Paruta, Paolo
Scrittore e uomo politico, nato a Venezia nel 1540 da nobile famiglia di origine lucchese, acquisì all’Università di Padova una cultura letteraria, giuridica e filosofica, con spiccato interesse per l’orizzonte politico, che sviluppò anche nelle riunioni accademiche tenute nella sua dimora e in collegamento con il gruppo dei «giovani» patrizi che, negli anni successivi alla vittoria di Lepanto, cercavano un vitale rinnovamento dello Stato veneziano. Nel 1579 pubblicò i dialoghi Della perfezione della vita politica e nello stesso anno ebbe l’incarico di storiografo ufficiale della Repubblica; dopo il 1580 gli furono affidati importanti incarichi amministrativi e diplomatici che culminarono in quello di ambasciatore a Roma dal 1592 al 1595 (e qui giocò un ruolo essenziale nelle trattative per il riconoscimento da parte della Chiesa dell’avvento al trono di Francia di Enrico IV). Altre importanti cariche ebbe dopo il suo ritorno in patria: nominato nel 1596 procuratore di S. Marco, morì il 6 dicembre 1598 nella sua città natale. I figli curarono l’edizione postuma di varie sue opere, tra cui i Discorsi politici (1599) e la Istoria vineziana (1605).
Tra tutti gli scrittori di politica del tardo Cinquecento, P. è forse quello che mantiene una più diretta continuità con la tradizione umanistica e rinascimentale, ponendo particolare accento sull’orizzonte ‘civile’ e sul valore della vita attiva, su di una linea laica e aristotelica in cui resta la traccia della scuola padovana, anche se integrata nelle prospettive del cattolicesimo controriformistico: con un equilibrio che trova ragione nella totale adesione al punto di vista ‘veneziano’, alla difesa dell’autonomia della repubblica nobiliare e della sua politica, con la convinzione che in essa resista quella «libertà» che all’Italia è stata sottratta dal dominio straniero. Questo quadro lo conduce molto lontano da M. e dagli stessi teorici della ragion di Stato (con cui da taluni viene ancora confuso): ma più volte, in modi diretti e indiretti, egli viene a confrontarsi con nodi essenziali del pensiero machiavelliano. I tre libri dei dialoghi Della perfezione della vita politica si inquadrano in un singolare quadro ‘tridentino’, dato che vengono ambientati proprio a Trento in pieno Concilio nel 1562, con la partecipazione di un fitto numero di personaggi incontrati dagli ambasciatori veneti Michele Suriano e Giovanni Da Legge di ritorno da Vienna, dove si erano recati per portare le congratulazioni di Venezia per la nomina di Massimiliano II a re di Roma, accompagnati proprio dal giovane Paruta. Nella discussione molto articolata che si svolge tra i numerosi interlocutori (tra cui è in primo piano il patriarca di Aquileia Daniele Barbaro) si individua nella vita attiva, in opposizione all’«ozio» della vita privata, il vertice del raggiungimento dell’«umana felicità»: essa si risolve essenzialmente nella partecipazione alla vita della Repubblica, con il concorso di tutta una serie di virtù morali rivolte alla realizzazione di un bene comune; parallelamente anche la tematica della ‘fortuna’, pur nella coscienza della difficoltà di controllarne i rovesci, viene ridimensionata, nel quadro di un richiamo alla provvidenza divina. La presenza di M. si avverte più direttamente, anche se sempre in modo implicito, nella parte finale dell’opera, quando dalla lunga discussione sulle virtù e sulle prerogative culturali del politico si passa alla definizione della forma statale, con una ripresa dello schema polibiano delle tre forme di governo, che conduce all’affermazione della superiorità di un governo di ottimati, ma contemperato con le altre due forme, in modo da dar luogo a una sorta di governo misto, capace di garantire una «libertà» gestita dalla classe nobiliare. Si tratta naturalmente del modello veneziano, in cui si dà «una certa sembianza di tutti i governi migliori» (Della perfezione della vita politica, 1599, p. 468) grazie alla compresenza fra il doge, il senato (e gli altri consigli ristretti) e il Consiglio maggiore. Invece, nell’antica Roma
l’autorità de’ Consoli era troppo grande in republica ove dovesse aver parte il popolo, e quella de’ Tribuni parimente maggiore che non si conveniva in città ordinata, non solo al comodo del popolo, ma a quello ancora de’ più nobili e più generosi cittadini, onde, non potendo tali estremi bene insieme unirsi, ne la tennero sempre divisa e ne partorirono grandissimi disordini, da’ quali fu finalmente condotta all’ultima ruina (pp. 472-73).
