MARZOLO, Paolo
– Nacque a Padova il 13 marzo 1811 da Antonio e da Francesca Casagrande.
Ingegno precoce, a quattordici anni seguì il corso di filosofia nell’Università di Padova continuando lo studio del greco e del latino. Conseguita la laurea in medicina a ventidue anni, iniziò l’attività come chirurgo a Padova; successivamente come medico condotto si spostò in varie località venete, tra le quali Trevignano, presso Treviso, dove rimase a lungo cominciando a raccogliere i materiali per la sua opera principale. Furono anni di studi: lettura degli enciclopedisti, di scrittori latini e greci, apprendimento delle lingue tedesca, ungherese, ebraica e successivamente araba, turca e cinese; investigò con attenzione sulle differenze che riscontrava nei dialetti. Fece tesoro anche delle sue esperienze nell’osservazione dei malati.
Trasferitosi a Treviso, nell’aprile 1848, dopo l’allontanamento degli Austriaci, fu uno dei membri del comitato provvisorio cittadino; fu socio ordinario dell’Ateneo locale e pubblicò vari lavori nelle Memorie dell’Istituto veneto. Stabilitosi a Milano dopo il 1849, nel 1860 fu nominato professore straordinario di letteratura greca all’Accademia scientifico-letteraria; collaboratore del Politecnico di C. Cattaneo, vi pubblicò diversi saggi. Nel 1861, fu chiamato a Napoli come professore straordinario di letteratura latina. Per interessamento del ministro della Pubblica Istruzione, il fisico C. Matteucci, intenzionato a dare impulso ad approcci scientifici per contrastare le dottrine metafisiche del tempo, nel 1862 gli venne affidata la cattedra di grammatica e lingue comparate all’Università di Pisa, dove il 17 nov. 1862 presentò la prolusione Della letteratura delle nazioni e della loro comparazione (poi in Politecnico, 1862, vol. 18, pp. 203-221). Gli anni pisani, per quanto angustiati dalle cattive condizioni di salute, offrirono al M. un ambiente accademico particolarmente aperto alla libertà di pensiero, e a lui più congeniale. Autore per il Lavoro di vari articoli sullo sviluppo delle razze umane, pubblicò negli Annali delle Università toscane (1866, vol. 9, pp. 53-130) il Saggio sui segni, sua ultima opera (nuova ed., a cura di B. Lauretano, Napoli 2003).
Il M. morì a Pisa il 5 sett. 1868.
A partire dalla dissertazione di laurea De vitiis loquelae quaedam exposita quum medicinae lauream coronam assequeretur, Patavii 1834, in cui sostiene l’unificazione dei fenomeni intellettuali con quelli organici, il M. sviluppa una concezione naturalistica e organicistica del linguaggio che configura un modello interpretativo coerente dei fenomeni linguistici, dell’origine e della differenziazione delle lingue. Sin dai primi lavori (Brevissimo sunto della storia dell’origine dei caratteri alfabetici, in Atti dell’I.R. Ist. veneto di scienze, lettere e arti, s. 3, 1856-57, vol. 2, pp. 643-685; Del cangiamento di rapporto tra l’azione e la conoscenza nel progresso dell’uomo, in Politecnico, 1861, vol. 10, pp. 367-386; Saggio di applicazione della storia naturale delle lingue alle investigazioni della storia delle nazioni, ibid., pp. 577-596, 615-635) uno dei temi centrali della sua riflessione teorica è la nozione di segno. Nel Saggio sui segni la capacità umana di collegare segni e significati viene riportata a una teoria generale del segno e della conoscenza basata su uno schema comprendente tre elementi, il concetto (l’idea), la percezione dell’oggetto e il segno: «Segno per sé assolutamente non esiste; ma sì ogni cosa può diventar segno per certi rapporti di contingenza con gl’individui; l’essere segno non è una condizione della cosa, ma sì un’azione di questa sopra dato soggetto senziente» (ed. 2003, pp. 112 s.).
Il M. offre una sistemazione definitiva della sua concezione del linguaggio nella sua opera principale, i Monumenti storici rivelati dall’analisi del linguaggio, prevista in 16 volumi, di cui uscirono soltanto il primo (Saggio di storia naturale delle lingue, Padova 1847) e, a distanza di tempo, il secondo (ibid. 1859) e parti del terzo (ibid. 1863) e del quarto (ibid. 1866).
