POLI, Paolo
Nacque il 23 maggio 1929 a Firenze, nel quartiere di Rifredi, figlio terzogenito di Basilio, brigadiere dei carabinieri, e di Maria Filomena Gattucci, dal 1932 maestra elementare, nonché appassionata seguace del metodo Montessori (e quindi fervida sostenitrice della libertà dei bambini, un’idea che avrebbe poi condiviso anche Paolo).
Tra i suoi sei fratelli e sorelle, sono da segnalare almeno Laura (1926-1991) – dal 1958 burattinaia e cantastorie della compagnia di teatro per ragazzi I pupi di Stac, dove aveva in precedenza mosso i primi passi lo stesso Paolo –, Mario (n. nel 1938) – docente universitario di fisica – e soprattutto l’amatissima Lucia (n. nel 1940) – attrice di classe e sua complice anche sulla scena, a partire dall’ecologico Apocalisse (1973).
Quasi di fronte a casa di Paolo sorgeva la pieve di Santo Stefano in Pane, che ospitava l’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa – un centro di socializzazione attivo anche in campo teatrale – dove egli apprese, oltre al piacere delle processioni devozionali, il gusto della messinscena e della finzione.
Della sua Firenze, Poli avrebbe sempre conservato il tradizionale fiele acre e corrosivo, l’arguzia maliziosa, virata però in una leggerezza raffinata e in un algido distacco. Alla sua città avrebbe dedicato nel 1979 la regia della commedia in dialetto L’Morino (da Felicità proibita, 1927, di Bruno Carbocci), aggiungendo al testo originale alcune canzoni di Odoardo Spadaro; vi interpretava inoltre la ‘nonna buona’ che riesuma la storia di Pel di Carota.
Poli frequentò la scuola elementare Vittorio Emanuele III (dopo la guerra scuola Giacomo Matteotti) – la stessa in cui insegnava la madre – ma nel 1938 dovette interromperla per trasferirsi sul lago di Como ad assistere il padre, che si era ricoverato in sanatorio per curarsi dell'ulcera allo stomaco di cui soffriva (e di cui sarebbe morto nel 1946, mentre la madre si sarebbe spenta nel 1986). Dopo le scuole medie all’Agnolo Poliziano, passò al liceo ginnasio Dante, resistendo al tentativo paterno di iscriverlo in una scuola di ragioneria.
Nell’autunno del 1949, a poco più di vent’anni, si iscrisse alla facoltà di Lettere della sua città, dove seguì tra l’altro i corsi di storia dell’arte tenuti da Roberto Longhi, fonte primaria della sua passione per la cultura figurativa. Si laureò solo nel 1959, con una tesi sul teatro naturalistico di Henry Becque discussa con il prof. Carlo Pellegrini, riportando la votazione di 110.
Nell’anno scolastico 1957-1958 aveva tenuto una supplenza in lingua e letteratura francese al liceo Leonardo da Vinci, divertendosi ad affascinare e sorprendere gli studenti; tra l’altro, per rendere loro più chiare certe novelle di Guy de Maupassant (in partic. La Maison Tellier, 1881) li aveva portati a visitare alcuni bordelli (istituzione avviata ormai alla chiusura a causa dell’approvazione, nel febbraio 1958, della legge Merlin); a questa breve esperienza di insegnamento avrebbe fatto riferimento nel 1960 il titolo di un importante articolo di Camilla Cederna su di lui (v. oltre).
La compagnia di prosa della sede fiorentina di Radio RAI coinvolse sin dal 1949 Poli – che aveva appena iniziato a frequentare il Centro universitario teatrale (CUT) della sua città ed era attratto dalle trasmissioni radiofoniche – in macchiette e in narrazioni di favole. Inoltre, nella stagione 1949-1950 Poli prestò la sua voce ai personaggi della già citata compagnia I pupi di Stac (creata da Carlo Staccioli nel 1946), in cui avrebbe in seguito lavorato anche sua sorella Laura.
