PAOLO III Papa
Alessandro Farnese nacque, secondo i più, a Canino nel febbraio 1468 da Pier Luigi e da Giovannella Caetani. Da principio pensava di avviarsi alla carriera diplomatica e andò a Firenze per istruirsi nella corte del Magnifico, ma per volere della madre abbracciò invece la carriera ecclesiastica e fu successivamente protonotario apostolico (1491), tesoriere generale (1492), cardinal diacono (1493), legato del Patrimonio (1494), vescovo di Corneto e Montefiascone (1499), legato nella Marca d'Ancona (1502), vescovo di Parma (1509), di Tuscolo (1513), di Benevento (1514), di Ostia (1524) e, finalmente (13 ottobre 1834), papa.
Uomo di vivo ingegno e di larga cultura, attinta in massima parte nella Firenze del Rinascimento, dovette la sua elezione al pontificato, oltre che alle qualità personali, alla posizione d'indipendenza di cui godeva, rispetto alle due potenze che allora si contendevano il predominio. Sebbene nella gioventù non svolgesse alcuna attività religiosa e fra i trenta e i quarant'anni, non avendo ancora gli ordini sacri, mettesse al mondo, forse non da una donna sola, almeno quattro figli (Costanza, Pier Luigi, Paolo e Ranuccio), si distinse subito per le tendenze riformatrici. A Parma infatti, dove fu vescovo, iniziò una severa amministrazione, continuata poi nelle altre diocesi e nella Curia papale. Politicamente cominciò a emergere sotto Leone X e si parlò della sua possibile elevazione al pontificato nei conclavi, da cui uscirono eletti Adriano VI e Clemente VII. Sotto questo papa godette di grande autorità e Clemente ricorse spesso ai suoi consigli, dei quali aveva non poco bisogno. Eletto pontefice, non smentì le speranze, che si erano concepite di lui e, quantunque desse prova d'una certa lentezza nel prendere le decisioni, lentezza derivante più che altro dal desiderio di ben informarsi degli elementi di fatto e ponderatamente scegliere la soluzione preferibile, si rivelò ben presto uomo di prim'ordine, nobile, dignitoso, fiero e intelligente, fermamente deciso a pacificare i due contendenti, imperatore e re di Francia, per volgere le forze latine associate contro il dilagare del protestantesimo e quelle cristiane unite alla loro volta in fascio contro i Turchi. Quindi non più alleanze con l'una o l'altra delle due potenze rivali, ma neutralità fu, secondo giudicavano conveniente gli scrittori del tempo, la direttiva politica, che egli seguì prima e durante il pontificato, come la più rispondente e la più utile agl'interessi della Santa Sede e alla "libertà italiana".
Ne diede prova subito nella questione del Milanese, nella quale si rifiutò nettamente di favorire la tendenza francese a ricuperarlo (novembre 1534), non acconsentendo peraltro a impegnarsi con l'imperatore, che gli aveva chiesto la partecipazione alla lega contro Francesco I. Quando poi l'anno appresso (1° novembre) venne a morte Francesco II Sforza e gli Spagnoli accennarono a insediarsi in Milano, P. III, non potendo dare lo stato, come avrebbe desiderato, al figlio Pier Luigi o al nipote Ottavio, caldeggiò la soluzione di affidarlo al duca d'Angoulême, terzogenito del re di Francia, che avrebbe dovuto sposare la duchessa vedova, o una figlia di Ferdinando re dei Romani, o la figlia naturale dell'imperatore, Margherita, non ancora moglie di Alessandro de' Medici. Mancò al progetto, accettato da Carlo V, l'adesione di Francesco I, che avrebbe voluto a Milano il proprio secondogenito duca d'Orléans, e la parola rimase alle armi (1536). Ciò nonostante e malgrado che l'imperatore facesse di tutto per avere il papa alleato, questi perseverò nella neutralità, giungendo fino a sconfessare il figlio, che inclinava a mettersi a disposizione di Carlo V pur di avere il marchesato di Novara, e rimandando a miglior tempo il matrimonio del nipote Ottavio con Margherita d'Austria, divenuta vedova improvvisamente, matrimonio che avrebbe dovuto legare il pontefice alla politica imperiale. Subito dopo gli orrori della devastazione compiuta in Provenza, s' adoperò inoltre a conciliare i due rivali procurandosi l'adesione di Venezia, mandando legazioni su legazioni ai belligeranti e provocando frequenti abboccamenti con l'uno o con l'altro di essi e anche fra loro. Con tali mezzi riuscì allo scopo e i suoi sforzi per la pace portarono alla tregua decennale stabilita nel congresso di Nizza, che il papa tenacemente volle e preparò e accortamente regolò in modo che le trattative non si risolvessero in una semplice sospensione di armi (1538). Non fu, è vero, la pace definitiva, ostacolata dalla questione del Milanese, che l'imperatore si rifiutava di cedere ad alcuno, specie dopo che il duca d'Angoulême era divenuto, per la morte del delfino, duca d'Orléans, ma quanto di meglio si poté conseguire per allora e P. III s' adoperò a trasformare la tregua in pace definitiva, a impedirne la rottura e a ristabilirla quando la guerra tornò a scoppiare (1542). Dalla successiva pace di Crépy (1544) il papa rimase escluso, ma anch'essa fu il risultato della sua politica lungimirante.