Se qui è facile vedere un controcanto alle pagine dei Discorsi sui «tumulti» e sui poteri dei tribuni, è vero peraltro che M. agisce come in filigrana in questa ultima parte del dialogo di P., in molteplici spunti tematici come il richiamo al valore e alle condizioni delle leggi, l’evocazione della «virtù di Numa, come di nuovo fondatore della Città di Roma per averla ordinata nella religione» (Della perfezione della vita politica, cit., p. 477) e così via.
Ben più diretto è il confronto con M. nei Discorsi politici, disposti in due libri, il primo dei quali è dedicato alla storia romana e tocca molte delle tematiche sviluppate da M. nei suoi Discorsi, mentre il secondo riguarda le vicende contemporanee, con particolare attenzione al ruolo di Venezia. Il primo dei 15 capitoli del libro I, Quale fusse la vera e propria forma del governo co ’l quale si resse la Repubblica di Roma; e s’ella poteva insieme avere il popolo armato, ed esser meglio ordinata nelle cose civili, si svolge come «un raffronto quasi sinottico almeno con le fondamentali asserzioni contenute nei primi sei capitoli del primo libro dei Discorsi di Machiavelli» (Cervelli 1973), che comunque non vengono nominati: toccando il nodo centrale del rapporto tra la potenza militare romana e lo spazio acquisito dalla plebe grazie ai «tumulti», P. riprende i termini della distinzione polibiana già toccata alla fine dei dialoghi Della perfezione della vita politica, vedendo in quella romana una «repubblica mista», ordinata ad ammettere al governo «uomini d’ogni condizione» (Discorsi politici, a cura di G. Candeloro, 1943, pp. 7-8); ciò però non si sarebbe articolato con conveniente proporzione, «veggendosi tutti gli ordini senza distinzione di uffizio o di grado insieme mescolati, e la parte più vile sopra la più degna bene spesso esaltata» (p. 9).
Non discriminando tra i ruoli spettanti alle diverse classi sociali, questo ordinamento finì per dare spazio eccessivo al «popolo», non mantenendo l’equilibrio tra i diversi stati e piegando così verso lo stato «popolare». Secondo il punto di vista della nobiltà veneziana P. considera particolarmente negative le prerogative della plebe e la stessa partecipazione politica degli «artefici»; e tra l’altro riprova duramente l’«insolenza» dei tribuni. Questa condanna dei machiavelliani «tumulti» si accompagna a una netta riserva verso l’orizzonte bellico e imperialistico di Roma:
L’avere, dunque, quella Repubblica dominato il mondo non dimostra però in essa una perfezione di governo eccellente; di cui è proprio far la città virtuosa, non farla signora di molto paese: anzi che, l’acquistare grande stato, come per lo più è congiunto con qualche ingiustizia, così è cosa rimota dal vero fine delle buone leggi, le quali mai si dipartono dall’onesto (Discorsi politici, cit., p. 21).