La voce modulata e dalla perfetta intonazione, capace di passare dal grave baritonale all’acuto e al falsetto, gli sarebbe servita nei decenni successivi anche nel suo lavoro come dicitore finissimo; si veda ad es. la lettura integrale di Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi (Carlo Lorenzini), inserita in una delle prime tra le serie di Fiabe sonore edite dalla Fabbri (21 dischi a 45 giri, usciti nel 1966) e poi, nel 2006, trasmessa da RAI Radio 3.
Nella stagione 1949-1950 Poli fece anche le prime esperienze di recitazione vera e propria in un teatro: si aggregò infatti alla Compagnia dell’Alberello, una formazione di giovani dilettanti protetta e finanziata da una nobildonna eccentrica e generosa, la marchesa Flavia Farini Cini. Era una prova del suo trovarsi bene con i ceti alti e blasonati (nonostante una nonna analfabeta, che però, avendo fatto la governante, tra gli altri, per nobili tedeschi, aveva imparato quella lingua!), frequentando i quali mantenne comunque sempre una rabbiosa autonomia. Il gruppo annoverava al suo interno attori allora alle prime armi ma destinati a un grande avvenire, come Ilaria Occhini, Ferruccio Soleri, Alfredo Bianchini e Beppe Menegatti, e il regista Paolo Emilio Poesio (in seguito autorevole critico teatrale). Le recite erano tenute al cinema Lux o all’albergo Astoria, con un repertorio eclettico, da Luigi Pirandello ad Achille Campanile, dal cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena a Carlo Goldoni e a Thornton N. Wilder. Bizzarra (e a volte sconcertante) fu la scelta di ruoli fatta in quegli anni da Poli, come ad es. quello di un passionale Julio nella commedia anonima La venexiana (1536).
Al CUT, Poli aveva conosciuto Giorgio Albertazzi e Franco Zeffirelli, dei quali era diventato amico; quest’ultimo lo introdusse negli ambienti cinematografici romani, facendolo così uscire per la prima volta dall’ambiente fiorentino.
Poli iniziò la sua carriera cinematografica nel 1954: il produttore Angelo Rizzoli lo scritturò per un anno, facendogli ossigenare i capelli in biondo e puntando sulla sua indubbia avvenenza fisica per parti improbabili e comunque non di rilievo. Poli lavorò così nel 1954 in Le due orfanelle di Giacomo Gentilomo, e nel 1955 in Gli amori di Manon Lescaut di Mario Costa e in Non c'è amore più grande di Giorgio Bianchi; in seguito avrebbe riproposto tali ruoli in personalissimi e feroci riutilizzi teatrali, quasi una vendetta o un risarcimento rispetto alle subalternità patite in quel periodo.
Nel 1957 fu assistente e costumista di Zeffirelli (e anche attore, in una piccola parte) per Camping, un film poi ripudiato dal regista. Nel 1960 rifiutò la proposta di Federico Fellini per una parte in La dolce vita.
Tra le sue dieci apparizioni cinematografiche, scaglionate tra il 1954 e il 1978, vi fu Per amore… per magia di Duccio Tessari (1967), vagamente ispirato alla storia della lampada di Aladino; nel cast era presente anche Mina, che provò invano a sedurlo.
Nel frattempo non aveva però abbandonato la carriera teatrale. Nel 1954 ebbe l’opportunità di un’importante esperienza: la recita, a Certaldo, di Le beffe del Decamerone di Vito Pandolfi (che ne fu anche regista), in cui si esercitò con ottimi risultati in vertiginosi cambiamenti di personaggi (una tecnica di scena a cui in seguito non seppe più rinunciare).
Nel 1956 fu ammirato, presso il circolo culturale fiorentino Chiostro nuovo, nei panni dell’arcangelo Gabriele ne La cantata dei pastori (1698) dell’abate Andrea Perrucci, su idea di padre Ernesto Balducci.
Fu però nel 1958 che ebbe il suo battesimo teatrale vero e proprio, che avvenne a Genova, una città defilata rispetto al principale asse culturale italiano, quello Milano-Roma. Il suo amico Bianchini era stato assunto come attore dal teatro-cabaret La borsa di Arlecchino – di cui era impresario e regista Aldo Trionfo – ma non potendo muoversi da Firenze 'passò' il lavoro a Poli, il quale ben presto divenne l'interprete principale di quel teatro: tra l’altro, nel 1958-1959 fu protagonista di un sorprendente Il gioco è alla fine (da Fin de partie, 1957, di Samuel Beckett), dove recitava la parte del servo Clov, con turbevoli soluzioni legnose e burattinesche, e nel 1959-1960 di Sorveglianza speciale (da Haute surveillance, 1949, di Jean Genet), in cui era Jules, smanioso di delitti e di legami perversi in carcere.
