
L'altra influenza principale sulla storiografia gioviana proveniva dalla morale umanistica e dalla tradizione letteraria culminanti nel classicismo imperante negli ambienti letterari romani del primo Cinquecento. Nel G. è visibile il forte influsso della tradizione ciceroniana della aedificatio e della exornatio, rinnovata dal Pontano e dagli umanisti romani. Nel considerare la guerra come la materia principale dello storico, il G. seguiva naturalmente il Pontano (Actius), che aveva dato nuovo vigore alla tradizione classica. Sebbene il metodo ciceroniano ponga la verità a fondamento della storia, tuttavia nel G. la presentazione letteraria ha una rilevanza di gran lunga superiore rispetto ai metodi di ricerca. Nonostante il G. si desse molta più pena di quanta la tradizione umanistica richiedesse per creare una rigorosa base documentaria su cui edificare le sue Historiae, egli sacrificò la dimensione politica della storia a favore delle esigenze letterarie. Per il G., raggiungere uno stile che fosse ricco e prezioso, aveva la precedenza sulle analisi personali e politiche, che fanno la ricchezza della storiografia fiorentina del XVI secolo. Il latino del G. parve ai contemporanei un modello di eleganza piena e faconda, mentre la critica moderna è stata portata a metterne in rilievo la scarsa incisività e il prevalere dello spirito di decor letterario. La scelta per il latino, e un latino di così alto livello formale, limitò necessariamente la circolazione delle Historiae. Nonostante lo stesso G. avesse correttamente previsto che le traduzioni italiane di Ludovico Domenichi sarebbero state molto più lette degli originali latini, tuttavia anche le traduzioni non riuscirono a riscattare le Historiae da un relativo oblio.
Una discussione sulla storiografia gioviana non può tacere il problema delle imputazioni di parzialità e mendacio che hanno a lungo macchiato la reputazione dello storico. Mentre lo stesso G., in una celebre lettera allo Scannapeco, ammetteva che nella prosa biografica di cui egli era esperto è ancora lecito adombrare la verità e tralasciare gli aspetti non piacevoli del soggetto, nella storia – dichiarava – una tale libertà non è concessa (Iovii opera, I, p. 174). Non solo: lo storico è sottoposto al vincolo ciceroniano di dire non solo la verità, ma tutta la verità. Il mondo sa, così affermava il G. riaffrontando l'argomento al volgere dalla sua vita, "ch'io procedo sinceramente senza arte e senza parte, senza essere comprato da grazia né sforzato da odio"; la verità "sta al suo luogo, e 'l tempo la chiarirà" (ibid., II, pp. 183 s.). Queste decise affermazioni dello storico sono in verità smentite dall'uso ricorrente che egli fa delle Historiae nelle sue lettere come strumento per ottenere regali e sussidi. Tuttavia, quando il G. è stato attentamente letto da studiosi imparziali e confrontato con altre fonti, egli è stato quasi invariabilmente rivalutato e molti storici moderni (tra questi il Ranke, il Pastor e lo Chabod), favorevolmente impressionati dalla precisione e dalla veridicità gioviane, lo hanno usato estesamente. Difendendo il G. contro l'accusa di chi lo riteneva un "giornalista avventato", il Croce sosteneva che egli fosse, piuttosto, un "raccoglitore" di aneddoti, uno che sapeva che avrebbe soltanto ingannato se stesso se avesse raccolto notizie false e che non aveva risparmiato ai propri benefattori amare verità. Nessuno storico posteriore, per esempio, ha trovato difetti significativi nel carattere o nel regno di Leone X che il G. non avesse già menzionato nella vita del papa da lui scritta, pur essendogli stata commissionata da membri della famiglia Medici. In anni recenti il Cochrane ha energicamente sostenuto l'importanza del G. come primo esponente moderno della storia universale, aspetto questo sottolineato anche dalla Scarano Lugnani, che ha sottolineato come le Historiae contengano molte notizie che non compaiono in nessun'altra storia contemporanea. Il Dionisotti ha difeso con forza l'accuratezza e l'importanza fondamentali del resoconto gioviano della storia fiorentina. Sicuramente significativo è il fatto che, nonostante tutte le critiche ostili, le Historiae conobbero durante il tardo Cinquecento, soltanto in Italia, almeno quattro edizioni latine e dodici italiane. Nel resto d'Europa, ci furono almeno sette edizioni del testo latino, mentre si pubblicavano traduzioni in francese, spagnolo e tedesco. Ben più del Guicciardini, il G. rimaneva per molti europei il riferimento più autorevole sulle guerre italiane; per la storia di alcune regioni dell'Europa orientale, come l'Ungheria, il suo racconto resta fondamentale.
