Paolo IV
Appartenente ad una delle più antiche famiglie della nobiltà napoletana, Gian Piero Carafa nacque a Capriglia (Avellino), il 28 giugno 1476, da Giovanni Antonio, barone di Sant'Angelo della Scala, e Vittoria Camponeschi. Non senza toni apologetici, i suoi principali biografi, i teatini A. Caracciolo e C. Bromato, narrano di una sua precoce vocazione religiosa, manifestata a soli dodici anni con l'intenzione di entrare nell'Ordine domenicano e a quattordici con la fuga da casa, insieme con la sorella Maria, per realizzare questo desiderio contro la volontà del padre. Questi gli permise comunque di proseguire gli studi teologici, compiuti i quali fu mandato nel 1494 a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica sotto la protezione dello zio, O. Carafa, arcivescovo di Napoli e cardinale, nonché raffinato cultore di lettere e mecenate di artisti, dal quale fu introdotto diciottenne alla Corte di Alessandro VI. Già padrone delle lingue latina, greca, ebraica e di una vasta cultura umanistica e teologica, egli dovette perfezionare i suoi interessi culturali a contatto con l'ambiente che frequentava la casa romana dello zio. Rapide anche le tappe della sua ascesa curiale: cameriere pontificio nel 1500 e protonotario apostolico nel 1503, l'anno seguente diveniva vescovo di Chieti grazie allo zio, anche se della diocesi prese possesso solo nel 1506, a causa dell'ostilità del governo spagnolo nei confronti della sua famiglia, tradizionalmente filoangioina. Se i primi anni trascorsi a Roma furono decisivi per la sua formazione culturale ed ecclesiastica, altrettanto determinanti si rivelarono le successive esperienze diplomatiche ed episcopali. Nel 1506 Giulio II lo inviava infatti a Napoli per rendere omaggio a Ferdinando il Cattolico, alla sua prima visita nel Regno da poco conquistato, e per negoziare il versamento del tributo d'investitura feudale della Corona napoletana alla Santa Sede. Non raggiunto questo obbiettivo, Carafa nel giugno 1507 lasciava la città partenopea per recarsi finalmente a Chieti. Scarse sono le notizie sulla sua attività diocesana negli anni della residenza chietina (1507-1513): sappiamo però che ebbe vivaci contrasti giurisdizionali con i governanti spagnoli e che avviò un'azione di riforma, tra le prime in Italia, culminata in una serie di misure precorritrici del programma riformatore in seguito propugnato come cardinale e pontefice: autoritaria riaffermazione del potere del vescovo, severo disciplinamento dei costumi del clero locale, inflessibile adempimento dei precetti relativi al riposo festivo, al digiuno e alla celebrazione della messa. Quando, all'inizio del 1513, rientrò a Roma per partecipare alle sessioni del V concilio Lateranense, non si trovò dunque impreparato di fronte agli appelli alla riforma della Chiesa e alle aspirazioni di rinnovamento spirituale che da tempo agitavano la cattolicità e che trovarono eco in un'assemblea conciliare pure convocata da Giulio II per motivi esclusivamente politici, ossia per contrapporsi, nel contesto della guerra franco-pontificia, a Luigi XII che nel 1512 aveva riunito lo scismatico concilio di Pisa. Dal 1513 al 1519 fu di nuovo impegnato, praticamente senza interruzioni, in attività diplomatiche, prima in Inghilterra, poi nelle Fiandre e in Spagna. La legazione inglese, affidatagli da Leone X nel 1513, nel quadro dei complessi negoziati tra le corti europee sfociati poi nella pace di Noyon (1516), è da segnalare soprattutto per il pur episodico incontro con Erasmo, che lodò in alcune sue lettere l'erudizione e le qualità religiose del legato. Seguì la Nunziatura in Spagna (1515-1519), preceduta da un breve soggiorno a Bruxelles (forse perché chiamato dalla reggente dei Paesi Bassi, Margherita d'Austria, per patrocinare l'imminente e contrastata successione al trono aragonese-castigliano di Carlo d'Asburgo), dove conobbe il futuro cardinale di Burgos, J. Álvarez de Toledo, cui lo unì una duratura amicizia e, in seguito, una comune scelta religiosamente intransigente, concretatasi nell'attività di membri dell'Inquisizione romana. Giunto in Spagna, fu incluso da Ferdinando il Cattolico tra i consiglieri preposti ai domini italiani e, in questa veste, espresse il suo dissenso circa la scarsa autonomia istituzionale del Regno di Napoli dalla Corona spagnola, in linea con le rivendicazioni autonomistiche dell'Aragona. Il soggiorno spagnolo gli permise di frequentare, insieme con il giurista Tommaso Gazzella, il circolo riformatore del cardinale F. Ximenes de Cisneros e di conoscere Adriano Florisz, il futuro Adriano VI. I già difficili rapporti con la corte, tuttavia, divennero ancor più tesi con l'avvento al trono di Carlo d'Asburgo (1516) e poi per l'iniziale veto pontificio opposto nel 1519 all'elezione imperiale del re spagnolo, cui si sommarono le personali diffidenze del sovrano e del suo entourage nei confronti del nunzio, di cui ben note erano le simpatie francofile. Quando poi Leone X decise di favorire l'Asburgo, l'atteggiamento di Carafa non mutò, tanto da spingerlo a lasciare la Spagna non appena Carlo V fu eletto imperatore, nonostante l'assenso accordato da quest'ultimo alla sua nomina a vescovo di Brindisi, sorta di vano tentativo di riappacificazione, che non sedò i suoi tenaci rancori antispagnoli, perpetuati negli anni seguenti. Nei due primi decenni del secolo, dunque, Carafa ebbe modo di conoscere a fondo la vita curiale, i pregi e i difetti della splendida mondanità del papato rinascimentale, gli ambienti delle più importanti corti europee, maturando, accanto all'esperienza politico-diplomatica, il personale convincimento della necessità di un profondo rinnovamento dell'istituzione ecclesiastica. Fin da allora andò maturando in lui un programma, ancorché abbozzato, che legava la difesa della forza politica dello Stato della Chiesa alla necessità di una riforma ecclesiastica capace di amalgamare istanze di rigenerazione spirituale, spinte caritatevoli, propensioni restauratrici e gerarchiche, impulsi al risanamento delle istituzioni religiose. Suggestioni tutte presenti, anche se in parte ancora operativamente indipendenti l'una dall'altra, nella sua attività del terzo decennio del secolo, quando, abbandonata nel 1519 la Spagna per Napoli (dove si adoperò per ristabilire la Confraternita dei Bianchi, dedita all'assistenza dei condannati a morte) e rientrato poi a Roma, partecipava dal 1520 all'Oratorio del Divino Amore, trapiantato nella città capitolina dall'originaria Genova, dove se ne era fatto promotore il laico E. Vernazza, probabilmente da Carafa già conosciuto in precedenza (benché sia da escludere che avesse collaborato con lui alla fondazione dell'Ospedale degli Incurabili di Roma nel 1513). Oltre a consentirgli una più autentica prassi della pietà cristiana, l'Oratorio gli fornì l'occasione di conoscere i futuri confratelli dell'Ordine teatino (il veneto Gaetano di Thiene, il piemontese Bonifacio da Colle, il romano P. Consiglieri) e una delle personalità di maggior spicco della vita ecclesiastica e politica di quegli anni, il vescovo di Verona, G.M. Giberti. Insufficiente dovette tuttavia apparirgli questa esemplare azione di apostolato solidaristico, in anni in cui cominciava ad avvertire con crescente preoccupazione la pericolosità dello scisma protestante e la conseguente necessità di rispondervi energicamente: emblematica, in questo senso, la sua partecipazione ad una commissione per l'esame di alcune opere di Lutero e alla redazione della bolla di condanna dell'ex agostiniano tedesco (coincidente, secondo la testimonianza del Bromato, con la composizione di un trattato De justificatione, rimasto inedito e finora non reperito). Nella precoce rivendicazione di porre un argine repressivo alla diffusione dell'eresia luterana, si coglie in embrione il suo distacco da altre posizioni riformatrici coltivate nei primi due decenni del secolo in seno al cattolicesimo. Non tanto e non solo da quelle espresse nel celebre Libellus ad Leonem X (1513), composto da due patrizi veneziani, P. Giustiniani e V. Querini, approdati poi all'eremitaggio camaldolese, e ancora contenute nell'alveo di un'indiscussa ortodossia e fiduciosamente volte all'appello a Roma e al pontefice; e neppure da quelle dello stesso Giberti, che pure della sua diocesi veronese fece un luogo d'incontro di aspirazioni e personalità riformatrici sovente permeate da istanze dottrinali contigue alle eresie d'Oltralpe. Piuttosto Carafa, anticipando prospetticamente eventi e scelte successive, sembrava prender le distanze da chi, come il patrizio veneziano e futuro cardinale G. Contarini, univa fin dal 1511 la propria insoddisfazione per le condizioni della Chiesa e della cristianità all'autonoma elaborazione di dottrine analoghe a quelle luterane, in particolare in tema di fede giustificante, senza trarne le necessarie conseguenze ecclesiologiche. Benché avesse allora, e mantenesse poi, rapporti con questi uomini e queste esperienze, condividendone in larga parte la volontà di rinnovamento spirituale ed ecclesiastico (oltre che con Giberti e, come si vedrà, con