MONELLI, Paolo
– Nacque il 15 luglio 1891 a Fiorano Modenese, da Ernesto e da Maria Antonini registrata all’anagrafe del Comune come «massaia possidente».
In ragione delle funzioni del padre, tenente colonnello medico direttore dell’Ospedale militare di Bologna, la famiglia si trasferì presto nel capoluogo emiliano, dove il M. frequentò il Liceo classico Minghetti. Concluso il liceo, subito avvertì viva la vocazione militare. Presentatosi all’esame di ammissione all’Accademia militare di Torino, fu però respinto e fu dunque costretto a ripiegare sugli studi giuridici, conseguendo la laurea in giurisprudenza presso l’Università di Bologna. Ancora giovanissimo, del resto, obbedendo a un’altra prepotente vocazione, il M. aveva cominciato a frequentare la redazione del Resto del Carlino, dove venne assunto nel 1912 come stenografo e a cui offrì le prime collaborazioni, cronache di sport invernali e di scalate alpinistiche, attività delle quali egli aveva scoperto la passione durante le vacanze in montagna. Iscritto alla sezione «Mario Fantin» di Bologna del Club alpino italiano, partecipò attivamente alle sue iniziative, tra cui un'ascensione al Monte Bianco.
Nel 1915, all’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, la fervida fede interventista spinse il giovane M. ad arruolarsi come volontario, rinunciando alla possibilità dell’esenzione (era rimasto unico figlio maschio, dopo la morte del fratello nel 1913) e richiedendo specificamente nella domanda di nomina a sottotenente la «specialità Alpini».
Destinato al Battaglione «Val Cismon» del 7° Reggimento Alpini, ebbe il battesimo del fuoco il giorno di Natale del 1915, e nel marzo del 1916, combattendo in Valsugana, ottenne la sua prima medaglia di bronzo al valor militare e, qualche mese dopo (10 ag. 1916), la promozione a tenente. Dopo aver partecipato alla cruenta battaglia dell’Ortigara meritando una seconda decorazione (25 giugno 1917), designato al comando della 301a compagnia del Battaglione sciatori «Monte Marmolada» e promosso capitano (31 ott. 1917), il M. si ritrovò coinvolto nei convulsi tentativi di respingere la violenta offensiva austriaca che culminò nella disfatta di Caporetto. La coraggiosa resistenza sul Monte Tondarecar gli valse una terza medaglia di bronzo (15 nov. 1917). Ma il 5 dicembre, in località Castelgomberto, per la mancanza di munizioni e lo stato di esaurimento dei suoi uomini, esposti senza coperte alla rigidità del clima e digiuni da oltre due giorni, il M. dovette cedere alle forze preponderanti del nemico e, con i pochi superstiti della sua compagnia, cadde prigioniero. Tradotto a piedi a Trento e di qui al castello di Salisburgo (20 dic. 1917), tentò due volte la fuga, ma senza successo. Alla fine della guerra rimase in Austria con le forze di occupazione italiane e nel gennaio del 1919 partecipò a Leopoli ai lavori della sottocommissione d’armistizio della Galizia.
Rimpatriato nel dicembre del 1919, fu posto in congedo il 1° genn. 1920.
Proprio nel 1920 il M. ottenne dal direttore del Resto del Carlino, Mario Missiroli, il suo primo incarico di inviato speciale, con il compito di seguire per il quotidiano bolognese il conflitto tra l’Unione Sovietica e la Polonia per il possesso della Lituania. Sempre nel ’20, elaborando le note di taccuino prese nel vivo dell’esperienza al fronte, affidò il racconto della sua vicenda di guerra a un libro, Le scarpe al sole. Cronache di gaie e di tristi avventure di alpini di muli e di vino, che vide la luce nel 1921 a Bologna presso Cappelli e fu ripubblicato nel 1928 dalla prestigiosa casa editrice Treves, poi più volte ristampato, e tradotto nel 1930 a Londra, Parigi e New York. Nel 1935 dal libro fu tratto, peraltro molto liberamente, un film per la regia di Marc Elter e l’interpretazione di Camillo Pilotto e Cesco Baseggio.