Tra le biografie e le opere minori del G., quelle che riflettono la diretta conoscenza dell'argomento sono di gran lunga le più rilevanti. La Vita Leonis decimi, commissionata da Ippolito de' Medici e Clemente VII, merita una menzione speciale non solo per la vividezza della descrizione della Roma leonina, ma anche per l'influsso che ebbe sulla storiografia successiva intorno al papa mediceo. Di quasi pari risonanza, anche se in senso negativo, fu la vita di Adriano VI, opera meno brillante e purtuttavia vivace, commissionata dal fedele Guglielmo von Enkevoirt e generalmente ritenuta dai contemporanei un capolavoro di ironia. La vita di Pompeo Colonna contiene molte notizie interessanti, introvabili altrove, così come la vita del marchese di Pescara Ferrante (Ferdinando Francesco) d'Avalos, commissionata da Vittoria Colonna. Queste ultime, insieme con la vita di Gonzalo Hernández de Córdoba, il "gran capitano", e la vita di Alfonso d'Este, sono di grande importanza per la storia militare del XVI secolo e contengono molto materiale che avrebbe dovuto riempire i libri mancanti delle Historiae. Minore interesse storiografico rivestono le vite di Muzio Attendolo Sforza e dei dodici Visconti duchi di Milano, che si basano su fonti edite e non su testimonianze raccolte direttamente dallo storico.
Aspetto significativo della storiografia gioviana è l'interesse per la geografia, che egli considerava il fondamento di ogni narrativa storica rigorosa. Prima di accingersi a descrivere una battaglia, egli conduceva approfondite ricerche sui paesi del mondo allora conosciuto; i dati così raccolti erano destinati, secondo le sue intenzioni, a comporre una serie di descrizioni degli "imperi e delle genti del mondo conosciuto" (Iovii opera, II, p. 166). Di fatto, della serie progettata, solo due opere conobbero la stampa: quella che descrive le isole britanniche e quella relativa alla Moscovia. Questa seconda venne pubblicata nel 1525 in occasione della visita a Roma dell'ambasciatore del granduca di Moscovia Basilio Magno; quanto alla prima, è stata avanzata l'ipotesi che costituisse parte di un tentativo di riavvicinare l'Inghilterra alla Chiesa cattolica. In campo geografico, la curiosità dello storico si appuntava in special modo sulle esplorazioni del nuovo mondo. Possedeva il primo ritratto di C. Colombo e per un periodo fu il possessore del famoso codice Cellere di Giovanni da Verrazzano, contenente la relazione del primo viaggio del navigatore. In suo onore, Verrazzano assegnò il nome di Puntum Iovianum all'attuale Rhode Island. Deliziosa operetta di corografia è la descrizione dell'amatissimo lago di Como, il Larius, redatto per il diplomatico (poi prelato) Francesco Sfondrato.
Di maggiore rilevanza per la storia della critica è la seconda parte del Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, che il Dionisotti ha definito "documento fondamentale nella storiografia letteraria italiana del Cinquecento" (Machiavellerie, p. 413). Nonostante la sua predilezione per il latino, il G. nel dialogo si dimostra perfettamente consapevole di quali implicazioni avesse il rinnovamento del volgare allora in corso. Il Travi (Iovii opera, IX, p. 163) suggerisce che il G. stesso si rese conto, forse dopo aver partecipato alle discussioni tenutesi a Bologna nel 1529-30, che il suo dialogo era già datato, ed è per questo motivo che decise di rinunciare a pubblicare l'opera, nonostante avesse ricevuto da Isabella d'Este una fornitura di carta per la stampa. Le altre due parti del dialogo sono egualmente di grande interesse. Nelle figure dei capitani discusse il primo giorno, il Travi intravvede "risvolti umani di una ricchezza inconsueta" (ibid.) e nelle pagine dedicate all'argomento del terz0 giorno, le donne famose, "una fantasia alacre", che "avviva il latino alla ricerca delle più squisite sfumature descrittive" (ibid.).