lo stesso Contarini, non episodiche furono le sue relazioni anche col Giustiniani, conosciuto nel 1513 a Roma e che qui ospitò nel 1527), radicalmente diverso fu il peso attribuito da Carafa al significato storico della cesura luterana per le sorti della Chiesa di Roma. Giudicata l'esito più nocivo della cultura filologica ed umanistica, la Riforma gli apparve subito un evento destinato a minare l'autorità, la coesione e i fondamenti stessi dell'istituzione ecclesiastica. Mentre, insomma, in molti di quegli uomini le istanze riformatrici si riconnettevano spesso alla condivisione di alcuni aspetti dottrinali del luteranesimo, egli ritenne invece di dover difendere strenuamente l'intangibile verità dell'ortodossia del primato pontificio, pur non negando la necessità di correggere il disordine morale del clero e l'innegabile degenerazione delle strutture del clero e della Chiesa. Fu da questa angolazione che, nella prima metà degli anni Venti, maturò in lui l'idea della fondazione di un Ordine religioso, severamente disciplinato, agile strumento di riforma ecclesiastica e, nello stesso tempo, di repressione antiereticale. A favorire una simile scelta intervennero indubbiamente anche le delusioni provate col pontificato di Adriano VI e all'inizio di quello di Clemente VII. Dalle diocesi di Chieti e Brindisi, dove era tornato a stabilirsi, Carafa era stato infatti richiamato a Roma nel 1523 da Adriano VI che, memore del loro incontro in Spagna e a conoscenza della sua già consolidata fama di vescovo riformatore e inflessibile, lo invitò a collaborare all'avviata opera di riforma curiale (corse allora voce di una sua elevazione cardinalizia). Le speranze di rinnovamento andarono però ben presto deluse e non si riaccesero con Clemente VII, politicamente impegnato a costruire un sistema di alleanze antimperiali (col sostegno del Giberti) e solo strumentalmente interessato, in vista del giubileo del 1525, ad uno sforzo rinnovatore cui fu di nuovo chiamato a partecipare Carafa, con l'incarico di esaminare i vescovi consacrandi e di curare l'istruzione religiosa del clero romano. Inappagato da questi fittizi tentativi di riforma, Carafa preferì accettare, nel maggio del 1524, la proposta di Gaetano di Thiene di dar vita alla Congregazione dei Chierici Regolari. Le non poche difficoltà incontrate col pontefice, come sempre nel caso dell'approvazione di nuovi Ordini, nella fattispecie per il voto di assoluta povertà, furono però superate, probabilmente anche in virtù dell'aiuto di J. Sadoleto, di A. von Schönberg e del Giberti, e il 24 giugno, con il breve Exponi nobis, Clemente VII approvava la costituzione dell'Ordine, al quale pochi mesi dopo, alla vigilia della solenne consacrazione (14 settembre), Carafa donava tutti i suoi beni, rinunziando nello stesso tempo ai suoi benefici ecclesiastici e ai due vescovati di Chieti e Brindisi (di cui conservava tuttavia il titolo per volontà pontificia). I Chierici Regolari stabilirono la loro sede a Roma, in Campo Marzio, in una casa (donata da uno dei cofondatori, Bonifacio da Colle) contigua alla chiesa di S. Niccolò, finché Giberti non procurò loro una nuova sede nell'allora disabitato Pincio. L'Ordine, di cui Carafa fu subito eletto superiore (fino al 1527, quando lo divenne Gaetano), detto teatino dal nome latino della sua diocesi chietina ("Teate"), prevedeva un'inedita formula organizzativa, consistente nel riunire in Congregazione dei preti che, pur agendo nel secolo (insegnando, predicando, operando da direttori di coscienze, ecc.), non erano legati ad alcuna particolare osservanza (come il clero regolare) né ad uno specifico territorio (come il clero secolare). Caratteristica peculiare, voluta da Carafa, ne fu la diretta dipendenza dal pontefice (approvata da Clemente VII solo nel 1533) e non, come consuetudine, dal vescovo della diocesi in cui si fossero trovati ad operare; ciò per garantire ai Teatini la più ampia autonomia dai vescovi e quell'assetto centralizzato che Carafa considerava indispensabile e che lo condusse ad opporsi ripetutamente ad un loro eccessivo ampliamento quantitativo e territoriale. Queste prerogative, miranti ad evitare la degenerazione cui storicamente erano andati soggetti gli Ordini religiosi e a forgiare una milizia rigidamente organizzata, selezionata e preparata (dall'Ordine uscirono molti vescovi), se per un verso fecero dei Teatini un modello da imitare per nuovi Ordini fondati successivamente, compresi i Gesuiti, contribuirono per altro verso ad alimentare la satira feroce da cui furono ben presto martellati, diretta a beffeggiarne il vantato rigorismo morale e disciplinare ("chietino" divenne allora sinonimo di santità affettata e fanatico bigottismo). Tre anni dopo la fondazione dei Teatini, i fallimentari esiti della politica antimperiale di Clemente VII conducevano al Sacco di Roma, segnando il traumatico passaggio verso nuove consapevolezze della cristianità e della Chiesa cattolica, i cui stessi vertici trovarono da allora gli stimoli per avviare un pur lento rinnovamento e per reagire alla forza espansiva del luteranesimo, fino ad allora considerato come un problema politico più che religioso. Coinvolto in quel doloroso evento, Carafa subì, ad opera dei lanzi, con i suoi confratelli persino il carcere, riuscendo poi avventurosamente a fuggire e, con l'aiuto dell'ambasciatore veneziano Venier, a raggiungere Venezia nel giugno 1527, stabilendosi con i suoi Teatini nell'oratorio di S. Nicola da Tolentino. Fu proprio negli anni del soggiorno veneziano (1527-1536) che egli ebbe modo di dedicarsi ad un'intensa attività di controllo del clero e della predicazione, di riforma dei monasteri e di salvaguardia dell'ortodossia nei confronti delle minoranze religiose e delle prime esplicite manifestazioni di dissenso ereticale nel Veneto. Nel 1529 Clemente VII lo incaricò di vigilare sulla comunità greca a Venezia; l'anno seguente lo affiancò al Giberti nell'opera di riforma della diocesi veronese, affidandogli nel contempo il procedimento contro il maestro di teologia veneziano G. Galateo, denunciato da Carafa stesso unitamente ad altri francescani conventuali della provincia veneta, come B. Fonzio e A. Pagliarino, della cui riforma il vescovo teatino era stato investito dallo stesso pontefice. Parallelamente si adoperò per mediare alcune controversie politico-giurisdizionali tra Venezia e la Santa Sede e per risolvere i perenni contrasti di confine tra la Repubblica e l'Impero, pur continuando ad occuparsi in prima persona dei Teatini, di cui tornò ad essere superiore dal 1530 al 1533. Temendo una dispersione dell'Ordine per una sua troppo repentina crescita, rimase estremamente prudente sia nell'accettazione di nuovi membri (tanto che a nove anni dalla loro fondazione i Teatini non erano più di ventuno) sia nell'espansione territoriale, opponendosi inizialmente alla decisione pontificia del 1533 di fondare una comunità di Chierici Regolari a Napoli, cui poi acconsentì, facendo così sorgere una delle case teatine destinate a maggior fortuna. Instancabile, sotto la sua carismatica direzione, l'attività dei Teatini in Veneto in questi anni, diretta a raccogliere informazioni sulla diffusione dell'eresia, a cercare di stimolare la propaganda cattolica mediante l'apprendimento diretto dell'arte tipografica o la raccolta di testi ortodossi (personalmente ordinata da Carafa), a combattere il lassismo del clero, considerato una delle principali cause del dilagante favore incontrato dal dissenso ereticale. Un rigorismo che lo condusse a sospettare dell'ortodossia dello stesso Ignazio di Loyola (conosciuto appunto a Venezia), ma che trovò scarso ascolto sia, come era ovvio, nel governo veneziano, tradizionalmente tollerante, sia presso i vertici ecclesiastici e lo stesso Clemente VII. Dal 1533 Carafa trovò certamente un sostegno nel nuovo nunzio a Venezia, G. Aleandro, sensibile ai pericoli insiti nella diffusione dell'eresia nella penisola, anche per la sua precedente esperienza diplomatica in Germania. Quando però, già tornato a Roma da qualche anno, scriveva nel 1539 alla sorella Maria (cui non aveva smesso negli anni di elargire consigli epistolari per la riforma delle Domenicane di Napoli) domandandosi amaramente "cosa è quella che mi possa ritener volentieri in questa vita" (in C. Bromato, II, pp. 40-1), Carafa sembrava esprimere il disincantato bilancio di chi aveva visto larga parte delle proprie aspettative andar deluse. Ancora a Venezia aveva energicamente insistito, fin dal 1532, sui rischi impliciti nell'ignoranza del clero, pericoloso terreno di coltura del dissenso religioso, in un celebre memoriale inviato a Clemente VII, nel quale, ribadendo la dogmatica intangibilità delle dottrine cattolico-romane e l'autoritario primato della Sede apostolica, indicava le condizioni per la ripresa di credibilità e di forza dell'istituzione ecclesiastica: da una parte lotta spietata contro la "peste luterana" e netto rifiuto di ogni accordo con i protestanti (giudicato un modo di "augmentar ogni dì il numero de li heretici"); dall'altra realizzazione di una serie di