P. intende questa dimensione ‘morale’ del vivere civile in una chiave di esclusività nobiliare: la fine della libertà repubblicana sarebbe stata determinata, al tempo dei Gracchi, proprio dai difetti di quell’ordinamento che dava troppo spazio alla plebe ed era inadeguato ad arginarne l’«insolenza»: acquisito sempre un maggiore potere, la plebe avrebbe mirato a impadronirsi anche delle «facoltà dei nobili», i quali «per non lasciarsi di ogni cosa spogliare affatto, non bastando allora il provedere col mezzo delle leggi o di magistrato, convennero ricorrere alle armi per moderare l’insolenza della plebe» (pp. 34-35: e qui non manca una convergenza con quanto dice M. sull’attacco che con la legge agraria la plebe avrebbe fatto alla «roba» dei nobili, in Discorsi I xxxvii 26). Attraverso la sua scelta, che naturalmente punta sul modello veneziano, P. rifugge dall’investimento attivo ed ‘eroico’, dalla visione della necessità della guerra e della produttività del conflitto che sostenevano l’affermazione machiavelliana dell’esemplarità romana: d’altra parte, con acuto senso della distinzione, egli appare ben cosciente dell’incommensurabilità tra le diverse situazioni storiche, delle molteplici componenti che agiscono su ogni situazione e su ogni sviluppo storico, rendendo impossibile ricavarne immediati diretti insegnamenti per il presente. Della storia antica percepisce l’assoluta distanza, che rende improbabile o controproducente ogni imitazione di modelli e comportamenti.
Qui appare la sua continuità con l’orizzonte ‘padovano’ in cui si era formato, con il senso dell’essere moderno e della distanza dall’antico che era stato approfondito tra l’altro dall’originale aristotelismo di Sperone Speroni: non si tratta di riattivare attraverso l’insegnamento storico lo spirito dell’antica ‘virtù’, ma di ricavarne una prospettiva morale, con l’avvertimento dei limiti stessi della «prudenza umana» (non senza consonanze con Francesco Guicciardini, la cui opera storica è del resto raccomandata in Della perfezione della vita politica).
Tutto il libro I dei Discorsi politici, nel trattare di varie situazioni della storia romana, consentirebbe di richiamare temi affrontati o sfiorati anche da Machiavelli. Ma quando tratta specificamente di Venezia, P. non può far a meno di un riferimento diretto. Il primo capitolo del libro II, Perché la Repubblica di Venezia non abbia acquistato tanto stato, come fece quella di Roma, si svolge in palese polemica con M., indicato, senza farne il nome, come «alcun altro scrittore moderno» occupatosi di questo tema:
ma, oltre il restare quei suoi Discorsi ora sepolti in perpetua oblivione, non sono per avventura le cose da lui addotte tali, che possa l’animo di chi penetra molto a dentro al ministerio delle nostre civili operazioni, restarne ben appagato (Discorsi politici, cit., p. 219).
Pur tenuto «in perpetua oblivione», M. agisce sia in positivo che in negativo sui termini in cui la difesa del modello veneziano è qui condotta da P.: insistendo sull’importanza e le condizioni del sito su cui la città è stata fondata, egli si ricollega proprio ai dati di Discorsi I i, e, a proposito della forma statale, tiene in diretta considerazione Discorsi I vi. Allo stringente schema teorico che M. sovrappone alle vicende e alle situazioni storiche, P. oppone il carattere specifico e irripetibile della «condizione de’ tempi» in cui si trovarono a operare le due città: mentre la potenza di Roma si è basata sul privilegio assoluto dell’orizzonte militare, Venezia ha puntato su «la forma e l’ordine del governo civile», capace di conservare la sua libertà nel segno di una concordia civica che Roma non ha conosciuto. Entro una coscienza già ‘moderna’ della eterogeneità dei fenomeni storici, delle loro componenti accidentali e incommensurabili, si contesta l’uso che M. fa del modello romano (nell’intreccio tra «tumulti» e forza militare) per indicare la debolezza del modello nobiliare veneziano, concludendo
che da questa tale diversità degli ordini, e da tanti altri accidenti, non da una sola cagione, come fu detto da principio avere alcuni stimato, sono nati questi diversi successi dell’una e dell’altra di queste Repubbliche (Discorsi politici, cit., p. 241).
Dopo questa nuova menzione di M. senza nome, sotto lo schermo di «alcuni», il pericoloso nome viene finalmente a emergere in II iii, Che dagli infelici successi della guerra dopo la rotta dell’esercito veneziano nel fatto d’arme di Giaradadda, non si possa argomentare alcuna imperfezione nella Repubblica. Tra i detrattori di Venezia che facevano risalire quella sconfitta a una sproporzione tra le ambizioni e l’intrinseca debolezza della Repubblica, viene messo in primo piano
Niccolò Machiavelli; nome già famoso per le curiosità delle materie delle quali si tolse a scrivere ne’ suoi Discorsi, ma che ora, condannato dalla santissima Sede apostolica ad oblivione perpetua, non è pur lecito di nominare (Discorsi politici, cit., p. 257).
