MORANDO, Paolo
MORANDO, Paolo (detto il Cavazzola). – Nacque a Verona da Taddeo Morando «pezarolus» (detto Cavazzola, soprannome che passò poi al figlio) e da sua moglie Elisabetta tra il 1485 (Peretti, 1998, p. 17) e il 1488 (Hornig, 1976, p. 141), probabilmente nella contrada di S. Vitale (Brenzoni, 1972, pp. 209 s.), la zona dei lavoratori del settore tessile, per poi spostarsi a S. Paolo, dove risulta risiedere con la famiglia paterna nel 1514 e nel 1517.
La sua formazione deve essere avvenuta nell’ambito della bottega di Domenico e Francesco Morone e soprattutto al seguito di quest’ultimo, come già ricorda Vasari, anche se nel suo lavoro si avverte un precoce riflesso dell’opera di Giovan Francesco Caroto e della pittura lombarda. La sua prima opera nota, la Madonna con il Bambino lattante del Museo di Castelvecchio a Verona (prima del 1508), pur nella sua durezza mostra la dipendenza dagli analoghi soggetti del maestro, dai quali non si discosta, apparendo quasi un anonimo prodotto di bottega se non fosse firmato; più convincenti la Madonna con il Bambino lattante e angeli alle Gallerie dell’Accademia di Venezia e la Madonna con il Bambino a villa Cagnola a Gazzada (Varese), firmata e datata 1508.
Tra il 1509 e il 1510 fu chiamato assieme a Francesco Morone a realizzare lavori di decoro per la cappella Miniscalchi in S. Anastasia a Verona, ma non è più pacificamente sostenibile un suo intervento nell’affresco raffigurante La Pentecoste nel catino absidale (Lodi, 2008, pp. 454 s.). Nel 1510 venne coinvolto nella decorazione della cappella di S. Biagio presso i Ss. Nazaro e Celso per la realizzazione della lunetta con L’annunciazione tra i ss. Biagio e Benedetto.
L’intervento è l’ultimo tra i decori parietali che vennero realizzati nella cappella a partire dal 1497 e videro all’opera Giovanni Maria Falconetto, Domenico e Francesco Morone, Bartolomeo Montagna. La decorazione della cappella rappresenta la più rilevante impresa ornamentale nella Verona al passaggio tra i due secoli e marca il rilievo raggiunto in quel momento da Morando, ormai slegato dal maestro. In un contesto dove l’architettura dipinta (dovuta al progetto decorativo di Falconetto) ha un ruolo di primo piano, anche Morando situa la scena in una loggia connotata da un arco, paraste e un cassettonato prospettico ancora quattrocentesco, sullo sfondo di un ampio paesaggio dal quale si riverbera una luce che modella gli ovali dei visi secondo un gusto lombardo. Le immagini dei due santi, dalle volumetrie imponenti dei piviali, guardano ai lavori di Montagna nella stessa cappella; la fisionomia di s. Benedetto sarebbe stata replicata nella poco più tarda pala della parrocchiale di Badia Calavena (1511-1512 circa).
Il catalogo di Morando è rimasto sostanzialmente fermo sul numero di opere e sulle indicazioni cronologiche fornite a partire dagli studi del secondo ottocento, senza che siano intervenuti determinanti novità. La stessa serie delle opere lascia un vuoto fino al 1514, quando è possibile seguire il suo lavoro con più regolare cadenza. In questo anno egli datò e firmò la Madonna di Berlino (distrutta nel 1945; ripr. in Hornig, 1976, fig. 8), che segna, anche nel campo della pittura devozionale, un affrancamento dai modi di Morone. Intorno a questi anni iniziò altresì l’attività presso il convento francescano di S. Bernardino a Verona, dove eseguì a fresco nel chiostro esterno il ritratto del santo senese assieme a quello di s. Francesco (quest’ultimo perduto) verso il 1517: nello stesso momento realizzò il suo capolavoro ovvero il Polittico della Passione nella cappella Avanzi. Qui aveva già lavorato Francesco Morone, che vi aveva lasciato nel 1498 una nitida tela con la Crocifissione alla base della quale, a venti anni di distanza, Morando dispose (su richiesta della Compagnia della Croce) il complesso dato da cinque scomparti (tele) e da quattro tavole costituenti la predella. L’opera si trova oggi al Museo di Castelvecchio, sostituita nella chiesa francescana da una copia ottocentesca.
