MANUZIO, Paolo
Nacque a Venezia il 12 giugno 1512 da Aldo il Vecchio e da Maria Torresano, figlia di Andrea socio di Aldo.
Il M. trascorse l'infanzia con la madre e i fratelli Manuzio e Antonio ad Asola, dove ebbe come maestro di retorica S. Piazzone. Adolescente, fu a Venezia per brevi soggiorni, ospite dal 1524 di Andrea Torresano a S. Paternian, dove aveva sede la stamperia aldina. Alla morte di Andrea, nel 1529, fece domanda per entrare nella Cancelleria della Repubblica, ma fu rifiutato a causa dell'origine non veneziana del padre. Quando, nel 1536, anche Maria Torresano morì, il trasferimento presso la famiglia materna fu definitivo, sebbene alcune testimonianze epistolari suggeriscano che, a causa di ripetute liti con gli zii, il M. decidesse di abbandonare la scomoda coabitazione per trasferirsi in casa dell'amico G.B. Cipelli (Battista Egnazio). Egnazio, con altre eminenti personalità come P. Bembo, I. Sadoleto, R. Pole e G. Contarini, sostennero i primi passi del M. nella vita sociale e intellettuale veneziana.
L'esordio in tipografia fu contrassegnato da profondi dissidi con i soci. Se fino al 1529 i figli di Aldo, ancora giovanissimi, erano rimasti estranei alla gestione della bottega, mentre i Torresano (Andrea, Giovanni Francesco e Federico) ne avevano garantito il buon funzionamento grazie a un'equilibrata distribuzione delle mansioni, la morte di Andrea e la rivendicazione di un ruolo attivo da parte dei Manuzio resero necessaria la ristrutturazione dell'azienda. I sofferti tentativi di convivenza sfociarono in un lungo processo, concluso con l'assegnazione da parte del giudice di petizion ai Torresano dei 4/5 del patrimonio comune. I Torresano ottennero il corsivo aldino, mentre il M. e i fratelli conservarono la libreria e la marca con l'ancora e il delfino. La tipografia "Nelle case delli heredi d'Aldo romano, e d'Andrea d'Asola suo suocero", dopo aver subito una temporanea chiusura, riaprì i battenti nel 1533 grazie all'intervento del M., sempre più coinvolto nelle attività editoriali ma anche insofferente verso l'autorità di Giovanni Francesco Torresano, per merito del quale, negli anni Venti, si era compiuto il passaggio dall'originaria denominazione "aldina" della bottega ad "asolana".
Per la conduzione Manuzio-Torresano, protrattasi fino al 1540, si contano solo 31 edizioni, indizio di difficoltà interne e preludio dell'imminente separazione tra i soci, formalmente consumatasi tra il 1537 e il 1539. Da allora, pur mantenendo legami di tipo commerciale, essi finanziarono pubblicazioni distinte, recanti marche nuove; con l'opera di B. Ramberti Libri tre delle cose de' Turchi (1539) la casa di S. Paternian inaugurò la programmazione autonoma "Apud Aldi filios", destinata a durare fino al 1561, sporadicamente interpolata da qualche collaborazione con i parenti per la stampa di opere in greco.
La produzione veneziana del M., grazie all'impiego di validi specialisti, fu copiosissima. Su circa 350 edizioni per il periodo 1533-61, la porzione più cospicua proviene dai classici latini, nettamente privilegiati rispetto a quelli greci, passione del padre Aldo. La distribuzione negli anni, inizialmente vincolata alle operazioni di ristrutturazione finanziaria, disegna, tuttavia, un andamento assai discontinuo: la media è di 12 titoli annui, ma nel triennio 1538-40 furono stampati solo 3 libri, mentre nel 1546 si arrivò a ben 27. L'ampio volume di stampa, sintomo di stabilità economica, si coniuga a un'efficiente organizzazione redazionale e all'impiego di un'adeguata manodopera intellettuale e tecnica, di cui è conferma anche il rapporto tra prime edizioni e ristampe, contrassegnato dal vantaggio delle prime sulle seconde. Il M. fu soprattutto editore di letteratura (180 edizioni): assecondando la fisionomia più tipica del catalogo aldino, predilesse gli autori classici, che insieme compongono più del 60% della produzione letteraria; tuttavia il primato della cultura ellenica, stabile nel programma di Aldo, fu scalzato dalla preminenza assegnata alla cultura latina.