Si tratta certo di uno fra i più intensi libri di guerra di quella stagione, in cui l’esperienza bellica è evocata in tutta la sua forza tragica di alienazione («nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole significa morire in combattimento») e insieme come una rivelazione di dignità e di onore, di eroismo senza gloria e senza ricompensa, da riconoscere fuori dall'enfasi e dalla retorica, anche da quella della deprecazione. Di fatto, la prosa del M. si svolgeva nei modi discontinui di un diario a registri multipli e dissonanti, dall’aneddoto tragico o grottesco all’introspezione, dal mimo dialettale alla percezione stupita e a tratti estatica dei paesaggi, dalla brutalità strafottente all’empito della passione e dell’angoscia; e la registrazione in presa diretta era attraversata dall’ardore o dall’elegia popolare delle canzoni di guerra e da alcuni versi, secondo il giudizio retrospettivo dell’autore, «ridondanti di echi dannunziani e campaniani». Ma la vertigine lirica del simbolismo e lo stigma di un’esperienza di eccezione si trasportavano nella quotidianità tremenda e banale della vita di trincea, nella luce ferma di una rappresentazione senza miti, che non fossero quelli di una compagnia di combattenti che a poco a poco, di là da ogni differenza di ceto, indole o cultura, scoprono di essere una comunità dinanzi all’epifania terribile del destino. Non a caso, sin dal richiamo in incipit a un «esame di coscienza», la voce più presente alla memoria letteraria del M. era quella turbata e tragica del romagnolo Renato Serra.
Appassionato dilettante di fotografia fin dai giorni di guerra, sempre accompagnato dalla macchina fotografica, che considerava un imprescindibile strumento di lavoro, il M. avviò negli anni Venti la sua smagliante carriera di inviato speciale e corrispondente dall’estero, in particolare dalla Germania.
A far data dal 1921, benché le sue corrispondenze continuassero per qualche tempo a leggersi anche sul Carlino, il M. passò a collaborare alla Stampa, diretta dall’antifascista Luigi Salvatorelli. E a tacere della missione giornalistica in Grecia e in Turchia , o del viaggio in Scandinavia del 1925 i cui resoconti furono raccolti in un libro (Viaggio alle isole Freddazzurre: da Oslo a Hammerfest, Capo Nord e Spitsbergen, Milano, Alpes 1926), l’attività del M. per il quotidiano torinese, oltre che per la trevesiana Illustrazione italiana, si concentrò su Berlino e la Germania, oggetto dei notevoli, singolari reportages poi riuniti in Io e i tedeschi, il volume uscito presso Treves nel 1927.
Lo sguardo attento dell’osservatore registrava in istantanee le figure, le dinamiche politiche, i processi socioculturali della Repubblica di Weimar: il dramma dell’inflazione, la discesa negli inferi massificati della metropoli, l’affermazione di uno spirito völkisch, la voga dei cabarets, i locali e i giornali «omoerotici», i movimenti giovanili e «la Cultura del nudo», l’incontro con la poetessa ebrea Else Lasker-Schüler o, a Salisburgo, quello di segno negativo con il teatro di Hugo von Hofmannsthal e di Max Rheinhardt. Le pagine vivide dedicate al putsch di Monaco del novembre 1923 non mancavano di fermarsi su «Hitler l’isterico», «profeta dal vocabolario e dai gesti plebei» di un movimento di cui il M. sottolineava la distanza dalla misura di concretezza e dal rispetto dell’individuo che caratterizzavano invece l’avventura fascista, per sua natura aliena dal mito equivoco della purezza della razza, nell’atto stesso in cui ne percepiva lucidamente la capacità e la rapidità di diffusione. Più in generale l’analisi critica del M. coglieva in Germania i segni di un’esistenza meccanica e burocratica, già contaminata dal modello americano, a cui contrapponeva, quasi alla maniera di Curzio Malaparte, «l’Italia porca» e «sudicia senza ipocrisie», tuttavia pervasa da una intatta autenticità di sentimento vitale.