P. svolge un’articolata critica ai rilievi di M. sul passaggio di Venezia dall’insolenza negli anni della sua fortunata espansione alla «viltà» di fronte alla sconfitta del 1509: secondo M. alla rotta della Ghiardadda essa non sarebbe stata capace di rispondere proprio per difetto di virtù, per l’incapacità di mostrare «di nuovo il viso» alla fortuna mutata «ed essere a tempo o a vincere o a perdere più gloriosamente o ad avere accordo più onorevole» (Discorsi III xxxi 17). Con rilievi molto equilibrati, pur nell’intenzione di difendere la «gloria» della sua Repubblica, P. rivendica la particolarità di quelle circostanze e l’impossibilità di far corrispondere la perfezione della «forma di governo» a un sicuro controllo di tutti gli «estrinsechi accidenti» che scaturiscono da complesse situazioni, come quella in cui si trovò Venezia di fronte alla lega di Cambrai: riconosce il limite dato dall’uso di milizie mercenarie, ma rileva tutta la saggezza con cui il senato veneziano reagì a quel rovescio e la lungimiranza che lo portò poi a recuperare gran parte dei territori perduti. Proprio prendendo a rovescio M., confronta la situazione di quella guerra del 1509 con quella della seconda guerra punica: e ricorda la disperazione e la confusione dei Romani dopo la sconfitta di Canne (esibendo a bella posta proprio la testimonianza di Livio).
Altri richiami a temi trattati da M., senza più menzione del suo nome, si affacciano ancora nei Discorsi politici di P.: particolarmente in II v, Se le forze delle leghe siano ben atte a fare grandi imprese (cfr. Discorsi III iv e xi), e in II viii, Se le fortezze, introdotte in uso molto frequente da’ prencipi moderni, apportino comodo, e vera sicurtà agli Stati (cfr. Principe xx e Discorsi II xxiv). In ogni modo P. mostra di tener ben presente M., pur nel radicale dissenso e nel rifiuto di scelte perentorie: anche il suo sguardo alla storia contemporanea (specie in altri due dei Discorsi politici, II vi, Perché i prencipi moderni non abbino fatto imprese pari a quelle che furono fatte dagli antichi, e II vii, Da quali cause sia nata la lunga quiete d’Italia di questi ultimi tempi) prende avvio da categorie e situazioni che erano state al centro del pensiero di M., e ne svolge il realismo politico nella direzione della difesa di un equilibrio civile e morale per lui rappresentato dalla repubblica a cui dedicava il suo impegno amministrativo e diplomatico con acuta coscienza delle difficoltà e dei limiti del presente, convinto dell’unicità della sua posizione nel sistema statale italiano. Di questi suoi orientamenti dava prova anche nella redazione della sua Istoria vineziana, che tocca gli anni dal 1513 (data a cui era giunta quella di Pietro Bembo) al 1552: dove l’inevitabile intento apologetico non escludeva sottili analisi delle difficoltà in cui la Repubblica si era trovata, anche con una considerevole attenzione, al di là dell’orizzonte militare e diplomatico, alle questioni amministrative e all’economia mercantile.
Bibliografia: G. Cozzi, La società veneziana del Rinascimento in un’opera di Paolo Paruta: Della perfettione della vita politica, «Atti della Deputazione di storia patria per le Venezie», 1961, pp. 14-57; W.J. Bouwsma, Venice and the defense of repub lican liberty, Los Angeles 1968 (trad. it. Bologna 1977); I. Cervelli, Paruta Paolo, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino 1973, pp. 774-78; I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974; G. Silvano, La “Republica de’ viniziani”. Ricerche sul repubblicanesimo veneziano in età moderna, Firenze 1993.