Nel polittico, oltre ai richiami alla pittura veneziana e lombarda, si osservano rimandi a un classicismo di provenienza centro-italiana e un calibrato equilibrio sentimentale tanto nella statica scena centrale, quanto nelle poco più dinamiche narrazioni laterali. L’Orazione nell’orto degli ulivi ha qualche rimando, obbligato per i veronesi, alla predella della pala di S. Zeno di Mantegna. La scena avviene sotto un cielo infuocato, ma qui, più che altrove nel Polittico, sono evidenti rimandi alla pittura di Giovanni Bellini, richiami a Caroto, riferimenti alla grafica di area tedesca. La Flagellazione avviene in uno spazio semichiuso dove la superficie della composizione è tripartita, mentre l’uso di un vistoso cangiantismo assieme ad un acceso cromatismo anima la scena più del raggelato movimento stesso. L’Incoronazione di spine si svolge in uno spazio dove gli elementi che lo determinano (il muro, la colonna, il paesaggio) favoriscono il movimento della luce, delle ombre e il digradare dei piani, mentre la resa psicologica dei personaggi supplisce alla scarsa dinamicità del racconto (Marinelli, 1996, p. 379); nel contempo la trattenuta sofferenza di Cristo illustra la scarsa propensione di Morando a drammatizzare le scene rappresentate. La stessa, controllata illustrazione del dolore è presente nella Salita al Calvario, dove ai riverberi dell’abito di Cristo e alla smorfia della figura che lo trascina viene affidato il compito di attrarre il riguardante. Sullo sfondo, ai piedi di un paesaggio montano, sta un delicato gruppo di figure, forse un Commiato. La grande tela con la Deposizione di Cristo, fulcro dell’opera, si articola in tre piani sovrapposti distribuendo le figure in gruppi correlati dall’andamento delle braccia di Cristo (Hornig, 1976, pp. 41-43). La figura di Nicodemo, posta vicino alla croce, rappresenta un ritratto dell’artista e tutti gli altri volti sono verosimilmente dei ritratti, a eccezione della figura di Maria di Cleofa, tratta da un’incisione di Marcantonio Raimondi che riproduce la raffaellesca Visione di Noè nella stanza di Eliodoro. La scena si svolge davanti ad un profondo paesaggio concluso dalla veduta del colle di S. Pietro a Verona. I quattro dipinti della predella mostrano altrettante immagini di santi e beati che costituiscono un’alta prova dell’abilità di ritrattista del pittore.
In questi stessi anni Morando raggiunse importanti risultati proprio nel campo della ritrattistica, esemplificati dal Ritratto di Giulia Trivulzio, datato 1519, opera in collezione privata (ripr. in Hornig, 1976, fig. 29; Bisogni, 1985, figg. 1, 3), che potrebbe rappresentare una prova di almeno un soggiorno milanese non documentato, ma intuibile dagli effetti della cultura lombarda sul lavoro del pittore. Si ricordano ancora il Ritratto di dama dell’Accademia Carrara di Bergamo, il Ritratto d’uomo della Národni Galerie di Praga e il Ritratto d’uomo detto Emilio degli Emili alla Gemäldegalerie di Dresda (firmato e datato 1518), che rappresenta forse il più alto risultato ottenuto in questo genere dal pittore.
Ritenuto senza prove (se non l’appartenenza alla famiglia Emilei nel XIX secolo) il ritratto del giurista e protonotario apostolico Giovanni Emilei (Kohler, 1916), l’uomo è còlto a busto intero nella sua ampia veste con lussuosa pelliccia, guanti e rosario tra le dita; il pittore svela le sfumature psicologiche e il tratto altero dell’effigiato, che tende a mettere in evidenza la sua condizione sociale e il livello intellettuale.
Dopo l’importante risultato ottenuto con il Polittico della Passione si fecero molto più fitte le commissioni al pittore fino alla morte, tanto nel genere del ritratto quanto nella pittura devozionale e nella pala d’altare. Si segnalano opere (quasi sempre firmate) precisamente datate al 1518 e al 1519 quali la Madonna col Bambino nel Museo Poldi Pezzoli di Milano, la Madonna col Bambino e un angelo dello Städel Museum di Francoforte, la Madonna col Bambino, s. Giovannino e un angelo della National Gallery di Londra, opera, questa, dalle molteplici influenze assorbite e rielaborate con grande maestria. A Londra si trova anche il calibrato S. Rocco (firmato e datato 1518, pannello laterale di un trittico, originariamente in S. Maria della Scala a Verona, che vedeva al centro una Madonna col Bambino e S. Anna di Girolamo dai Libri, anch’esso a Londra, e un perduto S. Sebastiano di Francesco Torbido), che illustra una riduzione del linearismo caratterizzante i lavori precedenti. Accanto a questi lavori vanno infine collocate (nel periodo 1518-1522) opere ora al Museo di Castelvecchio tra le quali la complessa Incredulità di s. Tommaso e la Madonna del cardellino o dell’esedra.
