IMPERIALE, Paolo
Figlio del legum doctor Domenico di Francesco e fratello minore del giurista Andrea Bartolomeo nacque a Genova in data non nota, probabilmente da collocare nell'ultimo decennio del XIV secolo.
L'I. ebbe in comune con il fratello non solo la passione per gli studi umanistici, ma anche l'intensa attività politica e diplomatica, che nel suo caso ebbe modo di dispiegarsi su uno scacchiere ancora più ampio. Le prime notizie certe relative all'I. sono connesse all'attività culturale all'interno dei cenacoli umanistici; la sua figura è infatti ricordata da Ciriaco d'Ancona (Ciriaco Pizzicolli) fra quelle degli umanisti genovesi che lo ospitarono durante la sua permanenza nella città ligure nel 1434 (cfr. Braggio, p. 27 n. 1). Al contrario di Andrea Bartolomeo, tuttavia, l'I. appare successivamente aver consacrato assai meno tempo agli ozi letterari, configurandosi sempre più come un personaggio di azione, politicamente impegnato nelle grandi questioni che agitavano la sua epoca.
Il governo del doge Tommaso Fregoso, al quale tanto l'I. quanto il fratello erano legati da forte simpatia e comunanza di interessi culturali, gli conferì infatti la carica di console di Caffa, la principale colonia genovese nel bacino pontico, per l'anno 1438; in tale veste egli era investito della massima autorità politica e amministrativa nell'ambito del sistema coloniale genovese nel Mar Nero.
La scelta dell'I. per questo incarico, nel clima di fervida partecipazione del governo genovese ai preparativi per il grande concilio di unione delle Chiese progettato da papa Eugenio IV, non dovette essere casuale. Se infatti l'I. doveva aver già avuto modo di far apprezzare in precedenza le proprie capacità di amministratore, furono sicuramente la sua cultura e la sua abilità diplomatica a renderlo un candidato ideale per la carica, dimostrandosi estremamente preziose tanto nella gestione della fase delicata attraversata in quel periodo dalle complesse relazioni con l'imperatore di Trebisonda Giovanni IV Comneno, quanto nel raggiungimento di un obiettivo di grande importanza per il pieno successo del concilio: la partecipazione ai lavori di una delegazione plenipotenziaria in rappresentanza della Chiesa armena.
Nel corso del XV secolo, infatti, Caffa si era andata configurando, grazie alla presenza di una comunità demograficamente importante ed economicamente attivissima, come uno dei principali centri di sviluppo e irradiazione della cultura armena e quindi la sua sede episcopale aveva assunto un ruolo di primo piano nella Chiesa d'Armenia. Genova, ben conscia di questa realtà, intraprese un'opera di persuasione nei confronti del vescovo di Caffa affinché esercitasse la propria influenza sul patriarca per convincerlo a inviare una delegazione a prendere parte al concilio. I contatti in questo senso erano stati avviati da emissari pontifici fin dal 1434, ma fino a quel momento, per le intromissioni dei padri conciliari riuniti a Basilea, si trovavano in una situazione di stallo, sebbene fin dal luglio 1437 Eugenio IV avesse inviato a Caffa un proprio rappresentante: il vicario generale dei minoriti Giacomo dei Primadizi.