riforme atte a ridefinire compiti e funzioni della Curia romana, a restituire prestigio ai vescovi e al papato, a istruire il clero, a preparare e selezionare i predicatori e persino a creare un agguerrito ordine religioso di stampo "militare" in difesa della Chiesa. Lamentando ritardi, e persino ambigue accondiscendenze curiali, nei procedimenti a carico degli eretici Galateo, Pagliarino e Fonzio, quest'ultimo riuscito a scampare all'arresto e ritenuto protetto a Roma da influenti personalità (forse in riferimento allusivo al segretario pontificio P. Carnesecchi, poi più volte perseguito e processato dal Sant'Uffizio), Carafa legava indissolubilmente la necessità di reprimere l'eresia all'urgenza di una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche, il cui stato di corruzione, discredito e impotenza reputava la principale causa dell'estensione del dissenso eterodosso, da combattersi di conseguenza non solo tramite la repressione e il controllo dottrinale, ma anche con un progetto di riforme di vasta portata. Un programma ai suoi occhi indifferibile, giacché, come dimostrava soprattutto l'esperienza tedesca, la critica teologica e dottrinale delle élites colte rischiava ovunque di saldarsi alla diffusa insofferenza popolare verso la Chiesa di Roma e di fornire giustificazioni e pretesti alle aggressive politiche ecclesiastiche degli Stati di tutta Europa, pronti a sfruttare ogni occasione per ridimensionare il potere e l'autonomia della gerarchia romana. Carafa stabiliva dunque un nesso tra riforma della Chiesa e lotta all'eresia che coinvolgeva la difesa di tutti gli aspetti del potere pontificio, compreso quello relativo allo "Stato et alle cose temporali", cogliendo nel dissidio dottrinale un primo, pericoloso passo verso quella contestazione dell'ordine sociale e politico che aveva già incendiato molti paesi europei. Di qui una definizione assai ampia del concetto di "eresia", valido non solo per il protestantesimo e per ogni forma di riflessione critica o di deviazione dai valori religiosi ortodossi, ma anche per i comportamenti immorali e la corruzione: gli abusi ecclesiastici andavano così eliminati allo stesso modo e con gli stessi strumenti con cui si dovevano combattere l'erasmismo, la cultura filologica ed umanistica, il luteranesimo, il calvinismo, l'anabattismo. Malgrado questa posizione intransigente, nella seconda metà degli anni Trenta, Carafa non si sottrasse alla collaborazione con i principali esponenti dell'ala più moderata presente ai vertici della Chiesa, favorevole all'apertura di un dialogo col mondo protestante e in grado di guadagnare posizioni allorché Paolo III, all'inizio del suo pontificato, decise di avviare quel rinnovamento istituzionale e morale poi sfociato nella decisione di convocare il concilio. Fu allora (1536) che il pontefice chiamò a Roma gli ecclesiastici più aperti alle prospettive innovatrici (oltre a Carafa e al Giberti, Sadoleto, G. Cortese, F. Fregoso, R. Pole), affidando loro il compito di lavorare alla riforma ecclesiastica e alla preparazione dell'imminente assemblea conciliare, allora convocata a Mantova. Dopo ripetuti dinieghi (ben tre brevi pontifici occorsero per convincerlo ad accettare l'invito), Carafa partiva così il 27 settembre 1536 da Venezia (dove lasciava come vicario dei Teatini G.B. Scotti) alla volta di Roma, dove prese alloggio presso il convento domenicano della Minerva. Alle prime riunioni della commissione di riforma nominata dal papa (novembre 1536) seguì la sua elevazione cardinalizia (il 22 dicembre) e quindi il ritorno della direzione dei Teatini a Gaetano di Thiene, allora preposto della casa napoletana. Da questo momento, e fino ai primi anni Quaranta, nonostante le divergenti opzioni politico-religiose, Carafa sostenne le proposte più radicali di riforma, scontrandosi con gli esponenti curiali circa il cumulo dei benefici vescovili a fianco del cardinale Contarini (gennaio 1537), con cui firmava, accanto agli esponenti delle correnti ireniche (Giberti, Fregoso, Cortese, Badia, Sadoleto e Pole), il documento più significativo uscito dai primi lavori della commissione per la riforma e il concilio, il Consilium de emendanda ecclesia. Pronto alla metà di febbraio del 1537, il Consilium (presentato il 9 marzo al pontefice e in questa occasione letto alla maggior parte dei membri del Sacro Collegio per essere sottoposto alla discussione e quindi redatto in forma definitiva), in molti punti del quale è riconoscibile l'intervento di Carafa, enumerava puntigliosamente tutti i principali abusi ecclesiastici, dal cumulo dei benefici alla non osservanza della residenza dei vescovi, dalle esenzioni e dispense concesse dai tribunali di Curia (deposizione dell'abito religioso, uso abusivo della raccolta delle indulgenze, dispense matrimoniali, assoluzioni di simoniaci, ecc.) alla mancata vigilanza su confessori, predicatori, scuole e stampa di libri. Pur rimasto praticamente disapplicato, il documento elencava per la prima volta, ufficialmente e senza remore, i mali della Chiesa e ne indicava i rimedi in una serie di riforme la cui radicalità non mancò di suscitare la reazione degli ambienti conservatori della Curia, di cui raccolse i risentimenti il cardinale lucchese B. Guidiccioni, pronto a bollare le proposte di quel testo addirittura come "distruzione" della Chiesa. Ciò non impedì la prosecuzione dei lavori per la riforma, che Paolo III, nel Concistoro del 20 aprile 1537, decise di separare da quelli preparatori per il concilio. Nominato membro (con Contarini, Ghinucci e Simonetta) di una commissione incaricata di occuparsi dell'organo finanziario della Curia, la Dataria, cui facevano capo tutte le pratiche relative ai benefici ecclesiastici, Carafa sostenne, contro gli altri due commissari, la linea di riforma radicale contariniana.
Dal 7 gennaio 1538 tornava invece ad occuparsi dei lavori per il concilio, essendo inserito in un'altra commissione creata ad hoc in vista della nuova convocazione dell'assemblea a Vicenza. Successivamente l'aumento dei membri della commissione per la riforma (primavera 1539) ne ampliò i lavori a tutti i tribunali curiali. L'anno seguente, tuttavia, fu evidente che questo pur prolungato sforzo riformatore di Paolo III non aveva prodotto risultati significativi, proprio mentre s'intensificavano gli attacchi contro il corrusco "chietinismo" di Carafa, sintomo palpabile del crescente clima di scontro, giunto nella primavera del 1540 all'aperto conflitto tra Carafa e Contarini, da una parte, e il penitenziere A. Pucci dall'altra; alla fine, tuttavia, il teatino lasciò solo il cardinale veneziano a lottare contro gli abusi della Penitenzieria (pure pesantemente denunciati da Carafa nello scritto del 1532), probabilmente in cambio di un'alleanza con gli esponenti del partito curiale, guadagnati alla linea intransigente di rigida lotta all'eresia da cui Contarini dissentiva. L'ulteriore ampliamento dei membri della commissione (27 agosto 1540), con l'introduzione di R. Pole, D. Laurerio, G.M. del Monte e G. Grimani, e la nuova suddivisione delle competenze per i singoli tribunali (Penitenzieria, Camera apostolica, Rota e Cancelleria), segnò di fatto la dispersione dei lavori. In pochi mesi l'entusiasmo per la riforma cui tanto si era lavorato sembrò scemare: Carafa, malato, non partecipò alle ulteriori sedute della commissione; il Contarini, il 28 gennaio 1541, lasciava Roma per recarsi in Germania, alla Dieta di Ratisbona, e tentarvi l'ultimo possibile accordo dottrinale con i protestanti tedeschi nel quadro della linea conciliatrice da anni perseguita dall'imperatore Carlo V col sostegno dell'ala filoasburgica del Collegio cardinalizio. Proprio i colloqui di religione cattolico-protestanti di Ratisbona, tuttavia, segnarono l'irresistibile divaricazione tra le due linee politico-religiose ormai da tempo coesistenti ai vertici della Chiesa e tenute in equilibrio da Paolo III. Di fronte al conservatorismo curiale, il Carafa aveva infatti trovato un compromesso con il Contarini, nel comune obbiettivo di ottenere concreti risultati per la riforma della Chiesa. Ora però le loro posizioni rivelavano le diverse finalità di fondo cui la riforma ecclesiastica era da ciascuno indirizzata. Per il Carafa essa era infatti diretta a togliere spazio alla fondatezza della critica protestante, a rafforzare gli strumenti di controllo disciplinare del clero, a combattere l'eresia e a rilanciare l'indiscutibile primato del papato e della gerarchia romana; per Contarini invece avrebbe dovuto favorire un compromesso dottrinale con i movimenti d'Oltralpe e, in Italia, con tutte quelle posizioni filoriformate con cui egli stesso continuava a mantenere rapporti e contatti. La frattura divenne appunto inevitabile nel 1541, quando il fallimento dei colloqui ratisbonensi segnò il naufragio di questa politica di moderata apertura di dialogo: a Roma, a disapprovare duramente il testo dell'accordo sulla giustificazione raggiunto a Ratisbona dal Contarini era stata proprio l'ala intransigente capeggiata dal Carafa, allora in grado di sfruttare le crescenti preoccupazioni