Nessun aspetto dell'eredità del G. è più conosciuto del suo celebre Musaeum di Como. Situato in un punto del lago di Como che egli riteneva fosse stato ammirato da Plinio, il museo fu edificato tra il 1537 e il 1543 per ospitare la grande e sempre più ricca collezione di ritratti del Giovio. Già prima del 1520, egli aveva cominciato ad acquistare ritratti di celebri letterati, ai quali andò via via aggiungendo quelli di grandi capitani, statisti e governanti. Sollecitandoli presso i protettori e le famiglie dei personaggi in questione, il G. insisteva che fossero effettivamente eseguiti dal vero. Non soddisfatto, anche nel caso di eroi e di filosofi del passato, delle rappresentazioni generiche tipiche delle collezioni quattrocentesche, il G. pattuiva con i pittori che essi copiassero solo da monete autentiche, da medaglioni e statue. Per quanto riguarda la struttura architettonica del museo, ora definitivamente ricostruita da Gianoncelli e Della Torre, essa si rifaceva all'ideale della villa classica, così come Plinio il Giovane la descriveva nelle sue lettere. Tuttavia, invece dell'unica stanza che nelle case romane era tradizionalmente dedicata agli avi, l'intera villa del G. era una celebrazione non solo della famiglia del suo proprietario e dei suoi successi, ma anche del culto della stessa personalità umana. In mancanza di un modello teorico che desse conto della personalità umana al di là dei classici "tipi" (flemmatico, sanguigno ecc.) ereditati dal Medio Evo, il G. tentò di creare per il grande pubblico cui egli destinò il suo museo, un mezzo per acquisire una comprensione immediata di ciascuna personalità storica. Tale metodo consisteva nell'accostare a un ritratto dal vero, che palesasse quanto più possibile lo spirito interiore del personaggio, una breve iscrizione, un poco nello stile di Svetonio o di Plutarco, che ne riassumesse in episodi vivaci il carattere e le fortune. A queste iscrizioni il G. diede il nome di elogia, alla maniera delle iscrizioni che si leggevano sotto le immagini romane degli avi. Ristampati molte volte, gli Elogia sono una miniera non solo di dati biografici, ma soprattutto di costumi del tempo, giudizi, voci, anche pettegolezzi, in un'epoca che si dedicò, e non in poca misura, alla creazione delle personalità eroiche. Si tratta di brevi composizioni che impiegano le res gestae e la tradizione orale per delineare pregi e difetti di un personaggio, anche accogliendo notizie oggi non verificabili altrove, purché servano a ritrarne l'essenza, così come i contemporanei lo percepivano. Gli Elogia vennero pubblicati in due serie: quelli dei letterati nel 1546, con una dedica a Ottavio Farnese; quelli degli statisti e dei capitani nel 1551, con sette diverse dediche a Cosimo I de' Medici, una per ciascun libro. Una terza serie, infine, quella di pittori, scultori e umoristi, non fu mai completata, eccetto che per gli elogia di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, che restano fonti di grande interesse per gli storici dell'arte, precedendo la pubblicazione delle Vite del Vasari. Spesso citata è la conclusione agli Elogia degli uomini di lettere, in cui il G. energicamente esprime il timore che l'Italia, avendo già perduto il primato delle armi, possa perdere anche quello delle lettere, se nuovi campioni non si ergeranno a difendere la palma dell'eloquenza latina contro l'incalzante genia degli umanisti settentrionali.
Il G. scrisse anche due opere in volgare. La prima, l'ameno e festoso Dialogo delle imprese eroiche ed amorose, composta a Firenze come diversivo alla calura estiva nel 1551, costituisce un contributo fondamentale alla teoria e alla pratica di inventare imprese, e resta uno dei lavori gioviani più letti. La seconda, il Commentario delle cose dei Turchi, dedicato a Carlo V, venne probabilmente scritta in concomitanza con l'organizzazione della sua crociata ungherese del 1532. Il trattato evidenzia non solo quanto eccezionale fosse la conoscenza che il G. aveva della politica turca - di gran lunga superiore rispetto a quanto era normale all'epoca -, ma anche l'equanimità del suo giudizio nell'elogiare le qualità che rendevano i Turchi antagonisti tanto temibili. Probabilmente, il G. aveva assimilato dai suoi colloqui con capitani e soldati quel genere di rispetto che gli uomini d'arme nutrono per un valente avversario. Come medico, inoltre, egli provava un interesse particolare per le misure sanitarie, molto avanzate, dei campi ottomani. Nonostante la loro grande forza, il G. sentiva però che essi potevano essere sopraffatti, a patto che i re cristiani intervenissero con intelligenza e di concerto, due condizioni dichiaratamente difficili da conseguire.