L'I. diede nuovo impulso alle trattative, avvalendosi anche della preziosa collaborazione dei frati predicatori Giovanni da Montenero e Tommaso Simonian (quest'ultimo di probabile origine armena), e riuscì a far convocare il 12 maggio 1438 una riunione delle principali autorità religiose armene di Caffa, sotto la presidenza dello stesso vescovo Malachus, alla quale prese parte anche una rappresentanza dei latini residenti in città. In tale occasione fu deliberato di inviare lettere al patriarca Costantino, residente a Sis, in Cilicia, per annunciargli la decisione delle autorità religiose locali di inviare una rappresentanza al concilio e per chiedere che nominasse propri rappresentanti che si unissero al viaggio in Occidente. La risposta del patriarca, datata dalla città di Vagarsabat il 25 luglio successivo, fu positiva, ma proprio la necessità di attendere i suoi delegati rallentò probabilmente la partenza della delegazione, alla quale si unì, oltre a fra Giacomo dei Primadizi e ai frati predicatori che avevano partecipato alle riunioni, anche il francescano di origine armena Basilio. La spedizione lasciò così Caffa solo il 1° dic. 1438 per raggiungere la colonia genovese di Pera, di fronte a Costantinopoli, dove si trattenne alcuni mesi e dove fu raggiunta anche da Giovanni da Capestrano di ritorno da una missione in Oriente.
Il 3 ag. 1439 giunse a Genova la nave che trasportava i delegati armeni, i quali il 13 successivo poterono finalmente incontrare il papa a Firenze. È assai probabile che l'I. abbia accompagnato la delegazione nel lungo viaggio, o che l'abbia raggiunta a Pera una volta concluso il proprio mandato, e che una delle cause che contribuirono a ritardare la partenza per l'Italia sia stata proprio la necessità di attendere che il console uscisse di carica e che giungesse a Caffa il suo successore designato, Antonio Lomellino, per effettuare il passaggio delle consegne.
Molto probabilmente l'I. si recò anche a Firenze per assistere agli incontri della delegazione armena con i teologi occidentali ed è verosimilmente in questa circostanza che egli incontrò il papa, il quale, apprezzando l'attività da lui svolta in precedenza e le sue indubbie capacità, gli concesse il titolo di conte palatino e l'incarico di scudiere d'onore papale e decise di avvalersi dei suoi talenti in una situazione che si stava facendo irta di difficoltà. In quel periodo, infatti, l'autorità pontificia in Roma aveva raggiunto un livello bassissimo, e sia la città sia il territorio del Ducato, e più in generale gran parte del Patrimonio di S. Pietro, si trovavano in uno stato di anarchia quasi totale, esposti alle rivendicazioni violente di baroni ribelli, cardinali ambiziosi, condottieri ingovernabili e, soprattutto, alle mire espansionistiche di Alfonso V d'Aragona, che in quel momento contendeva con la forza il trono napoletano a Renato d'Angiò, candidato pontificio.
Considerando il fatto che Genova era la potenza italiana più coinvolta nel tentativo di sbarrare il passo all'espansionismo della Corona d'Aragona nell'Italia meridionale e che i suoi stessi interessi economici la spingevano a sostenere le posizioni francesi e pontificie in favore del candidato angioino, Eugenio IV dovette indubbiamente ritenere che un genovese avrebbe dato garanzie di assoluta fedeltà nell'esercizio della principale magistratura comunale romana; pertanto, il 16 ag. 1440 nominò l'I. senatore di Roma.
Entrato in carica in dicembre, l'I. dovette gestire una situazione assai complicata, nonostante la tregua tra il papa e il re d'Aragona nel dicembre 1439 avesse ridotto le minacce provenienti dal Sud. Nel marzo 1430 si era conclusa la vicenda del cardinale e condottiero Giovanni Vitelleschi che, sospettato di tradimento ai danni della Chiesa e catturato, era morto in Castel Sant'Angelo. Erano però ancora vivi focolai di rivolta alimentati dai capitani e dai congiunti del cardinale, Bartolomeo Vitelleschi vescovo di Corneto e Pietro Vitelleschi, che controllavano il tesoro del cardinale e soprattutto la rocca di Civitavecchia, anche se la vittoria sulle truppe di N. Piccinino conseguita il 29 giugno 1440 ad Anghiari dai collegati, guidati dal camerlengo e da Francesco Sforza, aveva contribuito a risollevare le fortune del papa e dei suoi alleati in Italia centrale. Pertanto l'I. ricevette dal papa l'esplicito incarico di procedere contro tutti i "delinquenti", sia laici sia ecclesiastici, che ancora si annidavano in Roma e nei dintorni, assistendo in ogni modo il condottiero Antonio da Rio, cui fin dal 1° ag. 1440 erano state date speciali istruzioni che lo autorizzavano anche, in condizioni di particolare gravità e segretezza, ad agire di propria iniziativa senza consultare preventivamente le altre autorità incaricate del governo di Roma.