Nell’ultimo scorcio del 1926 il M. lasciò la Stampa, che attraversava un nuovo periodo di incertezza e di precarietà in seguito alle misure assunte dal governo dopo l’attentato bolognese a Mussolini del 31 ottobre, per approdare al Corriere della Sera di Ugo Ojetti. Trasferitosi a Milano, l’11 nov. 1926 partecipò – con Riccardo Bacchelli, Mario Alessandrini, Luigi Bonelli, Adolfo Franci, Antonio Nicodemi, Antonio Scarpa, Ottavio Steffenini, Mario Vellani Marchi, Antonio Veretti e Orio Vergani – alla riunione conviviale da cui nacque l’idea di istituire il premio letterario che, prendendo il nome dalla trattoria che ospitava il banchetto, si chiamò Premio Bagutta. E sempre a Milano, qualche tempo dopo, frequentando la redazione dell’Alpino (quindicinale dell’Associazione Nazionale Alpini) il M. fece la conoscenza di un artista figurativo reduce, come lui, dalle avventure della guerra in montagna, Giuseppe Novello, con cui strinse un vivo rapporto di amicizia alimentato dal comune interesse per il libro illustrato. Primo frutto di questo sodalizio fu La guerra è bella ma scomoda. 46 tavole di Giuseppe Novello con un commento di Paolo Monelli, Milano, Treves, 1929.
Ma gli anni dal 1927 al 1929, dopo il ritorno in Grecia nel dicembre 1926, furono soprattutto densi di esperienze di viaggio, dal Portogallo alla Romania, da Malta a Marsiglia e alla Macedonia, dal Cairo a Gerusalemme, a Siviglia e a Madrid. Al ritorno da quest’ultimo viaggio in Spagna (1929), da cui aveva inviato al giornale una serie di articoli politici sulla crisi irreversibile del regime di Primo de Rivera, il M. si ritrovò «licenziato», come egli stesso ebbe a dichiarare raccogliendo i reportages del suo periplo del Mediterraneo nel volume Questo mestieraccio (Treves, Milano 1930).
In questo volume, ed è degno di nota, i singoli pezzi venivano incorniciati da interventi di autocommento dell’autore che finivano col dare luogo a una sorta di ars rhetorica del giornalista «viaggiante», mossa dal disegno ambizioso di dare vita a una nuova letteratura senza complessi di inferiorità nei confronti della poesia e della finzione narrativa, cui la cultura italiana continuava a conferire un indiscutibile primato: «ci siamo illusi, un giorno, di creare un “genere”; di dar forma a un nuovo tipo di scrittore: moderno, vero, aderente alla vita, capace di superar gli antichi miti, ma capace di scorgere i miti nuovi che sorgono e di spiegarli ai loro inconsci creatori. Scrittore con fantasia, ma non d’invenzione; devoto alla lingua e allo stile, ma non schiavo delle tradizioni, dei modelli, dei luoghi comuni; curioso non di sé o delle sue reazioni, ma delle folle, dei luoghi, dei cieli; […] che non inventa casi eleganti, ma scopre la realtà; che scrive magari in prima persona, ma pensa in terza; tutt’al contrario del romanziere che scrive in terza persona ma pensa e opina e argomenta soltanto egocentricamente» (p. 349).
I presupposti di questa nuova prospettiva vanno almeno per una parte ricercati nella cultura letteraria di cui il M. si era nutrito in Germania, fra espressionismo e Neue Sachlickeit. Nel 1929 il M. traduceva per Treves con il titolo La Guerra il libro sottoscritto con lo pseudonimo di Ludwig Renn da Arnold Friedrich Vieth von Golssenau, un aristocratico sassone, valoroso ufficiale divenuto simpatizzante comunista, che nello stile franto e percussivo di un diario di guerra redatto nell’immediatezza incalzante degli avvenimenti evocava la crudele brutalità del conflitto assumendo la prospettiva di un soldato semplice. E dopo Campana, il M. aveva scoperto in Germania un altro poeta vagabondo, Klabund (Alfred Henschke), autore di canzoni per il cabaret e di opere popolari per i cantastorie, fra gli antecedenti immediati di B. Brecht.