Fu per lui un significativo tirocinio, soprattutto perché a chiudere la serata si lanciava in estrose esibizioni canore e in versificazioni deliranti. Semplici ariette e canzoncine povere, questo il titolo del primo di questi applauditissimi epiloghi, che conteneva anche canti provenzali del 12° sec.: un pastiche culturale nel gusto dei futuri, celebri Bissini (si v. oltre), allorché, toltasi la parrucca, avrebbe deliziato la sala tripudiante con recite ulteriori, appendici quasi più apprezzate del programma ufficiale.
Il suo ultimo spettacolo con la compagnia della Borsa di Arlecchino fu la rivista Mamma mia voglio il cerchio, presentata a Milano, al teatro-cabaret Gerolamo.
Nel 1960 si mise in proprio, spostandosi al Gerolamo insieme con la ballerina/mimo Claudia Lawrence e il chitarrista Armando Celso, che erano stati suoi partner alla Borsa di Arlecchino. Poté così presentare il primo spettacolo tutto suo, Il novellino, un’antologia demenziale, poetica e musicale, che assemblava con una nonchalance di classe laudi duecentesche (intonate in calzamaglia, mantelletta e cappuccio, e accompagnate dal liuto) e canzonette dell’Italia del primo Novecento, partiture da café chantant e inni del regime fascista. Inglobò nella troupe la sanguigna e matronale Jole Silvani, a lungo compagna dell’attore comico triestino Angelo Cecchelin, perseguitato dal fascismo. Fu in tale occasione (come all’inizio accennato) che Cederna pubblicò, sull’Espresso dell’11 dicembre 1960, Il professorino che canta, un articolo che lanciò come star nazionale un personaggio fino ad allora più che altro di nicchia.
Nel 1963, a testimoniare talenti autoriali e vocazioni drammaturgiche, Poli adattò un copione di impronta brechtiana, Paolo Paoli (1956) di Arthur Adamov – una sottile e un po’ cerebrale saga capitalistica sul commercio di farfalle, piume e uomini dalla belle époque alla Grande guerra – potandolo e trasformandolo in un’autentica festa di motivi canori, refrains anarchici e socialisti, romanze e brani di operetta, che sostituivano radicalmente gli intermezzi forniti nell’originale da documenti e giornali del tempo.
A riprova della vastità delle sue scelte teatrali e della mescolanza anagrafica dei destinatari virtuali (in questo caso, un copione per l’infanzia trasferito in un contesto adulto), ecco nel 1965 Un milione, ricavato dai sei testi teatrali scritti tra il 1927 e il 1953 da Sergio Tofano (detto Sto) ispirandosi ai fumetti del signor Bonaventura da lui disegnati e pubblicati sul Corriere dei piccoli. Tofano era stato in passato maestro di recitazione a Roma, all’Accademia nazionale d’arte drammatica, per alcuni concittadini e amici di Poli che aveva incrociato all’inizio della loro carriera, tra cui i citati Soleri e Occhini. Ovviamente, in Un milione Poli si ritagliò la parte del ‘bellissimo Cecè’, e presentò una somiglianza pressoché perfetta con il prototipo stilizzato disegnato da Tofano nei fumetti del signor Bonaventura. Ma qualche arzigogolo nel plot e i prolungati inserti brechtiani fecero cadere lo spettacolo, causando debiti nei bilanci dell’attore.
Poli iniziò la sua esperienza televisiva nel 1958, con particine nel programma per l’infanzia Zurlì, il mago del giovedì; quindi partecipò al varietà Controcanale (1960), che aveva per protagonista Abbe Lane. Nel 1961, nel varietà Canzonissima ebbe gran successo in coppia con Sandra Mondaini, nel rappresentare due ragazzini buffoneschi e irresistibili, lui Filiberto pusillanime e piagnone, lei Arabella pestilenziale e aggressiva, le cui scaramucce e dispetti reciproci trovarono un’alchimia esilarante. Qui apprese dall’attrice a coniugare tra loro una disarmante ingenuità a una sadica perfidia.