Anche in questo delicato incarico l'I. dovette dare buona prova di sé, tanto da spingere il papa a rinnovargli la nomina il 19 apr. 1441. Il mandato avrebbe dovuto concludersi il 1° dicembre successivo, ma sulla data dell'effettiva uscita di carica dell'I. esistono alcuni dubbi.
La documentazione conferma che il successore designato, Antonuccio Camponeschi, scelto fin dal 20 aprile, non entrò mai in carica e che il successivo senatore, il senese Francesco Salimbeni, esercitò il mandato a partire dal 21 dic. 1441. Sulla base delle evidenze documentarie Salimei aveva ritenuto che l'I. avesse abbandonato la carica il 31 ottobre, per essere provvisoriamente sostituito da un vicesenatore, Pietro Teballesci di Norcia, che ratificò gli statuti dei merciai il 9 novembre successivo. Tuttavia, un documento dell'Archivio di Stato di Genova rende meno certa questa ricostruzione: il 2 dic. 1441, infatti, il doge Tommaso Fregoso, affiancato dal Consiglio degli anziani e dagli altri officia genovesi, scrisse al papa per ringraziarlo dell'onore che, attraverso la persona dell'I., era stato reso non solo alla sua famiglia, ma a tutta la Comunità di Genova, e anche per pregarlo di voler far sì che, ora che era cessato il suo mandato, non venisse frapposto alcun ulteriore ostacolo a un suo ritorno in patria, dove il governo aveva necessità di avvalersi delle sue sperimentate capacità tanto nella spinosa questione delle controversie con il Marchesato di Finale, quanto nella complessa trama diplomatica della guerra di Napoli. Questa testimonianza porterebbe dunque a pensare che in realtà l'I. abbia condotto regolarmente a termine il proprio secondo mandato in qualità di senatore e che l'eventuale sostituzione da parte del vicesenatore sia stata dovuta solo a una indisponibilità temporanea. Il documento menzionato costituisce anche un'eloquente attestazione del prestigio che le sue qualità di amministratore e diplomatico gli avevano guadagnato all'interno dei circoli dirigenti della madrepatria, oltre a confermare implicitamente la gravità dei problemi che il governo genovese si trovava ad affrontare in quel momento. La difficile situazione nella Riviera di Ponente determinata dall'ostilità del Marchesato di Finale, e soprattutto l'evolversi negativo delle vicende della guerra napoletana nella quale il doge aveva impegnato il proprio prestigio politico e che, dopo il riavvicinamento tra il papa e Alfonso d'Aragona, vedeva Genova sempre più isolata, stavano infatti rapidamente erodendo il consenso popolare verso Tommaso Fregoso. Questi, infatti, nel giro di un anno, dopo il definitivo trionfo di Alfonso sugli Angioini, sarebbe stato costretto a rassegnare il potere nelle mani dei suoi avversari Adorno, che lo tennero lungamente prigioniero.
Questi eventi traumatici non influirono tuttavia sulla carriera politica dell'I., il quale, come il fratello, non doveva essersi connotato come uomo di partito, nonostante la sua evidente vicinanza ai Fregoso. Nel maggio 1445, sotto il dogato di Raffaele Adorno, lo troviamo infatti attestato come membro del Consiglio degli anziani; in tale qualità gli venne affidato l'incarico di dirimere alcune controversie sullo status dei mercanti milanesi, regolato da quella Convencio Lombardorum di cui proprio Andrea Bartolomeo Imperiale era stato uno degli estensori quindici anni prima.