Quasi stupisce, date queste premesse, dopo il licenziamento da Via Solferimo, l’assunzione del M. alla torinese Gazzetta del Popolo, che segnò il suo ingresso, fuori dai margini di ambiguità ancora possibili al Corriere di Ojetti (al quale peraltro continuò a restare legato, collaborando fra il 1930 e il 1933 alle riviste da lui dirette, Pegaso e Pan), in un organo di stampa inequivocabilmente organico alla politica culturale del regime.
Ne era infatti direttore politico lo zelantissimo Ermanno Amicucci, nella giovinezza fervente dannunziano, divenuto poi segretario del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, deputato, fra i massimi fautori della legislazione sulla stampa voluta da Mussolini e da Galeazzo Ciano (assumerà poi la direzione del Corriere nei giorni cupi della Repubblica sociale). Così, al pari di altre grandi firme di quella stagione (da Barzini a Missiroli, da Ansaldo a Vergani, da Malaparte a Longanesi), anche il M., con il suo spirito generosamente comunitario e insieme irriducibilmente individualista di vecchio alpino, cedeva alle tentazioni di coinvolgimento e di intervento attivo che venivano dal potere politico e dalla sua strategia del consenso, recuperando distanza critica dalla grigia euforia della vicenda pubblica attraverso il richiamo ai valori intrinseci del mestiere, salvaguardati nella loro continuità profonda dall’ingegno del giornalista di razza. Vero che siffatto ripiegamento nella coscienza delle proprie capacità di lettura e di reinterpretazione del reale rischiava anche di tradursi in una forma di illusione nei confronti della propria autonomia e della propria responsabilità. Così, dando voce a una sensibilità linguistica lungamente coltivata, intensa e rigorosa, e senza sospettare gli esiti grotteschi cui si approderà in sede politica fra qualche anno, il M. avviò nel 1932 sulla Gazzetta del Popolo una rubrica a salvaguardia dell’italiano, minacciato e snaturato da una nuova invasione di forme forestiere. Tali riflessioni confluirono in un volume dal titolo significativo Barbaro dominio. Cinquecento esotismi esaminati, combattuti e banditi dalla lingua con antichi e nuovi argomenti, storia ed etimologia delle parole e aneddoti per svagare il lettore, pubblicato a Milano da Hoepli nel 1933, che sarà ristampato anche nel Dopoguerra. Ma certo il fautore di un giornalismo nutrito di «psicologia sociale», interprete e animatore dell’immaginario collettivo, poteva riconoscere nella Gazzetta del popolo lo strumento più sensibile e più innovativo, in Italia, rispetto all’istanza sempre meno eludibile di una ricezione di massa. Qui il M. oltretutto ritrovò Novello che, sempre a far data dal 1930, pubblicò le sue tavole e le sue vignette su Fuorisacco, la fortunata rubrica umoristica, inserto settimanale a cui cooperavano, fra gli altri, anche Alberto Camerini e Achille Campanile. E nella terza pagina del giornale, tra parola e immagine, comparivano i nuovi risultati di quella felice collaborazione: dal viaggio del ’32 alla ricerca dei «monumenti più brutti d’Italia» al tour enogastronomico del 1934 edito l’anno successivo da Treves sotto il titolo Il ghiottone errante, che rivisitava il genere inaugurato in Italia da Osteria di Hans Barth (la «guida spirituale alle osterie italiane» apparsa nel 1910 con una splendida prosa introduttiva di d’Annunzio) e destinato a nuovi fasti nell’Italia post-bellica, da Mario Soldati a Gino Veronelli. Al 1933 risale invece la prefazione alle vignette di Novello apparse su Fuorisacco e raccolte in volume da Mondadori: Il signore di buona famiglia (data editoriale 1934). Per il M. la cifra satirica con cui l’amico fermava i percorsi mentali, le maschere, gli snobismi più o meno innocenti della borghesia italiana poteva costituire l’equivalente nostrano e ingentilito delle «atroci e perfette caricature» di George Grosz ammirate in Germania.