È sorprendente che il cronista di tante vite non abbia lasciato memoria della propria, se si esclude un breve scritto redatto per un'autobiografia che lo storico iniziò e non portò a compimento. In sua vece, però, il G. ci ha lasciato un ricco epistolario. Pochi sono gli scrittori suoi contemporanei ad avere palesato se stessi altrettanto schiettamente e compiutamente nelle loro lettere. Come ha dimostrato il Ferrero, l'opus epistolarum del G. non costituisce solo un autoritratto eloquente, ma è anche un ricco affresco della vita politica e morale del Cinquecento. Sempre sprezzante dei "falsi Latini in volgare", il G. scriveva come parlava. "Le sue lettere", osserva il Ferrero, "si può ritenere per certo che siano uno specchio fedele della sua conversazione abituale: vivacissima e spregiudicata, facile ai lazzi plebei, frequente di motti proverbiali e di nomignoli scherzosi, con qualche locuzione furbesca; prontissima a cogliere il lato caratteristico degli uomini e delle cose del suo tempo" (Lettere del Cinquecento, Torino 1959, pp. 22 s.). Inoltre, come ha notato il Rota, nel volgare gioviano "la parola è sottratta ad ogni tutela morale, e nella sua scioltezza emula il movimento di una vita nuova, in cui è più che mai evidente la rottura di ogni vincolo, e l'elevarsi di uno strato sociale sopra l'altro" (p. 933). La congruenza delle lettere del G. con il suo tempo è, del resto, egregiamente testimoniata dall'insistenza con la quale esse erano sollecitate dai suoi corrispondenti e dalla bramosia con cui vennero diffuse e ricercate.
Opere: Per un elenco delle opere del G. si vedano anche E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, pp. 324-336, e D. Moreni, Annali della tipografia fiorentina di L. Torrentino, Firenze 1819, ad indicem. Per i manoscritti Iter Italicum, I-VI, ad indices; un brano autobiografico inedito si conserva presso la Bibl. nazionale di Roma, Mss. autografi, A.153.1.
Prime edizioni e principali edizioni antiche: De Romanis piscibus, Romae, F.M. Calvo, 1524; De legatione Basilii Magni principis Moschovie, ibid. 1525; Li veri particulari de la felice vittoria de illustre [sic] signor conte Philippino Doria contra l'armata cesarea sopra Salerno… [ibid., 1528]; Vita Petri Cravinae, in Petri Cravinae poemata, a cura di S. Capece, Neapoli, I. Sulzbach, 1532; Commentario de le cose de' Turchi, Roma, A. Blado, 1532; Venezia, F. Marcolini, 1540; ibid., Aldo, 1541; Vita Sfortiae, Roma, A. Blado, 1539; De vita Leonis decimi pont. max. libri IIII, … Hadriani sexti pont. max. et Pompeii Columnae cardinalis vitae, Fiorenza, L. Torrentino, 1548, 1549, 1551; Descriptio Britanniae, Scotiae, Hyberniae et Orchaddum, Venezia, M. Tramezino, 1548; Vitae duodecim Vicecomitum Mediolani, Paris, R. Estienne, 1549; De vita et rebus gestis Alphonsi Atestini, Fiorenza, L. Torrentino, 1550; Consiglio di monsignor Giovio raccolto dalle consulte di papa Leone decimo per far l'impresa contra infideli, Venezia, G.M. Bonelli, 1560; Pauli Iovii Novocomensis opera quotquot extant omnia, Basileae, P. Perna, 1578, 1596 (piene di errori di stampa); pare che il G. fosse coautore del trattato De virtute olei contra pestem, Romae 1524 (cfr. Cicogna, p. 335); si contano anche due epigrammi del G. nella raccolta Coryciana, Roma, L. degli Arrighi e Lautizio Perugino, 1524.