Fin dai primi giorni del pontificato P. III si occupò attivamente della questione religiosa, risolvendo di convocare un concilio generale (ottobre-novembre 1534), ma le difficoltà opposte dalla situazione in Germania e in Italia lo costrinsero a procedere con grandissima cautela perché gl'interessi della Chiesa non rimanessero in ultima analisi danneggiati. Soltanto il 2 giugno 1536 il concilio poté essere indetto a Mantova per il 23 maggio dell'anno dopo, ma andò a monte per la riluttanza dei protestanti a recarsi in una città italiana e il rifiuto del duca a ospitare l'assemblea. Si scelse allora Vicenza a sede del concilio, rinviandone l'apertura al 1° maggio 1538, sennonché la renitenza dei luterani a parteciparvi e la mancanza d'accordo fra gli stessi cattolici tedeschi costrinsero a rinviarlo ancora e poi a sospenderlo a tempo indeterminato. Successivamente in luogo del concilio si tentò la via dei "colloquî", che avrebbero dovuto portare all'accordo tra le due confessioni. Naturalmente il papa voleva che esso si concludesse sulla base delle verità cattoliche, e, poiché a un'intesa non si poté venire né a Ratisbona (1542), né a Spira (1544), né a Worms (1545), si tornò all'idea del concilio, convocato a Trento il 22 maggio 1542, sospeso (6 luglio 1543), riconvocato (19 novembre 1544) e finalmente aperto il 13 dicembre 1545
Di pari passo col concilio si accompagnò per volere del papa la riforma interna della Chiesa e sin dal 20 novembre 1534 furono nominate due commissioni di tre cardinali ciascuna con l'incarico di provvedere a una riforma dei costumi e di compiere un'accurata inchiesta su tutte le amministrazioni religiose e politiche dello stato. Successivamente i poteri delle commissioni vennero estesi e se ne crearono altre. Nel 1536 cominciò a funzionare la cosiddetta Commissione novemvirale", che l'anno appresso preparò il Consilium de emendanda Ecclesia (destinato a rimanere segreto e che invece fu conosciuto, non si sa come, in Germania e dato in pasto al pubblico e sfruttato come un'autoconfessione delle proprie colpe da parte del papato), base e programma del concilio in preparazione. Altri quattro cardinali elaborarono il Consilium super reformatione Ecclesiae e una commissione di dodici studiò la riforma degli uffici. Tali studî e progetti servirono di base alle riforme ulteriori. Inoltre P. III agevolò la riforma, creando cardinali ad essa favorevoli (G. Contarini, Carafa, Polo, Morone, Sadoleto).
Allorché il concilio venne finalmente aperto, egli volle con la solita energia che i lavori proseguissero seriamente e producessero frutto concreto, lasciando all'assemblea tutta la libertà compatibile col mantenimento dell'autorità e della dignità della Santa Sede. Giusta il suo concetto, la precedenza nelle discussioni non poteva non essere data alla definizione dei dogmi, ma poiché l'imperatore per motivi politici non era della stessa opinione, si convenne che le discussioni sulla materia della fede e sulla riforma procedessero di pari passo. Si posero quindi a base della dottrina il Vecchio e il Nuovo Testamento nella versione della Vulgata al pari che la tradizione ecclesiastica. Si affermò il dogma del peccato originale; si discusse il principio della giustificazione per la fede; si promulgò il decreto dei sacramenti. Si affrontò inoltre la riforma e fu deciso l'obbligo della residenza degli ecclesiastici. Tutto ciò venne compiuto sotto gli auspici di P. III. Ma la riluttanza dei protestanti e dei cattolici ad avvicinarsi alle posizioni dei rispettivi avversarî intralciò i lavori del concilio così bene iniziati. Scoppiò la guerra contro la Lega di Smalcalda, alla quale il papa contribuì come capo della cattolicità, ritirandosene non appena si avvide che veniva combattuta con intenti politici e anche a causa del rifiuto da parte dell'imperatore di combattere l'eretico sovrano inglese. Frattanto il concilio si accingeva a lasciare Trento per sottrarsi all'influenza imperiale. Un morbo contagioso scoppiato in quella città diede occasione al suo trasferimento a Bologna. I legati ne presero l'iniziativa, ma naturalmente il papa li aveva autorizzati (11 marzo 1547). La prima riunione nella nuova sede fu indetta per il 21 aprile, ma venne poi differita al 2 giugno e di nuovo al 15 settembre, quando neppure ebbe luogo. Sospeso il concilio a tempo indeterminato, intervenne l'Interim di Augusta che P. accettò soltanto con grande difficoltà, perché compiutosi indipendentemente dalla sua volontà (1548).