Del resto, l'attività del M. si snodò tra gli anni Quaranta e Cinquanta, quando le nuove tendenze letterarie stavano attenuando il primato della cultura classica, e a partire dal quarto decennio del secolo si registra un'apertura verso la letteratura in volgare: dopo l'Arcadia e i Sonetti, e canzoni di I. Sannazzaro, gli Asolani di P. Bembo, il Cortegiano di B. Castiglione, Dante e Petrarca (già nel catalogo di Aldo e Andrea), i Dialoghi di S. Speroni, i Dialoghi d'amore di Leone Ebreo, le Stanze del Poliziano (A. Ambrogini), ma soprattutto Il principe, le Historie fiorentine, i Discorsi, il Libro dell'arte della guerra di N. Machiavelli, replicati due volte prima della messa all'Indice nel 1559. Un ruolo di primo piano ebbe il genere epistolare, presente sotto forma di singole lettere e di antologie, individuali e collettive. In particolare, il M. promosse la formula della silloge epistolare con la pubblicazione, nel 1542, delle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, scritte in diverse materie, oggetto di ristampe e accrescimenti (con l'aggiunta di un secondo libro nel 1548 e di un terzo nel 1564). Una nutrita porzione delle raccolte riproduce, inoltre, la ricchissima personale corrispondenza latina e volgare del M., secondo una logica di autopromozione che non trova precedenti tra gli altri editori del secolo.
Il genere più frequentato dopo la letteratura è la trattatistica di argomento retorico e poetico, le grammatiche e i dizionari. Particolare spazio è dedicato a opere sullo stile e la produzione letteraria, filosofica e retorica di Cicerone, protagonista assoluto del catalogo accanto al M.: essi coprono poco meno del 90% degli autori presenti con più di 3 opere, rappresentando il nucleo forte dell'orientamento editoriale come riflesso degli interessi culturali dominanti dell'editore. Gli altri campi disciplinari ottennero un'attenzione marginale: la produzione religiosa, con 29 titoli, copre circa l'8% di quella complessiva; la filosofia e la storia, rispettivamente con 24 e 25 edizioni, si attestano sul 7%. Come mere comparse figurano il diritto e la geografia, assenza, quest'ultima, che segnala l'autoesclusione del M. dall'ampio bacino di case tipografiche che, stimolate dalle scoperte quattro-cinquecentesche, immisero sul mercato un profluvio di racconti sui mondi esotici.
Dopo avere avviato l'azienda veneziana, il M. compì diversi viaggi che agevolarono la sua rapida ascesa professionale. Fu a Parma, a Ravenna e, nel 1535, nel 1539, nell'ottobre 1541, a Roma, dove strinse amicizia con M. Cervini e B. Maffei prima della loro nomina al cardinalato, e stabilì i primi legami in vista di una futura sistemazione in città. Mentre, tra il 1537 e il 1540, a Venezia si dedicava all'istruzione di dodici giovani patrizi, il duca Ercole II d'Este gli offrì inutilmente di trasferire l'impresa a Ferrara. Una volta diviso l'asse paterno con i fratelli, ridefinì l'organigramma aziendale prendendo atto della rinuncia definitiva di Manuzio al lavoro di bottega e favorendo l'allontanamento di Antonio che, pur dotato di solide conoscenze di umanista, appariva inadatto alla gestione degli affari a causa della vita dissipata che conduceva. Nel 1546 sposò Caterina Odoni e, dopo la nascita del primo figlio, Aldo, nel febbraio 1547, si trasferì da S. Paternian a casa Dandolo, alla Giudecca. Nel 1549 fu candidato per merito alla cattedra di eloquenza della Scuola di S. Marco in sostituzione di Egnazio, dimissionario per anzianità, ma sperando in una imminente chiamata del pontefice allo Studio romano al posto di Romolo Quirino Amaseo rifiutò la proposta, così come pure quella di servizio avanzata dal cardinale Miguel da Silva e dagli Studi di Milano e di Padova, dove avrebbe dovuto subentrare nella cattedra di umanità a Lazzaro Bonamico, morto nel 1552. Con la morte del cardinale Maffei nel 1553, si allontanò per il momento l'ipotesi che la S. Sede richiedesse la sua collaborazione per dirigere una tipografia vaticana per le edizioni dei Padri della Chiesa nella versione ufficializzata dal Tridentino.