Ebbe importanti ruoli di cantante in due operette dirette da Vito Molinari, nel 1960 La vedova allegra (Die lustige Witwe, 1905, musiche di Franz Lehár e libretto di Victor Léon e Leo Stein) e nel 1964 Al cavallino bianco (Im weissen Rössl, 1929, musiche di Ralph Benatzky e libretto di Hans Müller-Einigen).
Il suo travestitismo, emulo di quello di Leopoldo Fregoli (1867-1936) – da lui del resto interpretato nel 1975 in una delle Interviste impossibili di RAI Radio 2, in dialogo con Giorgio Manganelli – si esercitava soprattutto in vesti femminili, nella dialettica tra santa mistica e vamp corruttrice, fra altare e alcova, e fu il suo brand caratterizzante. Tutto ciò gli permise di manifestare la propria omosessualità, senza però alcuna iattanza di movimento o enfasi ideologica, ma con la naturalezza di una felice androginia liberata, in cui si identificava con le ballerine di fila, per la comune «dignità di coscia» (P. Poli, Siamo tutte delle gran bugiarde, 2018, p. 51). Quando viceversa rientrava in abiti maschili, la luce in parte si spegneva e l’esuberanza un po’ si raffrenava.
Tra i suoi infiniti travestimenti, quelli della bambina dalle treccine bionde e dai boccoli posticci, con movenze leziose e saltelli inarrestabili. Si veda lo spettacolo La vispa Teresa (1970), che a pochi giorni dal debutto fu travolto da un incendio scoppiato nel teatro che lo doveva ospitare (il Delle Muse di Roma) ma fu portato egualmente in scena grazie alla solidarietà dell’ambiente teatrale (ad es., la ditta Annamode prestò gratis i costumi). Si veda anche la poesia Amor di bimba (da L’amor d’una bambina, 1868, di Arnaldo Fusinato), infilata ad arte in Mammismo, la prima delle quattro puntate di Babau (le altre erano Conformismo, Arrivismo e Intellettualismo), registrate in studio per il canale televisivo RAI 3 sempre nel 1970 – con interventi prestigiosi, tra l’altro dell’allora giovane Umberto Eco – ma trasmesse dalla RAI per ragioni di censura – al solito, trattandosi di Poli – solo nel 1976 (con il tit. di Babau ‘70).
Queste icone erano alternate alle flessuosità sonore e manierate della ‘grande diva’, decorata e super abbigliata, gorgheggiante e pronta a impennarsi in arie da soprano, così come ai gorgoglii aciduli e cacofonici di streghe e malvagi indemoniati. Soluzioni che si situavano storicamente a metà strada tra due celebri compagnie teatrali, la filodrammatica D’Origlia-Palmi (attiva a Roma tra gli anni Trenta e Settanta del Novecento) e la dialettale I Legnanesi (che, fondata nel 1949, è anche l'esempio più celebre in Italia di teatro en travesti).
Altro connotato di Poli fu il mescolare letterature alte e basse, recuperando quali fedeli colonne sonore le canzonette d’epoca e sempre temperando il tragico nei registri della farsa dissacrante e della parodia. Teatro come mestiere artigianale, in più – di cui rivendicò con fierezza l’origine toscana unita alla proverbiale parsimonia di quel territorio – e insieme concentrato di cultura e di riferimenti libreschi, tipico di un lettore onnivoro, di un filologo erudito, sempre teso però a garantire una carica comunicativa e a non perdere il contatto con il pubblico. Poli pescò agilmente in repertori scenici articolati, dalle sacre rappresentazioni medievali al teatro elisabettiano, dalla commedia dell'arte alla tradizione orientale, dal musical al cabaret. In pratica, un misto di soubrette ridanciana, di onnagata (‘a forma di donna’, l’attore di sesso maschile che interpreta ruoli femminili nel teatro giapponese Kabuki), di star narcisista e assetata di protagonismo. A garantirne i livelli qualitativi sulla scena, il fatto che seppe amalgamare attorno a sé un team stabile: Ida Omboni come coautrice (in quasi tutti i testi, da Il candelaio del 1964, adattamento della commedia di Giordano Bruno del 1582, sino al 2002, anche con relative pubblicazioni), l’amico Emanuele Luzzati – conosciuto al tempo della Borsa di Arlecchino, alla corte di Trionfo – per le scenografie (di solito rifatte da capolavori d’arte visiva), Jacqueline Perrotin per il contorno musicale (esploso da protagonista in Mezzacoda del 1978, accumulo compulsivo di balordaggini riscattate dal mixage sonoro), prima Anna Anni e poi Santuzza Calì per i costumi, e un gruppo fedele di ballerini-mimi.