dei vertici ecclesiastici e dello stesso pontefice per la diffusione dell'eresia in molte città italiane, come Modena, Lucca e soprattutto Napoli, dove l'opera di sottile persuasione eterodossa condotta dall'immigrato spagnolo J. de Valdés aveva influenzato celebri predicatori, come il generale dei Cappuccini e criptoriformato B. Ochino, e illustri cardinali, come R. Pole e G. Morone. Né Carafa e gli intransigenti si limitarono ad opporsi all'accordo; al ritorno del Contarini dalla Germania, infatti, cominciarono a piovere sul suo conto velenose insinuazioni, quando non vere e proprie accuse di luteranesimo, unite all'insistente richiesta carafiana di mezzi straordinari per combattere il dilagare del protestantesimo. Diversi ostacoli, tuttavia, si frapponevano ancora all'introduzione di quei "remedi fortissimi" da lui reclamati fin dal 1532: l'atteggiamento equidistante ancora osservato da Paolo III tra i due schieramenti cardinalizi degli intransigenti e dei moderati; la diffidenza verso l'uso di strumenti repressivi nutrita da non pochi esponenti della burocrazia pontificia, timorosi di veder ridisegnato l'assetto delle gerarchie della Curia romana; infine, i sospetti circa una possibile utilizzazione politica dei nuovi strumenti d'indagine e di intervento, soprattutto a danno di quei prelati appartenenti al "partito" imperiale, notoriamente favorevole all'accordo con i protestanti tedeschi (come appunto Contarini, Pole, Morone), anche se gli intransigenti erano trasversalmente collocati sia nello schieramento filoimperiale, come lo spagnolo Álvarez de Toledo e R. Pio da Carpi, e filofrancese, primo tra tutti proprio il Carafa. Ciononostante, consumata la frattura con il Contarini - le cui posizioni moderate erano proprio allora scavalcate dal radicalismo valdesiano cui, dopo il Pole, approdava il cardinal Morone - il Carafa riusciva ad ottenere da Paolo III, con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542, l'istituzione del tanto invocato tribunale romano del Sant'Uffizio, che centralizzò l'attività delle Inquisizioni locali operanti nella penisola, e a guadagnarne di fatto la direzione, benché le nomine dei sei cardinali inquisitori (oltre al Carafa, Álvarez de Toledo, P.P. Parisio, Guidiccioni, Laurerio e T. Badia) risentissero ancora delle perplessità del pontefice, stante la maggioranza di canonisti (Parisio, Guidiccioni e Laurerio) e la presenza del Badia, mite maestro del Sacro Palazzo. Forte dello strumento inquisitoriale, tra gli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, Carafa poté condurre in porto il suo ormai definito programma di conquista dei vertici ecclesiastici e di opposizione antimperiale. Dal primo punto di vista rimase costantemente presente nelle commissioni per la riforma ecclesiastica e per il concilio, convocato da Paolo III a Trento il 22 maggio del 1542, due mesi prima della riorganizzazione dell'Inquisizione. Il 14 luglio 1542, con D. de Cupis e N. Ridolfi, aveva ricevuto poteri così ampi per l'esecuzione di una bolla di riforma curiale emanata il 12 maggio di quell'anno, da spingere poi il pontefice a limitarli (8 gennaio 1543). Negli anni seguenti poi fu tra i protagonisti dei lavori di riforma curiale, che pur tra mille difficoltà proseguirono a Roma anche dopo la convocazione e le prime riunioni del Tridentino, di cui peraltro tornava ad occuparsi nel novembre del 1544 in qualità di componente della commissione incaricata di predisporre i lavori conciliari, mentre nel 1545 riusciva a conseguire qualche risultato nella riforma della Penitenzieria. Nel contempo fece del Sant'Uffizio un temibile strumento di ricatto e selezione della classe dirigente ecclesiastica. Avviando indagini e raccogliendo documentatissimi dossiers ai danni di prelati, vescovi e cardinali, anche solo lontanamente sospettati di professare dottrine eretiche, l'Inquisizione romana riuscì a bloccare l'ascesa di tutti coloro che si opponevano non solo alla linea intransigente carafiana, ma sovente anche di quegli esponenti del partito filoasburgico che associavano la loro posizione religiosa al pur tramontato irenismo di Carlo V, osteggiando la linea antispagnola e francofila perseguita dal cardinale teatino, resa esplicita nel 1544, quando ebbe parte determinante nella redazione del breve pontificio (del 24 agosto) con cui Paolo III redarguiva duramente l'imperatore per le concessioni fatte ai luterani tedeschi alla Dieta di Spira di quell'anno. Ancor più l'acrimonia antiasburgica di Carafa ebbe modo di manifestarsi nel 1547, quando, ergendosi a referente dell'opposizione del baronaggio napoletano di antica fedeltà angioina, cercò di spingere il pontefice all'occupazione del Regno di Napoli in concomitanza con la rivolta esplosa nella città partenopea contro il tentativo di introdurvi l'Inquisizione spagnola. Altrettanto lampante il suo atteggiamento l'anno seguente, allorché si schierò col partito francofilo che, grazie soprattutto al cardinale J. Du Bellay, lavorava attivamente per ostacolare ogni accordo tra Paolo III e l'imperatore nel quadro del contrasto politico pontificio-imperiale sorto in occasione dell'Interim di Augusta. Di chiaro segno antispagnolo, del resto, fu la sua nomina nel 1549 ad arcivescovo di Napoli, dove il suo vicario, il fedele S. Rebiba, proseguì l'indefessa opera repressiva antivaldesiana già precedentemente avviata dai Teatini. Un insieme di nodi politici e religiosi venuti al pettine alla morte di Paolo III (10 novembre 1549), quando le pressioni politiche di Carlo V resero prossimo al soglio pontificio il più autorevole rappresentante degli Imperiali in seno al Sacro Collegio, il cardinal Pole, i cui trascorsi religiosi e dottrinali, oltre che politici, ne facevano un pericoloso "eretico" agli occhi di Carafa, pronto a bloccarne l'elezione portando in conclave l'abbondante documentazione inquisitoriale puntigliosamente raccolta sul suo conto dal 1542 al 1549. Ma neppure l'elezione (1550) di Giulio III fermò lo zelo inquisitoriale del cardinale teatino, che continuò ad opporre i propri veti ed i propri incartamenti processuali segreti allo stesso volere del nuovo pontefice, ostacolandone nomine e promozioni e giungendo, tra il 1550 e il 1552, ad uno scontro col pontefice in merito al vescovo di Bergamo, V. Soranzo, scarcerato e reintegrato nella dignità vescovile da Giulio III malgrado le prove raccolte a suo carico dagli inquisitori e il suo conseguente arresto. Ancor più eclatante, nel 1552, l'inchiesta intrapresa da Carafa contro il cardinal Morone all'insaputa di Giulio III che, avutane accidentalmente notizia, procedette a bloccarla d'autorità, nascondendo nelle proprie stanze gli incartamenti processuali prodotti dal Sant'Uffizio. Un vero e proprio braccio di ferro che fornì la misura di quanto ormai l'Inquisizione, grazie a Carafa, si fosse arrogata il compito di filtrare e formare la nuova classe dirigente ecclesiastica, dopo decenni di lassismo dottrinale e morale. Tanto che dai conclavi successivi a quello di Giulio III, Carafa poté lavorare con successo a favore dei candidati inquisitoriali: così alla morte di Giulio III, nel 1555, la tiara toccò a Marcello II (M. Cervini) e, dopo il brevissimo pontificato di questi, allo stesso Carafa, che, fallita la candidatura del cardinale di Ferrara, Ippolito d'Este, usciva vittorioso dal conclave (durato dal 15 al 23 maggio 1555) grazie al sostegno del partito francese e avendo sconfitto le rinnovate candidature del Pole e del Morone, contro cui, malgrado l'appoggio degli Imperiali, si riproposero le solite accuse di "eresia", e, per questo, l'avversione degli stessi cardinali filoasburgici membri del Sant'Uffizio.
Eletto così pontefice, a settantanove anni, Carafa assumeva il nome di Paolo IV e subito riprendeva intensa l'attività riformatrice, senza alcuna intenzione di riaprire il concilio, ritenuto inutile e persino controproducente ai fini della riforma ecclesiastica, anche per le defatiganti trattative politiche con gli Stati europei cui era soggetto. I primi provvedimenti (giugno-agosto 1555), concernenti la revisione delle procedure per l'assegnazione delle diocesi e la riforma disciplinare dei conventi e dei monasteri, furono affiancati dall'innalzamento dell'Inquisizione all'inusitata funzione di vero e proprio organo di governo della Chiesa: P., che ne seguiva personalmente i lavori, ne ampliò sia il numero dei componenti (saliti da otto a quindici) sia le competenze, estese alla repressione degli abusi ecclesiastici (come il cumulo dei benefici), precedentemente affidati ad altri tribunali e trasformati ora in reati "ereticali", nonché alla stessa riforma curiale. Rispetto a quest'ultima il pontefice si dichiarò intenzionato a procedere in tempi brevi alla ristrutturazione degli uffici e tribunali della Curia, creando un'apposita Congregazione (tra i cui membri figurava l'allora commissario generale del Sant'Uffizio e futuro Pio V, M. Ghislieri) che, secondo i suoi propositi, avrebbe dovuto funzionare "come un concilio, senza chiamarsi concilio". Si instaurava così, sotto l'egida inquisitoriale, un governo