L’opera delinea una storia naturale del linguaggio nella quale il naturalismo universalistico di ispirazione settecentesca si integra con il paradigma positivista dell’Ottocento. In questo quadro concettuale il formarsi e l’evoluzione delle lingue sono determinati da dispositivi di tipo sensoriale e motorio connaturati all’uomo e in questo senso universali. Nel M., la cui impostazione si distacca dal modello storico-comparativo fissato da autori come Fr. Bopp, J. Grimm, Fr. Diez, avente come fine la ricostruzione dei rapporti di parentela linguistica sulla base di corrispondenze regolari e sistematiche nella fonetica o nella morfologia, il confronto di parole di lingue diverse mira a mettere in luce meccanismi e principî universali piuttosto che a ricostruire i rapporti storici fra le lingue. Egli riprende quindi i temi, ormai emarginati nel clima culturale del suo tempo, della riflessione dei linguisti illuministi, come N. Beauzée, Ch. de Brosses, R.J. Turgot, A. Court de Gébelin, per i quali la comparazione fra lingue è strumento per indagare i principî fondamentali e universali del linguaggio e della natura umana. Nell’Ottocento la ricostruzione dei rapporti storici fra le lingue risulta in particolare funzionale alle istanze di rinascita nazionale in quanto fornisce una conferma scientifica alla ricerca di identità e antichità storica dei diversi popoli e delle loro lingue e culture. Il paradigma ufficiale della linguistica è quindi allineato all’universo simbolico, al sistema di idee e di valori che fin dall’inizio dell’Ottocento impongono una chiave interpretativa storico-evolutiva all’antropologia, ai fatti socio-culturali e, nei termini della teoria darwiniana della selezione naturale, ai processi naturali (B. Goodwin, How the leopard changed its spots: the evolution of complexity, Princeton 2001). Nello stesso tempo il comportamento umano è riportato ai meccanismi fisici sottesi ai fenomeni naturali. Se si tiene conto di un simile quadro complessivo, la figura del M. non è particolarmente eccentrica; il giudizio limitativo di chi vede in lui un «eterodosso geniale» che mira a un «tentativo di glottologia universale» pur senza avere «mezzi adeguati» (Ascoli, p. 42 n. 8; giudizio poi ripreso da Tagliavini) riflette piuttosto le riserve verso un’indagine speculativa e carente dal punto di vista metodologico.
Le idee del M. si inseriscono nel dibattito che in quegli anni oppone la scuola medica organicistica, di cui egli si fa interprete, alle tendenze dei vitalisti, trovando nei fenomeni patologici e marginali del linguaggio un’importante base empirica per l’analisi del linguaggio. Le ricerche sui sordomuti (Studii di medicina pubblica del dottor Pietro Betti, in Politecnico, 1861, vol. 11, pp. 544-561; Sull’educazione dei sordomuti e sulla loro condizione intellettuale, ibid., 1862, vol. 16, pp. 51-69) gli suggeriscono l’importanza dei segni visivi come mezzo per sviluppare le capacità intellettuali dei sordomuti, dato che secondo il M. la conoscenza è in primo luogo il risultato delle sensazioni prodotte dagli oggetti e non del rapporto fra parole e idee.
A tale concezione si richiamano le proposte sull’insegnamento delle lingue contenute nel Saggio di applicazione della storia naturale delle lingue, in cui è sostenuta la validità di un metodo che combini la parola con la conoscenza dell’oggetto in quanto appunto la parola non «ha senso» per se stessa ma facilita la reminiscenza delle sensazioni. La critica dei metodi d’insegnamento basati sullo studio libresco delle forme si fonda sull’osservazione, ripresa anche in altri saggi del M., che i significati delle parole sono interpretabili solo in rapporto alle circostanze esterne che li hanno fissati, per cui: «Per penetrare nell’intelligenza intima di una lingua nuova, non bastano le cognizioni che già si hanno della propria, perché i significati delle parole sono un effetto degli eventi speciali occorsi ad un dato popolo ed ad un dato tempo» (p. 593).