Alla Gazzetta del Popolo, del resto, il M. riprese il ruolo sperimentato di corrispondente dall’estero: a New York nel 1933 per celebrare la trasvolata oceanica delle squadriglie guidate da Italo Balbo (alla morte del quale, nel 1941, scriverà un opuscolo commemorativo), in Etiopia fra il ’35 e il ‘36 come inviato di guerra, partecipando fervorosamente al clima di acceso entusiasmo per la spedizione coloniale che segnò in Italia uno dei momenti di massimo consenso al regime. E a Ginevra, alla seduta della Società delle Nazioni del 30 giugno 1936, il M. e altri sette inviati delle maggiori testate italiane (tra cui il direttore della Stampa Alfredo Signoretti) si resero protagonisti di una bravata "patriottica" coprendo con una gazzarra di fischi l’intervento del delegato del Negus: l’iniziativa, clamorosa (probabilmente suggerita da Ciano), costò al M. e ai suoi compagni due giorni di detenzione nelle galere svizzere, tempestivamente narrati dallo stesso M. in un articolo dal titolo beffardo Le nostre prigioni (Gazzetta del popolo, 3 luglio 1936).
Nel 1937 il M. fu chiamato dal Corriere della Sera, allora sotto la guida di Aldo Borelli, a dirigere l’ufficio di corrispondenza del quotidiano milanese a Parigi. A questo torno d’anni risale il viaggio da cui sortì il reportage giornalistico In Corsica, uscito in volume da Garzanti nel 1939 con le xilografie di F. Giammari. Ma nel periodo della collaborazione al Corriere strinse più fitti i rapporti con le alte sfere del potere, non senza piegare la scrittura ad ambigui tributi al clima teso e cupo dell’eterofobia antisemita, come appare in una corrispondenza dalla Polonia in data 11 giugno 1939, ma cercando anche, in un articolo uscito sul longanesiano Omnibus nel maggio 1937, di tracciare un netto discrimine fra l’idea italiana del diritto e quella nazista. Tra le frequentazioni del M., oltre a Ciano, che ne conosceva e, in un primo tempo, ne riprovava gli umori tenacemente antigermanici, si annoverava Giuseppe Bottai.
A quest’ultimo il M. si rivolse nel 1937 per ottenere il trasferimento a Roma di una giovane, brillante studiosa di storia dell’arte attiva nel campo dell’organizzazione museale, dal 1941 sovrintendente dalla Galleria Nazionale d'arte moderna di Roma, Palma Bucarelli, con la quale aveva intrecciato una relazione amorosa e con cui si unì in matrimonio il 27 giugno 1963, dopo aver ottenuto nel 1957 presso la Corte d'appello di Roma l'annullamento definitivo del precedente matrimonio, contratto nel dicembre 1926 con Augusta Severi.
Sempre sotto l’egida di Bottai si svolse dal 1941 la collaborazione al periodico Primato, prevalentemente illuminata dalle collaudate competenze di linguista empirico di gusto neopuristico, ma con la predilezione per una parola improntata dalla più coinvolgente esperienza diretta; si ricordano almeno L’A.B.C del vocabolario, 15 dic. 1942; Lingua, dialetto e gergo, 1° luglio 1942; la rubrica Le parole della guerra, inaugurata il 15 dic. 1942 e proseguita fino alla cessazione delle pubblicazioni della rivista nell’estate 1943: si tratta, per una parte, degli interventi poi raccolti nel 1947 nel volume edito da Longanesi Naja parla. Le parole della guerra e dei soldati esposte e illustrate con aneddoti, ricordi e considerazioni varie, a diletto dei reduci, a edificazione dei borghesi e ad erudizione dei filologi.