Con Rita da Cascia (1967), accolto trionfalmente al Delle Muse – omaggio tenero, nonostante l’apparente ferocia iconoclasta, al teatro parrocchiale (vedi la recita monosessuale, per la presenza di soli attori maschili), conosciuto nell’infanzia fiorentina e spiato con trasporto per le vestizioni sgargianti nei contigui rituali ecclesiali – provocò tempeste e ripugnanze nel bigottismo regressivo del Paese, con interpellanze parlamentari per vilipendio alla religione da parte di 45 parlamentari democristiani – tra cui il futuro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro –, un’irruzione di carabinieri in teatro, una telefonata fascista che annunciava l’immancabile bomba e il divieto di circolazione in alcune regioni meridionali e nel ‘bianco’ Veneto: tutti incidenti che ovviamente migliorarono la promozione pubblicitaria della produzione, imponendone la ripresa, dpo dieci anni di sospensione, nella stagione 1977-1978, con esclusione, in compenso, dei minori di diciott’anni.
Qui, la ricostruzione dell’agiografia di Margherita Lotii (1381 ca.-1447 ca.), verginale creatura poi sposa e madre devota fino allo sbocco nella santità, consentiva continue contaminazioni e saliscendi di registri. Alcune sequenze, come gli accenni alla defecazione della Santa e delle colleghe, dimostrarono l’estremo grado di angelizzazione dell’attore, del tutto immune dal basso biologico, in grado di trasformarlo in segni astratti e privi di corporalità (come nell’Ode al vaso da notte – da Nel bagno [Ode], 1897, di Olindo Guerrini – richiesta nei Bissini finali). Una controagiografia, dunque, e insieme un’affettuosa satira, per la simpatia professata dal performer verso il politeismo dei santi nell’Olimpo cristiano, pari all’insofferenza verso ogni monoteismo. Non mancava ovviamente il consueto sfondo di canzonette, come Vivere (Cesare Andrea Bixio, 1937), ritmata da suorine con sagome mascherate sul viso mentre giocano al cerchio, o Sentimental (Pasquale Frustaci, Pietro Garinei, Sandro Giovannini, 1948), che rimandava all’aura della sua principale interprete, Wanda Osiris (Anna Menzio), o ancora, mentre con corona di martiri la protagonista ascendeva al cielo, Tua (Bruno Pallesi, Walter Malgoni, 1959), che aveva reso celebre Jula De Palma (Iolanda Maria Palma).
Così i flussi verbali – interminabili prove di agilità dei cantastorie della Commedia dell’arte – con qualche affinità imprevista con Dario Fo, stante la diversa idea tra i due di impegno ideologico. Di quest’ultimo, infatti, Poli condivideva l’apprendistato in sketch radiofonici, le graffianti controstorie che rovesciavano gerarchie morali e plot consolidati – con la vittima divenuta carnefice e quest’ultimo rivalutato (ad es. un insopportabile Cappuccetto rosso e un povero lupo disoccupato) – e infine il rifarsi ai belzebù popolari dalla burlesca pericolosità: il fiorentino mise in scena nella stagione 1962-1963 il suo Diavolo (per la sua ripresa, nella stagione 1964-1965, costituì una temporanea associazione con l’attrice Maria Monti) – mappatura di testi vari (codici di Rosvita, Laudari Cortonesi, documenti dalla Controriforma sino all’Illuminismo) – mentre Fo presentò nel 1965 il suo La colpa è sempre del diavolo). Non si può negare che quanto a giullarismo l’attore fiorentino si mostrò in anticipo sul Mistero buffo di Fo del 1969.