Tra il 1554 e il 1555, nel periodo in cui svolgeva attività di revisore incaricato di rilasciare la cosiddetta fede di stampa per le opere destinate all'esame preventivo dei Riformatori dello Studio di Padova, il M. fu gravato da difficoltà economiche dovute anche ai fallimenti del fratello Antonio, esiliato per due volte da Venezia per non ben precisati trascorsi giovanili. Il M., che invano tentò di ottenere la cancellazione del bando, supportò un'altra attività tipografica del fratello, avviata nel 1555 a Bologna, ma presto costretta alla chiusura per bancarotta.
A Bologna il governo offrì al M. una sistemazione per impiantare una tipografia. Altre proposte giunsero dal cardinale Ippolito II d'Este, da Ottone Enrico, principe elettore del Palatinato, che gli offrì l'ufficio di storiografo e dalla corte di Spagna, che lo propose come stampatore ufficiale.
Dal 1558 diresse con Nicolò Bevilacqua la stamperia dell'Accademia della Fama o Veneziana, fondata dal senatore Federico Badoer e ricoprì, tra l'altro, la cattedra di eloquenza presso la Scuola di S. Marco.
L'istituzione, ispirata a un ambizioso progetto enciclopedico, si proponeva di farsi rappresentante ufficiale della politica culturale della Serenissima, ma si scontrò con il disinteresse delle autorità veneziane, diffidenti verso l'impresa. Nella sua effimera vita, l'Accademia pubblicò una quantità infinitesimale di edizioni rispetto a quelle enumerate nell'ambizioso documento programmatico della Summa redatta dal Manuzio. Accusata di eterodossia dall'Inquisizione, presumibilmente anche a causa dei pericolosi legami del M. con gli ambienti riformatori cattolici e del dissenso religioso, subì un precoce epilogo quando, precipitata nella bancarotta dallo stesso Badoer, fu definitivamente sciolta nell'agosto 1561.
Negli stessi anni, il M. fu protagonista di una vertenza giudiziaria connessa all'attività di commercializzazione del pesce in laguna che, grazie alle trattative condotte con il Senato e il duca Ercole II d'Este, aveva avviato dal 1556 con i veneziani Teodoldo Rossi e Venturino Mandoleri. Come testimonia la corrispondenza privata, nel febbraio 1559, a seguito della denuncia di un nemico di Rossi, il contratto si rivelò improvvisamente illegale: i due soci furono arrestati e il M., contumace presso il convento veneziano di S. Polo, fu colpito dal bando decennale dalla città. Scelse di scontare la latitanza a Padova, dove fu raggiunto dalla notizia della morte del fratello Antonio, avvenuta a Bologna all'inizio di marzo.