L’entrata dell’Italia in guerra segnò per il M. il ritorno all’uniforme e ai ritmi della vita militare. Dopo un periodo di addestramento tra il gennaio e il febbraio del 1940, il 23 giugno, nell’ambito della mobilitazione generale, il M. fu richiamato e assegnato ai ruoli del ministero della Marina, pur continuando ad appartenere al corpo degli alpini, con l’incarico di corrispondente di guerra. Scandita dalla promozione a maggiore (27 luglio 1940) e a tenente colonnello (9 marzo 1942), la sua attività di giornalista arruolato si articolò su vari fronti, massime in Africa, dove assistette agli scontri cruenti e spettacolari fra i carri armati degli opposti schieramenti, fino al congedo definitivo (22 febbr. 1943).
Intanto anche nel M. erano maturate nuove ragioni di critica e di avversione nei confronti del fascismo. Di qui, nel 1944, la decisione di proseguire la sua opera di giornalista di guerra al seguito del Corpo italiano di liberazione, dopo aver vissuto da testimone coinvolto, presso la sede del Messaggero a Roma, la serie di sconvolgimenti messa in moto dal voto del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. Di qui, soprattutto, la volontà di ripensare il viaggio della sua generazione e più in generale degli italiani attraverso la dittatura e la guerra in un libro, Roma 1943, uscito presso Migliaresi nel febbraio 1945.
Era il primo, tempestivo resoconto interpretativo dei drammatici giorni romani seguiti alla caduta di Mussolini, con l’armistizio e l’occupazione nazista, fino alla liberazione di Roma nel giugno 1944. Senza ambizioni storiografiche ed entro la prospettiva dichiaratamente parziale di chi era immerso nel succedersi convulso degli eventi, il cronista della «città aperta» puntava, per la sua lettura della tempestosa transizione sociopolitica, sul ritratto individuale e l’inquadratura collettiva, sull’aneddoto o il retroscena. Sta di fatto che tra i lettori convinti di Roma 1943 vi era anche un altro scrittore con il segno incancellabile dell’alpino, Carlo Emilio Gadda, già alle prese con la materia incandescente del suo feroce intervento antimussoliniano, Eros e Priapo. Del resto, nel 1959, Gadda si troverà ancora d’accordo con il M., nel censurare la visione lontana dal vero che del primo conflitto mondiale dava un successo cinematografico come La Grande Guerra di Mario Monicelli.
Fervida e attiva fu la presenza del M. nella vita culturale romana all’indomani della liberazione della città. Già l’11 giugno 1944, a casa di Goffredo e Maria Bellonci, il M. partecipò alla nascita del gruppo degli «Amici della Domenica», con Massimo Bontempelli, Paola Masino, Carlo Bernari, Palma Bucarelli e Alberto Savinio, che presiedette alla fondazione del Premio Strega e costituì il nucleo originario della sua giuria. Poi nel dopoguerra collaborò a una rivista di particolare significato come Mercurio, il mensile di politica, arte e scienze diretto da Alba de Céspedes.
Qui l’antifascismo si proponeva anzitutto come alleanza culturale e libertà d’esame e di dibattito, in cui potevano trovare accoglienza pure le voci dei delusi o disillusi del regime, nel fondo disincantati anche dinanzi alla prospettiva della democrazia repubblicana, alla ricerca di una spiegazione della recente catastrofe nelle pieghe intime del carattere della nazione. Era, questa, la linea del M., ribadita qualche tempo dopo nella sapida, fortunata biografia aneddotica Mussolini piccolo borghese pubblicata da Garzanti (Milano 1950). Tradendo le istanze di un’Italia semplice, austera, laboriosa, di remote e schiette virtù cui inizialmente era parso corrispondere, il duce aveva finito con l’incarnare i tratti più negativi del costume nazionale, avvalorandone le tendenze all’apatia intellettuale e morale, agli interessi particolari, all’infatuazione e alla scimmiottatura, all’istrionismo pseudocarismatico, in una parola alla «teatralità», un pericolo ancora in agguato nel momento in cui si affacciavano le nuove seduzioni dell’american way of life.