improntato ad una linea di autoritario rinnovamento istituzionale e di rigoroso controllo religioso, dilatato dall'ambito dottrinale fino a quello politico ed amministrativo. Emblematico esempio ne furono sia la costituzione della Congregazione del Terrore degli Ufficiali di Roma, organismo di controllo sull'attività dei funzionari pubblici, sia le aspre disposizioni adottate contro gli ebrei nel 1555, che rovesciarono il tradizionale atteggiamento di cauta tolleranza seguito dal papato verso le comunità ebraiche, dalle cui attività feneratizie la Santa Sede traeva cospicui vantaggi finanziari. Con la bolla Cum nimis absurdum del 14 luglio 1555, P. istituì il ghetto ebraico di Roma, imponendo una serie di obblighi (divieto di possedere beni immobili e di esercitare attività commerciali e professionali, intimazione di vendere ai cristiani le proprietà, di ridurre al 12% l'interesse sui prestiti e di portare un segno distintivo) gravemente lesivi per la vita economica dei gruppi ebraici a tutto vantaggio dei ceti mercantili cattolici. Nell'autunno dello stesso anno intraprese una violenta campagna repressiva contro i marrani (ossia gli ebrei convertiti al cattolicesimo) di origine portoghese da anni attivamente presenti ad Ancona, dove costituivano il nerbo della vita commerciale e dei traffici portuali della città. Tanto importante era qui il loro ruolo economico che Paolo III nel 1547 li aveva esentati dalla giurisdizione del Sant'Uffizio e Giulio III aveva confermato questo privilegio nel 1552 e nel 1553. P., al contrario, nella certezza che gran parte delle conversioni fossero solo apparenti, perseguitò i marrani anconetani con arresti e condanne a morte, al punto da provocare nel luglio del 1556 l'organizzazione da parte delle comunità ebraiche dell'Oriente mediterraneo di un boicottaggio commerciale contro il porto di Ancona, presto rientrato per l'importanza rivestita dalla città negli scambi adriatici. Nel frattempo il pontefice aveva ripreso con veemenza il suo mai dismesso programma antiasburgico, nel quale si condensavano tutte le ragioni religiose e politiche maturate in passato contro l'Impero e la Spagna: la tradizionale ostilità familiare contro la monarchia ispanica, ancora condivisa da una parte consistente del baronaggio napoletano, le cui non del tutto spente velleità indipendentistiche potevano ora trovare un insperato e autorevole punto di raccordo e riferimento a Roma; l'avversione nutrita contro la tentata politica imperiale di conciliazione con i luterani tedeschi, giudicata un incentivo alla diffusione del protestantesimo; la volontà di riaffermare la piena autonomia politica del papato, gravemente compromessa negli anni di Clemente VII e non del tutto ristabilita durante i pontificati di Paolo III e Giulio III, non solo nel contesto europeo, a lungo travagliato dallo scontro franco-asburgico, ma altresì nel quadro dei precari equilibri italiani, ai quali la Francia guardava allora con rinnovato interesse per destabilizzare l'invadente presenza della Spagna, padrona del Regno di Napoli e del Ducato di Milano e protettrice del regime mediceo fiorentino. Riforma ecclesiastica, lotta all'eresia, controllo inquisitoriale, politica antiasburgica venivano così a legarsi indissolubilmente in una compatta visione, alla cui radice stava il rifiuto di qualsiasi divaricazione tra missione spirituale e incombenze temporali della Chiesa, baluardo dei millenari valori della cristianità messi in discussione dai movimenti ereticali e dall'ambigua politica di Carlo V. Del resto il progetto di cacciare dal Sud della penisola gli Spagnoli, pure rafforzati dal matrimonio tra il figlio di Carlo V, Filippo II, e la cattolica regina inglese Maria Tudor (1554), poteva allora far leva su diverse contingenze favorevoli: la necessaria alleata di un simile disegno, la Francia di Enrico II, appariva infatti di nuovo intenzionata, dopo lunghi anni di assenza, a rovesciare gli assetti italiani, sostenendo sia l'opposizione del baronaggio regnicolo e degli esuli napoletani, i quali proprio dalla corte dei Valois avevano instancabilmente perpetuato azioni di disturbo antispagnole nel meridione (persino con il sostegno dei Turchi), sia quella dei fuorusciti antimedicei, la cui tenace resistenza armata ancora impegnava il principale alleato italiano di Carlo V, Cosimo I de' Medici, nella sua guerra di conquista di Siena. Gli uni e gli altri, presto in contatto con P., costituivano una spina nel fianco per Carlo V, che ancora non aveva raggiunto quella pace di Augusta (stipulata però di lì a poco, il 25 settembre del 1555) che avrebbe risolto, per quanto con un compromesso, i suoi problemi tedeschi e alla quale il pontefice non mancò di opporsi duramente. Da parte sua il sovrano francese seppe cogliere gli inequivocabili segni di disponibilità subito manifestati da P., che si affrettò a restituire al defenestrato Ottavio Farnese la titolarità del Ducato parmense (giugno 1555), dimostrando così la sua amicizia per i più potenti alleati della Francia in Italia e la sua gratitudine per il cardinale A. Farnese, il cui ruolo era stato decisivo al conclave e per la stessa formazione del nuovo governo pontificio. Allora ancora francofilo (di lì a poco sarebbe passato al campo imperiale), era stato infatti il Farnese ad organizzare l'arrivo a Roma e ad assegnare posti di rilievo, incarichi curiali e prebende agli esuli antimperiali, fiorentini e napoletani, poi raccoltisi attorno al nipote di P., Carlo Carafa, la cui repentina elevazione cardinalizia (il 7 giugno 1555) non lasciò adito a dubbi circa le intenzioni del pontefice. Uomo d'armi passato dal servizio asburgico a quello francese, già partecipe di azioni e congiure antispagnole e legato agli ambienti del fuoriuscitismo partenopeo e antimediceo, C. Carafa aveva ottenuto la porpora anche in virtù degli intrighi di suo fratello, il conte di Montorio Giovanni Carafa, da sempre filospagnolo e fiducioso di portarlo così sulle sue posizioni, staccandolo dalla Francia. Ben presto, però, C. Carafa esautorò il fratello, concentrando nelle sue mani la direzione del governo temporale (ricevendo tra l'altro la Legazione di Bologna nel 1555 e il governo di Ancona nel 1556). Palesi e immediate, del resto, le manifestazioni d'insofferenza pontificia nei confronti della Spagna al momento del delicato trapasso della Corona iberica da Carlo V al figlio Filippo II e, per l'Impero, al fratello Ferdinando I, contro la cui legittimità P. elevò subito e mantenne la sua protesta, considerando la sua elezione imperiale, avvenuta nel 1558, invalidata dalla partecipazione dei principi elettori protestanti. Pretesto iniziale, e artificioso, dei contrasti ispano-pontifici fu un incidente occorso a causa di due galere francesi di cui si erano impadroniti gli Imperiali e subito sequestrate nel porto di Civitavecchia, da cui ripartirono ignorando il divieto di salpare imposto dal papa. Il segretario del filoimperiale cardinale G.A. Sforza di Santa Fiora, G.F. Lottini, che aveva intrigato per far allontanare le due navi, venne arrestato il 10 agosto 1555. Così innescata, la tensione crebbe avvitandosi in una spirale presto sfociata nello scontro aperto. Ai primi provvedimenti pontifici contro gli spagnoli presenti a Roma, infatti, i grandi baroni romani legati agli Asburgo, con in testa la potente famiglia baronale dei Colonna, reagirono immediatamente, riunendosi insieme con i rappresentanti del re spagnolo e dicendosi in quell'occasione pronti a sollevarsi contro il pontefice. Mentre il cardinale C. Carafa cominciava già a mobilitare l'esercito pontificio ed Enrico II si affrettava ad offrire il suo sostegno a P., i Colonna e gli Orsini presero a fortificare i loro feudi, rispettivamente di Paliano e Bracciano. Si diffondevano intanto le voci di una guerra imminente e di una lega pontificio-francese, in effetti già ventilata in agosto dal cardinal nipote all'inviato francese a Roma, L. de Lanssac, con la possibile partecipazione della Repubblica di Venezia. Il 30 e 31 agosto P. procedeva all'arresto del cardinale Sforza e di C. Colonna (rivelatosi tra i più facinorosi ed ostili al pontefice), mentre, al contrario degli Orsini che ottemperarono all'ordine pontificio di consegnare la fortezza di Bracciano, M. Colonna, cui Filippo II assegnò il comando di alcune milizie, fuggiva tempestivamente da Roma rifugiandosi nel dominio di Paliano, ben presto occupato da truppe papali per l'importanza strategica che rivestiva nel controllo dell'area compresa tra Roma e i confini meridionali dello Stato della Chiesa. Proprio qui gli Spagnoli andavano ammassando le loro truppe, quando in settembre veniva inviato in Francia il segretario di C. Carafa, A. Rucellai, per trattare una lega cui avrebbero dovuto aderire anche Ferrara e Venezia. Inutile, a questo punto, la restituzione delle due navi che avevano fornito il pretesto del contrasto (e superflua anche la contemporanea liberazione del cardinale Sforza e di C. Colonna), le cui ragioni di fondo permanevano tutte. Ché anzi, la rinnovata minaccia a nord di Cosimo I de' Medici, la diffusione ad