Quest’ultimo dipinto è una prova della maturità dell’artista, con la figura di Maria che si avvita delicatamente per essere contenuta dal rudere architettonico posto alle sue spalle e trasferisce questo movimento alle figure del Bambino e di s. Giovannino. La conoscenza dell’opera di Raffaello è qui testimoniata dal preciso richiamo alla figura della Carità in una tavoletta della Deposizione Baglioni (Peretti, 2010, p. 456).
Sporadiche sono le opere a fresco, delle quali non rari sono gli esempi di pittura murale esterna come in via Emilei (Arcangelo Raffaele e Tobiolo) o su casa Fumanelli in via Trezza (La Sibilla mostra ad Augusto la visione della Madonna con il Bambino). Il livello più alto è raggiunto dai due affreschi raffiguranti S. Michele Arcangelo e S. Raffaele Arcangelo e Tobiolo, ricordati anche da Vasari, realizzati ai lati della cappella Fontanelli in S. Maria in organo a Verona intorno al 1520.
Le belle figure sono collocate all’interno di due nicchie, parte in penombra, in grado di isolare le statuarie, ma non immobili, immagini dei due arcangeli. Sono probabilmente i più chiari effetti, sull’opera di Morando, del classicismo centro-italiano, espresso nell’equilibrio delle pose e nel trattenuto moto delle figure. Il pittore nel S. Michele fa inoltre vibrare l’armatura con la stessa preziosità già impiegata con la pittura a olio, ricavando, come è stato notato, impressione da una probabile visione diretta degli affreschi di Pordenone nella cappella Malchiostro nel duomo di Treviso (Greci, 2002-03, p. 246). Nel caso del S. Raffaele, Morando utilizzò un cartone adottato anche per l’affresco raffigurante la Sibilla in via Trezza a Verona.
Nel 1522 realizzò la cosiddetta Pala delle Virtù conservata al Museo di Castelvecchio; si tratta della tela dalle maggiori dimensioni tra quelle realizzate dal pittore, destinata alla cappella di S. Francesco in S. Bernardino, sostituita da una copia ottocentesca e considerata uno dei capolavori già dalle affermazioni di Vasari.
La grande pala fu voluta da Bartolomea Baialotti, vedova di Guglielmo da Sacco, che viene ritratta «in abisso» nel dipinto mentre la nuora della donna e vedova del figlio di lei, Elisabetta Verità, viene rappresentata tra le figure dei santi in piedi, nei panni di Elisabetta d’Ungheria. Ai lati di un profondo paesaggio stanno le figure di Elisabetta d’Ungheria appunto, Bonaventura, Luigi di Francia, Ivo, Ludovico di Tolosa ed Eleazaro raccolte in due gruppi convergenti verso il fondo, occupato in parte dalle fortificazioni di una città; numerose figure sono reali ritratti di personaggi legati ai francescani veronesi. In alto si trova la rappresentazione della Madonna con il Bambino e i ss. Antonio e Francesco in gloria attorniata dalle Virtù teologali e cardinali, per le quali sono riscontrabili ancora una volta riferimenti alle tavolette della Deposizione Baglioni. La macchinosità complessiva della raffigurazione è riscattata dal cromatismo impiegato con l’accostamento di colori complementari qui utilizzati in anticipo sull’uso che ne avrebbe fatto più tardi Paolo Veronese (Peretti, 2010, p. 458). La pala presentava una predella in tre parti, due delle quali sopravvissute e conservate a Verona al Museo di Castelvecchio e allo Szépművészeti Múzeum di Budapest.
La ricostruzione dell’opera di Morando trova un momento problematico nell’attribuzione del Ritratto di guerriero con scudiero degli Uffizi. Il bellissimo dipinto fluttua da sempre, nel ragionamento critico (dimostrando in ogni caso l’alto livello dell’opera dell’artista, nella quale questo dipinto è spesso ricaduto), tra l’autore veronese e Giorgione (oppure il suo ambito: da ultimo Ferino-Pagden, 2004), con una netta prevalenza di assegnazioni a favore di Giorgione (da ultimo Dal Pozzolo, 2009, pp. 168-174), sebbene ancora di recente sia stato fatto nuovamente il nome di Morando, del quale l’opera sarebbe uno dei più maturi risultati, realizzata negli ultimi anni della carriera (Peretti, 2010, p. 456).
Morando morì a Verona il 13 agosto 1522, come ricorda il Libro del Collegio di S. Siro e Libera, nei pressi della cui chiesa omonima il pittore era andato ad abitare dopo essere entrato, nel 1517, tra i confratelli del Collegio medesimo.
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