Dal punto di vista della Controriforma sono degni di menzione il riconoscimento d'un nuovo ordine religioso, quale fu quello dei gesuiti (27 settembre 1540), e l'organizzazione dell'Inquisizione romana con la bolla Licet ab initio (21 luglio 1542), atti entrambi compiuti da P. III.
Una delle ragioni, che consigliavano di mantenere la pace, era dettata dalla necessità di combattere il pericolo ottomano. Non ostante le ristrettezze finanziarie tra le quali si dibatteva la Curia, nonostante il malcontento delle popolazioni continuamente aggravate di balzelli tanto da erompere talora in ribellioni (Perugia, 1540), P. III contribuì alla presa di Tunisi (1535) e alla difesa dell'Adriatico meridionale (1537). Cercò inoltre di costituire una lega, che abbracciasse tutti gli stati cristiani, non esclusa la Francia, e, se non riuscì a ottenere l'adesione di quest'ultima, ebbe quella di Venezia e di Carlo V (settembre 1537-febbraio 1538). Se la lega, minata nella sua consistenza dalle aspirazioni differenti e talora in contrasto di coloro che ne facevano parte, si sfasciò non appena il pericolo apparve dileguato, rimane merito indiscutibile del pontefice l'averla promossa e l'avere cercato di farla rivivere dopo lo scontro della Prevesa. Tre anni dopo mandò ad Algeri il nipote Ottavio.
I rapporti con gli stati europei e italiani, dei quali non si è ancora fatto cenno, furono in funzione della politica generale e dell'indirizzo impresso all'azione di tutto il pontificato. Aspri con Enrico VIII d'Inghilterra, pertinacemente ribelle alla Chiesa e alleato di Carlo V contro Francesco I. Aspri con il duca Cosimo de' Medici a causa dell'adesione da lui data alla politica imperiale e anche per le aspirazioni contrastanti su Siena. Col duca di Firenze scoppiò aperto il conflitto a proposito dell'espulsione dei domenicani (1545) e per l'arresto dell'agente mediceo a Roma. Cordiali invece furono i rapporti col duca di Ferrara Ercole II, specie dopo l'accordo del 21 gennaio 1539 per il censo dovuto alla Santa Sede. Non si può dire lo stesso delle relazioni col duca di Mantova, Federico, e poi con Ercole, reggente per Francesco I, tutti imperiali, né, almeno in un primo tempo, per quelle con i duchi d'Urbino Francesco Maria della Rovere e Guidobaldo II, che aspiravano al possesso di Camerino. Ma non appena quest'ultimo v'ebbe rinunziato, le cose migliorarono; il matrimonio di Guidobaldo con Vittoria Farnese (giugno 1547) accomodò successivamente ogni differenza di vedute.
La questione di Camerino rientra nella politica interna dello stato ecclesiastico e tali furono anche l'accennata repressione della rivolta di Perugia e quella della ribellione di Ascanio Colonna (1541), episodi l'uno e l'altro della resistenza alle tendenze accentratrici monarchico-assolutiste di P. III, come d'ogni altro sovrano moderno.