L'equidistanza e la sostanziale neutralità dell'I. fra le due fazioni in lotta per il potere a Genova sono del resto ancora una volta sottolineate dal fatto che nel maggio 1447, dopo il ritorno al potere dei Fregoso, egli non solo fece nuovamente parte del Consiglio degli anziani, ma venne anche chiamato (con Antonio da Zoagli, Tommaso Domoculta e quell'Antonio Lomellino che era stato il suo successore come console di Caffa) a partecipare alla speciale commissione, presieduta personalmente dal doge Giano Fregoso, incaricata di sovrintendere alla riparazione delle mura della fortezza di Portovenere, elemento fondamentale del sistema difensivo genovese nell'estremo Levante ligure.
Questo importante incarico sembra essere stata l'unica carica pubblica rivestita per un lungo periodo dall'I., il quale in seguito appare essersi dedicato principalmente alla gestione dei propri interessi privati, collegati in particolare a quei contatti commerciali con Milano di cui aveva già avuto modo di occuparsi in qualità di ufficiale di governo e che tanta parte avevano avuto e avevano ancora in quel momento nell'attività diplomatica del fratello. Un documento del settembre 1448 ci informa infatti che l'I. si era in precedenza assicurato una consistente quota dell'appalto del commercio del sale con Milano, uno degli investimenti più redditizi nel panorama finanziario genovese dell'epoca; sappiamo che in quest'epoca egli doveva essere già stato scelto per rappresentare a livello ufficiale, in qualità di console dei Lombardi, gli interessi della comunità mercantile lombarda insediata a Genova nei rapporti con le magistrature di governo genovesi.
Queste forti connessioni economiche e personali, oltre ai contatti politici con gli ambienti della metropoli lombarda stabiliti da tempo dal fratello, contribuiscono a spiegare le motivazioni della scelta nel 1460 dell'I., che ormai doveva avere un'età relativamente avanzata, per lo svolgimento di una missione diplomatica a Milano. Il momento era gravissimo: l'insurrezione che aveva condotto alla fine della breve dominazione di Carlo VII di Francia su Genova, iniziata nel 1458, esponeva infatti la città alla minaccia della controffensiva delle forze francesi che andavano concentrandosi in Savona sotto il comando di Renato d'Angiò. In un tale frangente, dopo la fine dell'effimero governo dei capitani di libertà, persino le fazioni Adorno e Fregoso si erano momentaneamente riavvicinate e l'arcivescovo Paolo Fregoso sosteneva, per il momento, il governo del doge Prospero Adorno. Entrambi ritennero che l'unica possibilità di aiuto risiedesse nel duca Francesco Sforza e, considerato che l'I. doveva avere indubbiamente avuto occasione di stringere rapporti con l'allora condottiero della Lega in occasione della sua attività in Roma, la scelta di chiamarlo a partecipare alla missione diplomatica dovette apparire loro come la più naturale. La legazione ebbe pieno successo e, grazie anche agli aiuti provenienti da Milano, aprì la via alla vittoria delle forze genovesi su quelle francesi nella battaglia del Morigallo, alle porte della città, ma il breve periodo di turbolenta indipendenza che ne seguì vide Genova sprofondare ancora una volta nel vortice delle lotte di fazione fino all'atto finale della dedizione allo Sforza nel 1464.
L'I., che non aveva mai accettato di farsi coinvolgere dalle lotte fra i partiti interni alla città, dovette anche in questo caso mantenersi in una posizione defilata. Sulle sue vicende successive non è possibile avere alcuna certezza, in quanto dopo la partecipazione all'ambasceria a Milano non disponiamo più di alcuna testimonianza relativa alla sua persona. Non abbiamo notizia di un suo eventuale matrimonio. È presumibile che la sua morte possa collocarsi proprio in questi anni.
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