La connessione fra la storia linguistica e quella culturale è una delle questioni più discusse da studiosi e intellettuali italiani anche in rapporto agli ideali nazionali e all’individuazione di lingue nazionali. Così Cattaneo, la cui concezione storico-sociale del linguaggio influenzò la linguistica italiana di questo periodo, nel saggio Sul principio istòrico delle lingue europèe (1841) assegna all’indagine linguistica un ruolo euristico fondamentale nella ricostruzione delle antiche culture scomparse. Anche dal M. la storia naturale delle lingue è intesa come chiave di lettura della storia dei progressi dell’umanità, una storia «delle nazioni», che «deve servire di base coll’autenticare le etimologie alla dimostrazione dei temi storici ai quali si verranno applicando. Questa parte preparatoria avrà fatto passare la linguistica al rango di scienza naturale» (Monumenti…, I, p. 22). Tale tesi fu poi sviluppata in Dell’applicazione della storia naturale delle lingue alle investigazioni della storia delle nazioni (Venezia 1860), in cui l’etimologia è vista come mezzo di investigazione storica e le lingue come prodotti dello spirito dell’umanità.
La nozione di lingua coincide qui con quella di nomenclatura, cioè di un insieme di termini la cui formazione nei Monumenti storici è riportata a tre cause naturali: parole di origine automatica, parole di origine patetica (basate sulle interiezioni) e parole di origine onomatopeica.
In particolare il M. sostiene che nel passato come nel presente valgano gli stessi meccanismi naturali e che le diverse lingue formino una serie simile alla «catena degli esseri» assunta dalla scienza naturale predarwiniana per cui le specie formerebbero un continuum dalla più semplice alla più perfetta. La «prima età linguistica» non coincide quindi con quella di lingua primitiva o originaria né ha «un posto preciso nella serie dei tempi», ma coincide piuttosto con l’insieme dei «prodotti delle disposizioni vocali dell’uomo in contatto col suo simile, giusta le varie circostanze organiche e quelle estrinseche» (Monumenti…, I, p. 80).
La soluzione uniformista del M. si collega al dibattito scientifico ottocentesco contrapponendosi all’idea che le differenze fra le lingue implichino un diverso meccanismo di formazione, come suggerito da Fr. Schlegel in Über die Sprache und Weisheit der Indier (1808). La discussione sulla possibilità che le diverse famiglie linguistiche si fossero formate in maniera indipendente (poligenesi) si collegava al dibattito degli antropologi sull’origine dei diversi gruppi umani. Nel saggio Del cangiamento di rapporto tra l’azione e la conoscenza nel progresso dell’uomo, in Politecnico, 1861, vol. 10, pp. 367-386, la concezione monogenetica è fatta derivare dalla caratterizzazione fisiologica che il M. assegna al linguaggio, escludendo che la sua genesi «si debba ad esplicito procedimento della ragione» (ibid., p. 372). Il meccanismo fisiologico sotteso al linguaggio richiede che la ricerca su di esso «deve cominciare sui parlanti, anzi che sui libri; e nelle lingue vive a noi note» (ibid., p. 375).
La critica alle classificazioni degli etnologi e dei linguisti in base alle quali «si danno le differenze fra ceppo e ceppo come originali» si basa sul fatto che «considerando senza prevenzioni scolastiche o scientifiche le lingue si trova in tutte […] fenomeni i quali […] si veggono essere manifestazioni necessarie della natura dell’uomo […] costanti così per necessità d’organizzazione, come le leggi fisiche» (ibid., p. 376). In tale prospettiva il M. rifiuta l’ipotesi corrente nel dibattito contemporaneo che vedeva le lingue monosillabiche come il risultato di un lungo processo storico a partire da sistemi polisillabici, e l’ipotesi di fasi iniziali in cui le lingue avrebbero contenuto solo sostantivi, osservando che «senza questo servigio della parola, per nome, per verbo, ecc. i parlanti non avrebbero potuto intendersi» (ibid., p. 385). La soluzione del M. si accorda con le osservazioni avanzate nel 1820 da uno dei suoi autori preferiti, W. von Humboldt, in Über das vergleichende Sprachstudium… (1820).
Fonti e Bibl.: M. Ceccarel, Della vita e degli scritti di P. M., Treviso 1870; G.I. Ascoli, Studj critici, II, Milano-Roma 1877, p. 42; C. Tagliavini, Panorama di storia della linguistica, Bologna 1963, pp. 128-135, 365; B. Lauretano, Nota introduttiva, in P. Marzolo, Scritti sui segni, cit., pp. 5-103.