Grave e non del tutto infondata l'accusa di nepotismo che si fa al papa. Tuttavia si può ammettere con i suoi difensori che non subordinò gl'interessi generali a quelli particolari dei Farnesi e che, a differenza di quanto aveva fatto prima Clemente VII, non spinse il nepotismo oltre quello che i tempi potevano forse permettere. Il più favorito da P. fu certo Pier Luigi creato gonfaloniere della Chiesa, signore di Castro e Nepi e infine duca di Parma e Piacenza. L'infeudazione di queste città a favore del figlio del papa fu decisa in concistoro il 19 agosto 1545 e si stabilì un tributo a carico del duca di 900 ducati annui a titolo di risarcimento verso la Chiesa e come segno di sottomissione alla medesima. Carlo V avrebbe voluto insediare a Parma il figlio Ottavio invece del padre. Divenuto duca di Parma, Pier Luigi lasciò Nepi, che fu incamerata, e Castro, che venne concessa a Ottavio in luogo di Camerino, ottenuta in precedenza e allora retrocessa alla Chiesa. La formazione del ducato di Parma e Piacenza viene giustificata dai difensori del pontefice con la necessità di opporsi al dilagare della potenza imperiale insediatasi a Milano e di affidare quel territorio a una mano forte capace di dominare i feudatarî riottosi. Dopo l'uccisione di Pier Luigi e l'occupazione di Piacenza da parte del governatore di Milano il ducato fu conferito a Ottavio, ma in un secondo tempo, per salvarlo dagli appetiti imperiali, P. decise di porlo alla diretta dipendenza della Santa Sede (1549). Allora Ottavio fu indennizzato col ducato di Camerino e una somma di danaro, mentre Castro fu concessa a Orazio, altro figlio di Pier Luigi, che viveva in Francia e più tardi sposò una figlia naturale di Enrico II, Diana di Francia, duchessa d'Angoulême (1552). Ancora due figli di Pier Luigi, Alessandro e Ranuccio, furono creati cardinali e del pari cardinale divenne un figlio di Costanza Farnese, Guido Ascanio Sforza. In tutte queste elezioni P. mostrò di avere troppa fretta, essendo cadute su adolescenti.
La retrocessione di Parma e Piacenza fu uno degli ultimi atti politici compiuti da P. III. Amareggiato dall'ingratitudine dei suoi e irritato perché Ottavio aveva preso possesso di Parma, morì il 10 novembre 1549 dopo avere raccomandato ai cardinali il bene della Chiesa e le sorti dei nipoti. Fu sepolto in S. Pietro.
La fama di P. è arrivata a noi offuscata dalla macchia del nepotismo e dall'accusa di ambiguità politica, che risale principalmente alla tradizione avversaria tedesca e anglo-sassone, imperialista e protestante. Nel sec. XVIII si tentò di reagire all'opinione prevalente, ma nell'Ottocento storici e poeti giudicarono ancora sfavorevolmente il papa fondatore dell'Inquisizione romana e sostenitore dell'assolutismo. Recentemente l'opera di revisione critica della tradizione è stata portata innanzi e si parla ora di P. come di uomo e pontefice "eccezionale", che chiuse degnamente l'età del Rinascimento, aprendo con tatto e discrezione le nuove vie del periodo riformatore. Converrà ricordare di lui il mecenatismo delle arti e delle lettere, l'impronta grandiosa data all'edilizia di Roma, il favore accordato agli eruditi e ai letterati (cfr. Ariosto, Orlando fur., XLVI, 13), alcuni dei quali, come il Sadoleto e il Bembo, furono da lui elevati alla porpora.
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Trattano di punti particolari: A. Guglielmotti, La guerra dei pirati dal 1500 al 1560 e la marina pontificia, Firenze 1876; C. Capasso, I legati al concilio di Vicenza, Venezia 1892; L. Carcereri, Il Concilio di Trento dalla traslazione a Bologna alla sospensione, Bologna 1910; St. Ehses, Kirchliche Reformarbeiten unter P. III. vor dem Trienter Konzil, in Römische Quartalschrift, XVI, 1901; A. Simonetti, Il convegno di P. III e Carlo V in Lucca, Lucca 1901; M. Lupo Gentile, La politica di papa Paolo III nelle sue relazioni con la corte medicea, Sarzana 1906; E. Costantini, Il cardinal di Ravenna al governo di Ancona e il suo processo sotto P. III, Pesaro 1891; A. Bertolotti, Speserie di P. III, in Atti e memorie per la Deputaz. di stor. patr. delle prov. dell'Emilia, 1878; R. Lanciani, La via del Corso dirizzata ed abbellita nel 1538 da P. III, Roma 1903; L. von Pastor, Die Stadt Rom zu Ende der Renaissance, Friburgo in B. 1916; Steinmann, Das Grabmal Pauls III., in St. Peter in Rom, Lipsia 1912.