arte di voci di attentati imperiali contro la persona del papa, la pressione in favore della guerra esercitata dagli influenti ambienti curiali dominati dagli esuli antispagnoli e i falliti tentativi di mediazione diplomatica di una commissione cardinalizia appositamente nominata da P. (nell'ottobre 1555) sembravano ormai rendere inevitabile un confronto militare che avrebbe sicuramente coinvolto la Francia, finalmente nel dicembre del 1555 unita allo Stato della Chiesa da un trattato di alleanza segreto (noto, tuttavia, alla diplomazia asburgica). Proprio allora, però, i piani pontifici vennero scompaginati dalla tregua quinquennale stipulata a Vaucelles (il 5 febbraio 1556) tra Carlo V ed Enrico II. In realtà, consapevole che questa provvisoria pacificazione, lasciando ancora in mano ai Francesi la Savoia, il Piemonte e la Corsica, non poteva essere definitiva, P. continuò a pressare diplomaticamente il sovrano francese e intensificò la sua azione contro i Colonna, colpendo i principali esponenti della famiglia con una sentenza di condanna in contumacia che li scomunicava e toglieva loro tutti i possedimenti (4 maggio 1556), compreso Paliano, conferito in ducato al conte di Montorio, G. Carafa. Proprio in questi frangenti P. riprese e diffuse strumentalmente l'ipotesi di una riapertura del concilio, nei fatti mai resa esecutiva, accompagnandola con una vasta azione diplomatica tesa in effetti a rompere la tregua franco-imperiale che rischiava di far fallire i progetti di guerra antispagnola. Dichiarandosi improvvisamente ed inaspettatamente disposto a riprendere le sedute conciliari e ad aprire una trattativa in merito con le corti europee, con tanto di missioni in Francia del nipote C. Carafa (maggio 1556) e presso la corte imperiale del fedele cardinale Rebiba (aprile 1556), P. puntava a guadagnar tempo e a coprire la sua reale politica, il cui obbiettivo era di tranquillizzare Filippo II dando nel contempo respiro al tentativo di riguadagnare Enrico II, malgrado la tregua di Vaucelles, alla ripresa della guerra antiasburgica in Italia. Questo era, in realtà, il vero scopo della missione del nipote alla corte francese, secondo quanto lo stesso pontefice aveva inequivocabilmente confessato all'ambasciatore veneziano a Roma, B. Navagero ("Diceva il papa, che queste tregue sarebbero la rovina del mondo, se non succedeva la pace; la quale esso voleva ad ogni modo introdurre tra questi due prìncipi, per aver occasione con quel pretesto di mandare il cardinal suo nipote in Francia per disturbarla": B. Navagero, Relazione di Roma, p. 392). Difficile però sarebbe stato per il cardinal Carafa in Francia, e ancor più per il Rebiba alla corte asburgica, sostenere credibilmente la causa del concilio mentre a Roma proseguivano i lavori della Congregazione per la Riforma, alla cui assemblea plenaria dell'11 marzo 1556 P. aveva ribadito il concetto che essa era "speciem concilii generalis". Fu dunque per ragioni politico-diplomatiche che, dalla primavera del 1556, questa Congregazione rallentò bruscamente i propri lavori, fino ad estinguersi, e che l'intera azione riformatrice pontificia subì una battuta d'arresto in concomitanza con l'ormai prossima apertura del conflitto con la Spagna. All'interruzione di questa attività riformatrice corrispose d'altra parte la recrudescenza delle azioni repressive contro gli Spagnoli a Roma, con gli arresti, sapientemente organizzati in luglio, del maestro delle poste imperiali, A. de Tassis, e dell'agente spagnolo G. de la Vega, proprio mentre, nello stesso mese, veniva revocata la legazione del Rebiba e notizie allarmanti erano trasmesse al cardinal Carafa in Francia circa i perduranti preparativi militari dei Colonna e degli Spagnoli ai confini dello Stato della Chiesa. Portando ad un punto limite la tensione, il pontefice facilitava dunque l'effettiva missione diplomatica del nipote, impegnato a persuadere Enrico II ad intervenire per proteggere i minacciati diritti della Santa Sede. Inutili si rivelarono allora i tentativi da tempo messi in atto dagli esponenti filoasburgici del Collegio cardinalizio, e anzitutto dal Pole e dal Morone, per giungere ad una mediazione tra il papa e Filippo II; tentativi che il Pole aveva visto in parte coronati proprio dalla conclusione della tregua di Vaucelles, cui aveva attivamente contribuito dalla legazione inglese (affidatagli da Giulio III nel 1554 per seguire la restaurazione cattolica inglese sotto Maria Tudor), e che, per intervento del cardinale di Trento, il filoasburgico C. Madruzzo, e dello stesso Morone, condussero alla profferta fatta a C. Carafa di ottenere per la famiglia il possesso di Siena, cui mirava da tempo, in cambio della restituzione di Paliano ai Colonna. Ma proprio quando, nel settembre del 1556, al suo ritorno dalla Francia, il cardinal nipote si disse disponibile a questo scambio, Filippo II decideva di inviare una spedizione dal Regno di Napoli per recuperare i domini dei Colonna, da sempre fedeli strumenti della penetrazione imperiale nello Stato della Chiesa. Sicché, all'inizio di quel mese, le truppe comandate dal viceré di Napoli, il duca d'Alba F. Álvarez de Toledo, invadevano le terre ecclesiastiche, giungendo a conquistare rapidamente gran parte della campagna romana (ad eccezione però di Paliano e Velletri) e il 18 a far cadere anche Ostia. La divergenza d'intenti che in queste delicatissime circostanze si registrò tra il pontefice, intenzionato a proseguire la guerra ad ogni costo, e il nipote, pronto a trattare con gli Spagnoli in vista dell'acquisto di Siena, influì negativamente sui successivi sviluppi bellici e politici, già poco prima modificati dal passaggio del duca di Parma, O. Farnese, dal campo francese e dall'alleanza col pontefice a quella con la Spagna nell'intento di recuperare Piacenza. Mentre infatti C. Carafa, tra l'ottobre e il novembre, con l'invasione spagnola ancora in corso, apriva i negoziati con il vecchio antagonista cardinale Sforza, e poi con la stessa corte spagnola, P. giungeva al punto di proibirgli di effettuare l'incontro già predisposto con il duca d'Alba a Grottaferrata, incalzando personalmente gli ambasciatori francesi per ottenere da Enrico II il promesso intervento militare, favorito in ciò dalla rovinosa conquista di Anagni da parte delle truppe spagnole, che diffuse a Roma il terrore di un nuovo sacco della città. Pur costretto ad un breve armistizio (tregua di Ostia del novembre 1556), dunque, il pontefice riusciva pochi mesi dopo a riaprire le ostilità, rifiutando persino di ricevere gli agenti diplomatici inviati dalla Spagna per intavolare le trattative di pace e riuscendo quindi ad assicurarsi, nel gennaio 1557, il tanto richiesto aiuto militare del sovrano francese, le cui milizie, guidate da Francesco di Guisa, giungevano ai primi di marzo di quell'anno. Proprio allora riprendeva intensa l'attività dell'Inquisizione romana, che il pontefice, sfruttando l'alleanza con Enrico II, aveva invano cercato di introdurre anche in Francia, scontrandosi con la decisa opposizione del Parlamento parigino. Il Sant'Uffizio tornava allora sollecitamente a dirigersi contro gli esponenti più in vista del dissenso religioso coagulatosi attorno al valdesianesimo e, anzitutto, contro i cardinali Pole e Morone. Il 31 maggio del 1557, nel pieno dunque dello scontro politico e bellico con la Spagna, il cardinale Morone veniva arrestato su ordine del Sant'Uffizio, che sembrava così voler chiudere definitivamente i conti, politici e religiosi, con il più illustre rappresentante ai vertici della Chiesa della corrente filoasburgica sostenitrice nel recente passato della linea conciliante tentata da Carlo V con i protestanti tedeschi. Con questo arresto, deciso al termine di un processo inquisitoriale avviato fin dal maggio del 1555, subito dopo l'elezione di P. (e dopo anni e anni di paziente raccolta di dossiers, testimonianze e prove da parte dell'Inquisizione a carico del porporato, come del Pole), e opportunamente deciso al culmine della guerra, il pontefice scatenava un attacco simultaneo e a tutto campo contro l'opposizione filoimperiale al suo pontificato e contro le più pericolose punte del dissenso dottrinale interno ai vertici ecclesiastici. Oltretutto le carte processuali relative al Morone, fittissime di testimonianze, fornivano al Sant'Uffizio preziose notizie circa i contenuti, i tempi e le forme della propagazione dell'eterodossia in Italia, i canali di trasmissione, l'identificazione di persone, circostanze e luoghi, la circolazione di testi più o meno clandestini, le complicità, offrendo la possibilità di una ricostruzione retrospettiva della nascita e degli sviluppi dell'"eresia" italiana, tendenziosamente legata, nel drammatico contesto dello scontro pontificio-spagnolo, alla politica asburgica, ritenuta dal pontefice storicamente responsabile in tutta Europa della perniciosa diffusione del protestantesimo. Poterono così essere inaugurati ex novo una gran quantità di processi inquisitoriali e riaperti quelli già avviati negli anni precedenti: contro il fiorentino protonotario apostolico Carnesecchi, già segretario di Clemente VII (prudentemente rimasto a Venezia), contro il vescovo di Otranto P.A. di Capua, il vescovo di Cava G.T. Sanfelice, il vescovo di Bergamo V. Soranzo, il vescovo di Cheronissos G.F. Verdura, il vescovo di Modena E. Foscarari, il cavaliere pugliese M. Galeota, il nobile siciliano B. Spadafora, l'abate napoletano A. Villamarino e tanti altri, diretti in particolare contro i circoli valdesiani del Regno di Napoli, dove l'Inquisizione aveva reintrodotto il 20 luglio 1556 la confisca dei beni degli eretici precedentemente revocata da Giulio III.