Intanto il M., che sul numero di Mercurio del novembre-dicembre 1946 si dichiarava «ancora disoccupato», curioso anche se con riserva delle forme moderne della comunicazione e dello spettacolo, approdava a un’esperienza d’attore in una commedia cinematografica di Renato Castellani, Mio figlio professore, in cui con Aldo Fabrizi e Giorgio De Lullo recitavano anche Ennio Flaiano, Ercole Patti, Gabriele Baldini, Mario Soldati. L’esperienza si ripetè l’anno successivo nella Primula bianca di Carlo Ludovico Bragaglia, con Carlo Campanini, Andrea Checchi e Carlo Ninchi. E nel dopoguerra, rinunciando al progetto ambizioso formulato in Questo mestieraccio di far nascere dalle pagine del giornale una forma inedita di letteratura, il M. si dedicò con impegno convinto all’invenzione narrativa, privilegiando la misura del racconto: si successero così le raccolte Sessanta donne (1947), uscita presso Garzanti, Morte del diplomatico (1952) e Nessuna nuvola in cielo (1957), edite da Mondadori; nel 1958, sempre per Mondadori, il M. tentò con Avventura nel primo secolo la via del romanzo storico, in un impero romano a più titoli allegorico.
Ma il M. riprese presto la sua attività di giornalista colto, ossessionato dalla ricerca della parola giusta, capace di uno sguardo sensibile e smaliziato a contatto con l’attualità: dapprima alla Stampa (dove ritrovò l’amico Novello), durante la lunghissima direzione di Giulio de Benedetti e poi, dal 1967, di nuovo al Corriere della Sera (su cui comparve una lunga inchiesta condotta dall’inviato M. quasi ottantenne in Etiopia e in Somalia. Collaborò anche ai nuovi rotocalchi dell’Italia post-bellica: L’Europeo di A. Benedetti e Il Mondo di M. Pannunzio, oltre a Epoca.
Confortato da un consolidato prestigio (nel 1953 fu insignito del Premio Saint-Vincent, nel 1961 del Premiolino), anche nell’ultima stagione insistette sui generi e sui temi da sempre al centro della sua attenzione: dalla corrispondenza di guerra (nel 1956 assistette al conflitto arabo-israeliano nel Sinai) alla polemica di costume (si segnala, a questo proposito, l’intervento premonitore apparso sulla Nuova Stampa il 18 ott. 1953: Sperammo invano che in Italia la televisione non si avverasse mai), dall’enquête letteraria pubblicata da Mondadori Ombre cinesi: scrittori al girarrosto (1965) all’itinerario gastronomico ed enologico (O.P. ossia il vero bevitore, con 13 disegni di Novello, Milano 1963) pubblicato da Longanesi, o alla valorizzazione delle bellezze del Paese (sua la denominazione Via dell’Amore data alla passeggiata a strapiombo sul mare delle Cinque Terre). Indefettibile nello svolgere il suo ufficio di testimone oculare anche nell’età più tarda, fino alla malattia che lo costrinse definitivamente all’inattività, il M. conobbe gli anni tumultuosi della modernizzazione industriale in Italia e nel mondo osservandoli attraverso l’inseparabile monocolo: secondo alcuni (tra cui Indro Montanelli, che al «cronista galantuomo» dedicò un commosso ricordo in Corriere della sera, 13 sett. 1997) un tratto di snobismo quasi dandystico, ma in realtà forse un segno fra gli altri, resistente e programmaticamente inattuale, di quella «gentilezza» in cui egli identificava uno dei caratteri più autentici e misconosciuti dell’italianità.
Il M. morì a Roma il 19 nov. 1984.