Nel febbraio 1560 Pio IV accennò a una possibile chiamata del M. a Roma come assegnatario della direzione della stamperia pontificia. In realtà fu solo il 7 giugno 1561 che, affidata la bottega veneziana ad Aldo e precisate le laboriose condizioni contrattuali, il M. poté raggiungere la nuova destinazione romana, a palazzo Aragonia nei pressi della fontana di Trevi. Affiancato da quattro cardinali commissari designati dal papa (Marcantonio da Mula, Giovanni Morone, Giovanni Bernardino Scotti e Vitellozzo Vitelli), il M. ottenne uno stipendio annuale di 500 ducati d'oro garantito per dodici anni, il supporto di numerosi correttori, il rimborso delle spese sostenute attraverso gli introiti delle vendite, da dividere con la Camera apostolica.
I rapporti con la Camera apostolica, deputata all'amministrazione dell'impresa dal 1561 al 1563, si deteriorarono ben presto perché il finanziamento dell'impresa attingeva alla gabella sul vino forestiero, con cui veniva finanziato lo Studio cittadino, cosicché i denari destinati alla Stamperia venivano sottratti alle attività dello Studio, creando uno spiacevole conflitto. Con il motu proprio del 26 apr. 1564, Pio IV cedette la tipografia al Popolo romano (cioè al Comune), ma non riuscì a risolvere il contenzioso sul finanziamento dell'impresa.
Nonostante l'incremento sostanziale della produzione, favorito dall'impressione di testi liturgici, i volumi editi nei nove anni romani furono pochi. Il catalogo "In aedibus Populi Romani" accolse quasi esclusivamente opere di carattere teologico-religioso (i testi ufficiali scaturiti in sede conciliare, come l'Index librorum prohibitorum e i Canones et decreta, e gli scritti dei Padri della Chiesa), mentre del tutto marginale risulta la presenza di opere dal contenuto profano (i classici, ma anche gli autori contemporanei, ammessi solo grazie ai cardinali umanisti).
La morte di Pio IV (9 dic. 1565) e la salita al soglio di Pio V Ghislieri aggravarono lo scontro tra il M. e i magistrati del Popolo, mentre il dialogo con la Curia si interruppe soprattutto per effetto dell'assegnazione della stampa del Messale a Bartolomeo Faletti, legatore della stessa tipografia manuziana. Nei sei anni di pontificato di Pio V, il M. dovette rinunciare a eseguire un programma di ispirazione classica in favore di una linea controriformistica: non solo l'utilizzo del libro come veicolo di propaganda sotto l'urgenza della lotta antiereticale rese eccezionali committenze di carattere profano, ma l'intera programmazione, molto meno ampia del previsto e segnata dalla marginalità della patristica greca e dall'irrilevanza quantitativa della latina, comportò un impiego modestissimo delle competenze del Manuzio. L'intera esperienza romana si rivelò perciò non funzionale alle sue aspirazioni professionali e alle sue aspettative di umanista.
Questi motivi sollecitarono la rescissione del contratto con tre anni di anticipo sulla naturale scadenza, formalizzata dal passaggio della quota di attività rimasta al M. a Fabrizio Galletti nell'agosto 1570. Lasciata Roma, il M. trascorse i successivi due anni tra Venezia, Pieve di Sacco e Milano, ospite di Bartolomeo Capra tra il settembre del 1571 e la primavera del 1572 e, libero dalle scadenze editoriali, alternò al riposo i lavori di esegesi ciceroniana. Nel giugno del 1572 tornò a Roma per seguire i preparativi del matrimonio della figlia Maria. Trasferitosi alla Minerva, nuova sede della Stamperia, si trattenne in città al servizio di papa Gregorio XIII con uno stipendio di 25 ducati per curare la revisione dei Proverbi e degli Apophthegmata di Erasmo da Rotterdam amputati della loro componente etico-politico-religiosa secondo le direttive tridentine. Avrebbe voluto tornare a Venezia per verificare lo stato della tipografia veneziana lasciata in gestione ad Aldo e a Domenico Basa (che la diresse dal 1568 al 1573) e del patrimonio di famiglia, ma fu impedito dalle resistenze della Curia e poi da una malattia che lo bloccò definitivamente.
Il M. morì a Roma il 6 apr. 1574.
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