Solo il Pole scampava allora al processo e alla già predisposta detenzione, disobbedendo ripetutamente agli ordini di P. di tornare da Londra a Roma. Più tardi, tuttavia, la sorte del porporato inglese sembrò segnata, in seguito alla scomparsa di Maria Tudor (17 novembre 1558) che, togliendogli la protezione della Corona inglese, lo avrebbe destinato ad un rientro in tutto e per tutto simile ad un'estradizione, se la morte, poche ore dopo quella della Tudor, salutata e quasi invocata dagli amici, non lo avesse sottratto ad un destino analogo a quello del Morone. Ma, mentre perseguiva molti dei processati e degli arrestati nella duplice veste di dissidenti religiosi ed esponenti politici filoasburgici (tanto da sottoporre al Sant'Uffizio anche lo scontro con Filippo II), P. derogava al proprio rigore inquisitoriale con i suoi alleati o collaboratori politici. È significativo che fin dal 1555 un filoriformato come l'esule fiorentino A. Brucioli, allorché subiva il secondo dei suoi processi inquisitoriali dinanzi alla sede veneziana del tribunale, potesse rallegrarsi dell'elevazione al soglio pontificio di P., scrivendone a C. Carafa, esortato a riprendere la lotta contro la Spagna. Brucioli in quell'occasione ricordava al cardinal nipote le comuni frequentazioni avute in passato con gli esponenti del dissenso antimperiale ed antimediceo, primo fra tutti il capo indiscusso del fuoriuscitismo antimediceo, P. Strozzi, che svolse indisturbato un rilevante ruolo politico-militare al servizio di P. nonostante le accuse di eterodossia e persino di "ateismo" riportate sul suo conto al pontefice. In altri e altrettanto significativi casi le ragioni della politica ebbero la meglio sull'intransigenza inquisitoriale di P.: così fu per il duca di Ferrara, Ercole d'Este, suo alleato nella guerra antispagnola, la cui consorte Renata di Francia vide arenarsi il processo per eresia avviato dal Sant'Uffizio appena un anno prima dall'elevazione carafiana al soglio pontificio; per il principe di Salerno, F. Sanseverino, esule dal Regno di Napoli in seguito alla rivolta del 1547 e rifugiatosi in Francia, le cui propensioni filoprotestanti (approdate poi all'adesione al calvinismo) non gli impedirono di giungere a Roma nell'estate del 1557, insieme con lo Strozzi, per cooperare all'azione militare contro la Spagna; per uno stretto collaboratore del pontefice come il conte C. Orsini, del quale le simpatie valdesiane erano talmente note da spingere allora Carnesecchi a meravigliarsi della sua collaborazione con P., che soltanto dopo la morte dell'Orsini (1559) avviava contro di lui un procedimento inquisitoriale postumo; per il protestante marchese Alberto di Brandeburgo, con il quale la Santa Sede apriva trattative per un'alleanza antiasburgica dispensando in cambio concessioni religiose per il suo Stato. A fronte, dunque, di questa politicamente interessata flessibilità inquisitoriale nei confronti degli avversari della Spagna, P. utilizzava invece il Sant'Uffizio per colpire il fronte filoasburgico, pericolosamente giunto, dal settembre del 1556, a divaricare gli interessi strategici del pontefice da quelli nepotistici dei suoi familiari. Una divergenza che non fu ricomposta neppure dopo l'arrivo delle truppe francesi, quando il cardinale C. Carafa, pur piegandosi allo stato di guerra in atto, avrebbe preferito dirigere l'attacco verso la Toscana per conquistare Siena, mentre il pontefice aveva voluto indirizzarlo contro il Napoletano; e quando alla fine prevalse l'opinione di P., il ritardo provocato da queste divisioni consentì all'esercito spagnolo di respingere l'assalto di quello francese, duramente sconfitto presso Paliano (27 luglio 1557), e di minacciare la stessa Roma. Al fallimentare andamento della guerra nello Stato della Chiesa venne poi ad aggiungersi quello ancor meno favorevole nel Nord Europa: qui infatti la Francia, che aveva riaperto il fronte della guerra nei Paesi Bassi, subiva nell'Artois, a San Quintino (10 agosto 1557), ad opera delle truppe spagnole comandate da Emanuele Filiberto di Savoia, una cocente disfatta che sembrò dare definitivamente la palma della vittoria alla Spagna, ancora forte del sostegno dell'Inghilterra. Un contesto interno ed internazionale, politico e militare, che obbligò P. ad accettare la rapida conclusione della pace con il duca d'Alba, stipulata a Cave il 14 settembre del 1557 con un duplice trattato: uno, pubblico, che sanciva lo scioglimento della lega antispagnola e la revoca delle scomuniche contro i Colonna in cambio della restituzione dei territori occupati dagli Spagnoli; e l'altro, segreto (ma noto a P., che finse tuttavia di esserne all'oscuro), che stabiliva di dare Paliano ad una persona non ostile al pontefice, ma scelta da Filippo II, previo risarcimento del conte di Montorio, G. Carafa, che avrebbe però riacquisito definitivamente il dominio qualora il re spagnolo non avesse deciso entro sei mesi (di fatto Paliano tornò poi ai Colonna). L'esito politicamente disastroso della guerra fu aggravato dalle sue negative ripercussioni economico-finanziarie. L'impoverimento delle terre, causato dalle devastazioni belliche, ridusse la capacità contributiva delle campagne proprio quando queste erano sottoposte ad una forte pressione fiscale determinata esattamente dalle esigenze finanziarie imposte dal conflitto. Per sovvenzionare il non indifferente sforzo militare, P. aveva infatti già rinnovato per nove anni, nel giugno del 1555, l'imposta sulla carne, poi la vigesima sulle proprietà ebraiche, quindi nel 1556 la tassa sui cavalli e, l'anno seguente, aveva introdotto un'imposta su tutte le proprietà laiche ed ecclesiastiche dello Stato della Chiesa. Massiccio era stato anche il ricorso al debito pubblico, con l'istituzione nel 1555 del Monte novennale (prestito con interesse dell'8%, garantito sulle entrate della tassa sulla carne) e, nel 1557, del Monte di Allumiere (prestito con interesse del 12%, pagato con gli introiti delle miniere di allume di Tolfa), del Monte di tesoreria di Perugia (prestito con interesse del 12%, poi ridotto al 10%) e del Monte Bologna (prestito con interesse all'8%, i cui frutti furono ripartiti tra la Camera apostolica e la municipalità bolognese). Né queste misure finanziarie, né altre, come la confisca nel 1555 dei beni di B. del Monte (fratello del defunto Giulio III), servirono tuttavia a riaggiustare il dissestato bilancio statale. Ma la severa politica di esazione fiscale, oltre che effetto contingente della guerra, fu un aspetto della lotta tentata dal pontefice contro la grande nobiltà romana, coerente alla tradizione del governo pontificio di assoggettamento delle autonomie feudali e chiaramente manifestata fin dall'inizio del suo pontificato, quando la bolla Iniunctum nobis desuper (14 luglio 1555) aveva invalidato le alienazioni delle proprietà ecclesiastiche, ordinandone l'immediata restituzione alla Chiesa e avviando di conseguenza un contrasto con i nobili appropriatisi di quei beni. Anche questo atteggiamento era stato all'origine dello scontro con i Colonna, benché l'azione antifeudale fosse stata poi pesantemente condizionata dalle scelte politiche pontificie, sicché duramente colpite erano state le baronie feudali, come appunto i Colonna, appartenenti allo schieramento filoasburgico e salvaguardate quelle filofrancesi o comunque fedeli al papato (come ad esempio i Caetani). Se, dunque, con un bilancio tutt'altro che positivo si chiudeva il tentativo di rilanciare la forza politica dello Stato della Chiesa sia all'interno, sia nel contesto italiano ed europeo, P. poté tuttavia dal 1557 riprendere intensamente l'opera riformatrice interrotta in occasione del conflitto. Così, dalla conclusione della pace di Cave alla sua morte, senza ormai dover più pensare, neppure strumentalmente, alla possibilità di riconvocare il concilio, il pontefice, ora coadiuvato da una commissione ristretta composta da pochi cardinali, adottò senza soluzione di continuità un insieme di severe misure riformatrici, concentrate soprattutto sull'episcopato, sulla riforma del clero secolare e regolare, sulla Penitenzieria, sui benefici e sulla regolamentazione della vendita degli uffici curiali, determinando oltretutto con queste ultime una grave diminuzione delle entrate della Dataria, con negative ripercussioni sulle già critiche finanze papali. Né venne meno il suo rigore inquisitoriale e censorio, che ora, libero dalle ipoteche delle alleanze politiche, poteva manifestarsi a tutto tondo, col solo limite dei debiti