Nel 1982 la Biblioteca statale Antonio Baldini di Roma acquisì la biblioteca privata (circa 11.000 volumi) e l’archivio personale del M., costituito da documenti di varie tipologie e ritagli (oltre che da 20 contenitori di quotidiani e da 180 volumi di giornali), ancora privi di sistemazione organica. Di particolare interesse la sezione fotografica, che raccoglie circa 6000 istantanee scattate nei diversi periodi della vita del M. (dagli anni della Grande Guerra), recentemente digitalizzate e consultabili in rete sul sito della Biblioteca.
Fra le altre opere del M. si ricordano: Sette battaglie: racconto di un pellegrinaggio ai luoghi della guerra seguito da un Sermone per l’anno decimo, Milano 1928; La tua patria, Roma 1929; L’alfabeto di Bernardo Prisco, Milano-Roma 1932; Alta Spoleto, Roma 1960; La nostra guerra 1915-18. Nel Cinquantenario, Milano 1965; Come fu che non ho mangiato gli “strascinati”, Milano 1978. Si segnalano anche, fra le ristampe più recenti: Le scarpe al sole, introduzione di G. Nascimbeni, Milano 1971; Roma 1943, introduzione di L. Barzini, Milano 1979; Roma 1943, prefazione di L. Villari, Torino 1995; l’antologia per le scuole In giro per il mondo, scelta e commento a cura di E. Barelli, Milano 1966 e il florilegio di Ricordi di naja alpina a cura di L. Viazzi, Milano 2001.
Fonti e Bibl.: Lo stato di servizio militare del M., ricostruito sulla base dei dati forniti dal Ministero della Difesa, è desunto dalla scheda di G. Martelli, Lo scrittore alpino e giornalista P. M., che si legge nel sito della sezione bolognese e romagnola dell’Associazione nazionale alpini, www.noialpini.it. Cfr. inoltre A. Signoretti, «La Stampa» in camicia nera 1932-1943, Roma 1968, pp. 94-99; G. Licata, Storia e linguaggio dei corrispondenti di guerra. Dall’epoca napoleonica al Vietnam, Milano 1972, passim; «Primato» 1940-1943, a cura di L. Mangoni, Bari 1977, pp. 243 s., 378-380, 386; C.E. Gadda, Lettere a una gentile signora, Milano 1983, p. 158; S. Giovanardi, Quella specie in estinzione, in La Repubblica, 20 nov. 1984; G. Cattaneo, L’inviato col monocolo, ibidem; I. Montanelli, Ricordare M., cronista galantuomo, in Corriere della Sera, 13 sett. 1997; S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino 1998, pp. 130 s., 140, 195; I. Montanelli, «Roma 1943», le trame svelate da M., in Corriere della Sera, 5 giugno 1999; L. M. Rubino, I mille demoni della modernità. L’immagine della Germania e la ricezione della narrativa tedesca contemporanea in Italia fra le due guerre, Palermo 2002, pp. 9-53; M. Forno, Fascismo e informazione. Ermanno Amicucci e la rivoluzione giornalistica incompiuta (1922-1945), prefaz. di N. Tranfaglia, Alessandria 2003, passim; R. Barbolini, Magical mistery tour. Da Pico della Mirandola a Ligabue, Reggio Emilia 2004, pp. 200-202; F. Focardi, Giornalisti e corrispondenti della stampa italiana in Germania dall’unificazione alla Seconda guerra mondiale (1872-1939), in Italiani in Germania tra Ottocento e Novecento. Spostamenti, rapporti, immagini, influenze, a cura di G.Corni - C. Dipper, Bologna 2006, pp. 65-95; O. Bergamini, Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, Roma-Bari 2009, passim; Giornalismo italiano, II (1901-1939), a cura di F. Contorbia, Milano 2007, pp. XXVII-XXXI; III (1939-1968), ibid. 2009, pp. XVII-XXI (cfr. anche le notizie sugli autori e le notizie sulle testate giornalistiche di A. Aveto)