Principali traduzioni coeve: Libro de' pesciromani, trad. di C. Zancaruolo, Venetia, Gualtieri, 1560; Operetta dell'ambasceria de' Moschoviti, trad. di F. Negri, Venezia, Bartolomeo detto l'Imperatore, 1545; Turcicarum rerum commentarius, trad. F. Negri, Parigi, A. e C. L'Angelier, 1538; La vita di Sforza valorosissimo capitano, trad. di L. Domenichi, Firenze, Giunti, 1549; Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli huomini famosi le quali a Como si veggiono, trad. di I. Orio, ibid., [L. Torrentino], 1552; Venezia, F. Bindoni, 1558; Le vite di Leon decimo et d'Adriano sesto sommi pontefici et del cardinal Pompeo Colonna, trad. di L. Domenichi, Fiorenza, L. Torrentino, 1549, 1551; Venezia, G. de' Rossi, 1557; Le vite de i dodeci Visconti prencipi di Milano, trad. di L. Domenichi, Vinegia, G. Giolito, 1549; La vita di Consalvo Ferrando di Cordova detto il gran capitano, trad. di L. Domenichi, Fiorenza, L. Torrentino, 1550, 1552; Libro de la vida y chrónica de Gonçalo Hernándes Córdoba… el gran capitan, trad. di P. Blas Torrellas, Saragoza, E.G. de Nagera, 1553; Anversa, G. Simon, 1555; ibid., G. Spelmann, 1555; La vita di Ferrando Davalo marchese di Pescara, Fiorenza, L. Torrentino, 1551, 1556; La vida del marqués de Pescara, trad. di P. Blas Torrellas, s.l. e indicazioni tipografiche, 1555; La vita di Alfonso da Este, trad. di G.B. Gelli, Fiorenza, L. Torrentino, 1553; Gli elogi. Vite brevemente scritte d'huomini illustri di guerra, trad. di L. Domenichi, ibid., 1554; Venezia, G. de' Rossi, 1557; ibid., F. Bindoni, 1560; Le istorie, trad. di L. Domenichi, Fiorenza, L. Torrentino, 1551-53.
Edizioni recenziori: l'appendice alle Historiae e il Dialogus de viris litteris illustribus cui in calce sunt additae Vincii, Michaelis Angeli, Raphaelis Urbinatis vitae, in G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, Modena 1794; Lettera sul vitto umano a Felice Trofino vescovo di Chieti ed iscrizioni sulla sala del pranzo, a cura di G. Giovio, Como 1808; Lettere inedite di Paolo Giovio, a cura di A. Luzio, Mantova 1885; La vida y chrónica, in Crónicas del gran capitan, a cura di A. Rodriguez Villa, Madrid 1908; An Italian portrait gallery. Being brief biographies of scholars, trad. di F.A. Gragg, Boston 1935; Le vite del gran capitano e del marchese di Pescara, volgarizzate da L. Domenichi, a cura di C. Panigada, Bari 1931; Pauli Iovii opera, I, Epistularum pars prior, a cura di G.G. Ferrero, Roma 1956; II, Pars altera, ibid. 1958; III, Historiarum tomus primus, a cura di D. Visconti, ibid. 1957; IV, Tomi secundi pars prior, a cura di D. Visconti, ibid. 1964; V, Tomi secundi pars altera, a cura di D. Visconti - T.C. Price Zimmermann, ibid. 1985; VI, Vitarum pars prior, a cura di M. Cataudella, ibid. 1987; VIII, Elogia, a cura di R. Meregazzi, ibid. 1972; IX, Dialogi et descriptiones, a cura di E. Travi - M. Penco, ibid. 1984 (non usciti i voll. VII, Vitarum pars altera; X, Iconografia; XI, Opere minori; XII, Indici); Larius, a cura di D. Visconti, in Larius, a cura di G. Miglio et al., I, Milano 1959, pp. 65-98; R. Ristori - T.C. Price Zimmerman, Una lettera inedita di P. G. al cardinale Benedetto Accolti, in Arch. stor. italiano, CXXII (1964), pp. 505-507; Leonardi Vincii, Michaelis Angeli et Raphaelis Urbinatis vitae, a cura e trad. di P. Barocchi, in Scrittid'arte del Cinquecento, I, Milano-Napoli 1971, pp. 3-18; Dialogo dell'imprese militari e amorose, a cura di M.L. Doglio, Roma 1978; Paulus Iovius P. Iano Raschae, a cura di S. Della Torre, Raccolta storica, XVII (1985), pp. 296-301; Ritratti degli uomini illustri, a cura di C. Caruso, Palermo 1999; Scritti d'arte, a cura di S. Maffei, Pisa 1999.
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