di riconoscenza accumulati verso non pochi esponenti del dissenso religioso a lui politicamente vicini. Particolare rilievo e scalpore, per l'implicito ampio potere d'intervento che davano al Sant'Uffizio, suscitarono i provvedimenti discussi per regolamentare l'accesso al papato, sfociati il 15 febbraio 1559 nella bolla Cum ex apostolatus officio, che giungeva a dichiarare nulla l'elezione pontificia di chiunque avesse precedentemente deviato seppur minimamente dall'ortodossia e persino a privare dei diritti in conclave i cardinali soltanto sospettati di simpatie eterodosse. Ancor più rilevante, per la sua risonanza internazionale, fu l'emanazione del primo Indice dei libri proibiti, che seguiva fedelmente le raccomandazioni a suo tempo avanzate dal pontefice circa la necessità di controllare la produzione e la circolazione della stampa nel suo scritto del 1532 a Clemente VII. Con questa decisione P. rese ufficiale ed operativamente efficace l'antichissima tradizione del controllo dottrinale, politico e morale sulla produzione letteraria, i cui precedenti in Età moderna erano stati gli Indici della facoltà di teologia dell'Università parigina della Sorbona (del 1544, 1545, 1547, 1549, 1551 e 1556), della facoltà teologica di Lovanio (1546, 1550 e 1552), delle Inquisizioni portoghese (1547, 1551, 1559, 1561) e spagnola (1551, 1559) e, in Italia, dopo la normativa (del 1515) del V concilio Lateranense sulla censura dei testi a stampa, rimasta peraltro disattesa, dall'Indice emanato nel maggio del 1549 a Venezia dal locale nunzio pontificio e celebre letterato G. della Casa (non coperto dal crisma dell'ufficialità romana), poi riedito nel 1554 a Venezia e a Milano a cura dagli inquisitori locali. Già l'Indice dellacasiano, anche per la fama letteraria del suo autore, aveva provocato un clamore fragoroso, pur consistendo in una sorta di foglio volante, di appena sei pagine, che condannava genericamente i padri della Riforma, i primi dissidenti italiani che avevano ormai scelto la via dell'esilio (Ochino, P.M. Vermigli, C.S. Curione, ecc.), i testi più noti della produzione di area valdesiana (dal Beneficio di Cristo all'Alfabeto cristiano di Valdés), i classici della polemistica antiecclesiastica (come i testi di Marsilio da Padova e le opere di autori coevi presenti in Italia, quali Bernardino Tomitano). Un'impressione ovviamente maggiore suscitò la ben più ragionata e censoriamente devastante iniziativa presa da P. con l'Indice romano, redatto da una commissione composta esclusivamente da membri del Sant'Uffizio e presieduta dal cardinale Ghislieri. Compilato nel settembre del 1557 e stampato nel dicembre dello stesso anno, l'Indice non fu però approvato dal pontefice e ne venne perciò preparata una nuova stesura, ancora affidata all'Inquisizione, che il 30 dicembre 1558 lo promulgava con un proprio decreto e lo pubblicava l'anno seguente. Il rigore estremo, indiscriminato e talvolta persino grossolano con cui questo primo Indice romano dei libri proibiti falciava senza distinzioni e con impeto distruttivo gran parte della cultura europea derivava sia dalla circostanza che per la prima volta la Chiesa metteva ufficialmente in cantiere un'operazione di repressione culturale di portata tanto vasta, sia dal fatto che la redazione era stata affidata al Sant'Uffizio (caso unico, non più verificatosi per gli Indici successivi), sia infine dalla convinzione che l'ormai ventennale penetrazione dell'eresia potesse essere fermata soltanto tramite provvedimenti censori drastici, diretti semplicemente ed aprioristicamente ad eliminare tutti i testi eterodossi o solo sospetti, inclusi quelli considerati soltanto immorali, tra i quali cadevano le stesse opere del della Casa, pure fedele collaboratore politico del pontefice al momento dello scontro con la Spagna. L'Indice distingueva tre categorie di libri, ciascuna ordinata alfabeticamente: quelli di autori che combattevano consapevolmente o si discostavano con continuità dall'ortodossia, di cui venivano proibite in blocco tutte le opere, che trattassero o meno di argomenti di fede; quelli di autori che talvolta cadevano nell'eresia e altre volte in altri tipi di errori (come ad esempio la magia), di cui si censuravano solo alcuni testi; e infine tutti quei libri già composti o in futuro firmati da eretici conclamati o stampati sotto il loro nome, tutti gli scritti comparsi negli ultimi quarant'anni senza indicazione dell'autore, dell'editore, della data o del luogo di edizione, anche se non concernenti argomenti religiosi, e tutti i volumi in futuro pubblicati senza licenza ecclesiastica. In base a questi dettami era incorsa nelle censure dell'Indice non solo la letteratura religiosa protestante e filoriformata, ma anche (e indipendentemente dai contenuti) la migliore cultura umanistica e rinascimentale europea, dal Decamerone di Boccaccio all'intera produzione letteraria di Erasmo, da alcune opere di Savonarola (su cui P. aveva nel 1558 riaperto il processo, non senza provocare imbarazzate difese tra i Domenicani, cui apparteneva lo stesso inquisitore Ghislieri) a quelle di Machiavelli, secondo il criterio tipico dell'intransigenza carafiana per il quale l'uso della critica storico-filologica introdotto dall'Umanesimo aveva costituito il cavallo di Troia della contestazione delle verità di fede e aperto così la strada all'eresia. Criteri analoghi avevano del resto dettato la compilazione di un'appendice all'Indice in cui si proibivano la stampa, il possesso e la lettura di una serie di edizioni della Bibbia in latino e di tutte le edizioni del Nuovo Testamento nelle varie lingue nazionali (che nei decenni passati avevano incontrato ampi successi, ma anche aspre censure locali, in quasi tutti i paesi europei) senza speciale licenza del Sant'Uffizio. Le proteste di moltissimi stampatori e librai, le difficoltà di dar esecuzione da parte degli inquisitori locali ad un Indice così drasticamente formulato, la disapplicazione cui andò incontro, non solo in Francia ma anche nella cattolicissima Spagna (dove l'inquisitore Fernando Valdés emanò nel 1559 un proprio Indice dei libri proibiti), indussero il Sant'Uffizio a stampare nello stesso 1559 un'Istruzione circa l'Indice con la quale si cercò di mitigare parzialmente il precedente furore censorio e di fornire più precise direttive agli inquisitori locali, senza però modificare la sostanza di uno strumento repressivo reso dalla sua stessa draconiana intolleranza pressoché inutilizzabile. Mentre si dedicava a tanta ferrea intransigenza, P. non mancò di far pagare ai nipoti le conseguenze della loro fallimentare gestione della politica antiasburgica. Nessuna remora nepotistica, tantomeno ormai, "post res perditas", come prezzo da pagare alla politica antispagnola, irretì la sua azione in questo senso, avendo verificato l'impossibilità sia di far guadagnare alla famiglia una signoria nello Stato ecclesiastico, sia di estenderne i feudi nel Regno di Napoli (dopo il fallimento della missione di C. Carafa a Bruxelles all'indomani della pace di Cave - dicembre 1557-aprile 1558 - per ottenere da Filippo II il Ducato di Bari), sia, infine, di procedere allo scambio del ventilato possesso di Siena con quello di Lucca ancora tentato dal cardinal nipote. Sicché, raccolte le accuse lanciate dai Teatini contro la vita licenziosa e mondana condotta da quest'ultimo e dal conte di Montorio suo fratello, il pontefice, nel Concistoro del 27 gennaio 1559, privò il primo delle funzioni di governo e il secondo di quelle di capitano generale della Chiesa, esiliandoli entrambi da Roma e consegnando l'intera direzione degli affari temporali ad un organo collegiale, il Sacro Consiglio di Stato, presieduto da C. Orsini (valdesiano!) e composto da inquisitori e fedeli teatini (alla morte dell'Orsini, in aprile, il governo passò gradualmente nelle mani di A. Carafa, l'unico tra i nipoti scampato alla disgrazia). L'opera di severo riordinamento amministrativo intrapresa dal Sacro Consiglio dal febbraio al marzo 1559 (con una serie di aspre misure fiscali, annonarie e finanziarie, riorganizzazione dei comandi dell'esercito, arresto e sostituzione a Roma e nelle province dei governatori, giudici e commissari nominati da C. Carafa, creazione di un'apposita commissione per l'accoglimento dei ricorsi di chi si riteneva leso dai nipoti del papa) fu però bruscamente interrotta dalla morte di P., scomparso dopo una lunga malattia il 18 agosto 1559. Quello stesso giorno il popolo di Roma, oppresso da quattro interminabili anni di cupo rigore inquisitoriale, esplose in un tumulto che vide la folla mutilare la statua del pontefice in Campidoglio, trascinata per le strade e gettata nel Tevere, ed ebbe come bersaglio la sede dell'Inquisizione romana, allora al convento domenicano di S. Maria sopra Minerva, dove furono aggrediti e feriti non pochi frati domenicani, fatti fuggire i prigionieri e il palazzo incendiato, mentre satire e pasquinate beffeggiavano il papa e la "vile e scelarata setta" del "carafesco seme", "fin dal ciel negletta".
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