Era la beltà diafana dell’interprete a colpire e a creare per Poli una sorta di culto in sala, determinando a volte reazioni enfatiche; si veda, ad es., l’inno di una spettatrice pur sobria e restia all’enfasi come Natalia Ginzburg, incantata dalle sue «lunghe braccia snodate» e dalle «mani fini e soavi» che lo rendevano simile a «una bella ragazza, o a un cigno, o a un fiore dall’altissimo stelo» (Nella farsa con soavità, in La Stampa, 4 gennaio 1970, p. 3). Si aggiungeva l’aggressività di certe discese di Poli in platea (apprese nei finali delle produzioni alla Borsa di Arlecchino), nelle quali, magari fasciato in impeccabili smoking bianchi o mimetizzato dietro clamorose pellicce, colloquiava in termini contrastivi con gli spettatori, a volte provocando tafferugli. Un vero e proprio culto andò costruendosi intorno alla sua persona, con ben 586 aggettivi estratti dalla rassegna stampa e con sagacia da un critico scansionati in ordine alfabetico, da «abbagliante» a «zitellesco» (Di Giammarco 1985, pp. 123-124).
Nel 1967, per l’improvvisa rottura tra Gianfranco De Bosio e il Teatro Stabile di Torino, assunse la regia del Suggeritore nudo (dal testo del 1929 di Filippo Tommaso Marinetti), spettacolo in cui era già coinvolto come interprete. Per cui intensificò l’abituale tendenza al montaggio antologico di pagine diverse (dal futurismo e da autori affini), oltre a presentare personaggi come il Brillante, l’Ingenua, il Caratterista e persino il Birignao e la Carrettella: ossia la grammatica compositiva e la sintassi recitativa della classica compagnia italiana ottocentesca. Nel 1968, in La nemica (dal testo del 1916 di Dario Niccodemi) operò una decostruzione e insieme un rilancio paradossale del ruolo della protagonista, affastellando accentazioni e sibilanti degne delle doppiatrici dei melodrammi cinematografici degli anni Quaranta e Cinquanta (si pensi ad es. a Tina Lattanzi). La vicenda, per quasi un secolo cavallo di battaglie di dive nostrane, veniva spostata dalla Francia all’Italia e snellita a soli sei personaggi; aveva per protagonista la duchessa Anna – qui in sontuose fogge liberty a strascico – matrigna intrigata dal figlio (di nome e non di fatto, in quanto del marito, sopravvissuto alla guerra a differenza del figlio di Anna). Nelle mani di Poli diventava magnetico corredo di smorfie, di boccucce atteggiate a cuore e a enfasi emotive, di occhi strabuzzati sull’incredibilità delle battute, una fisiognomica, insomma, meritevole di essere vista da vicino. Vengono in mente allora le invettive di Alberto Savinio – autore frequentato da Poli, in particolare nello spettacolo Il coturno e la ciabatta (1990), che rielaborava ritratti pescati in Narrate, uomini, la vostra storia (1942) – contro la maniera acquisita nell’Accademia romana, le voci paludate e ingessate: un idolo polemico rovesciato da Poli in festosa citazione. Ma la dizione, perfetta e pososa ad arte, ogni tanto volutamente inciampava in ipercorrettismi fonici, vocali all’improvviso pronunciate in modo scorretto, a indicare falsi investimenti emotivi e segnali di pathos risibile, tremori a trattenere pianti fintamente irrefrenabili. Tale fu il successo che lo spettacolo in seguito venne a lungo ripreso, arrivando a superare le mille repliche. Nel 1969, il trucido e l’efferato di solito connessi allo shakespeariano Tito Andronico vennero risolti con abbassamenti stranianti, attraverso l’impiego di fantocci di cartapesta e di teste mozzate, in cui cannibalismo gotico e olocausti umani si svuotavano nell’accumulo grottesco di ogni cruauté, in quegli anni imposta dal recupero delle tesi di Antonin Artaud sul ‘teatro della crudeltà’. In cambio, nella coeva Rappresentazione di Giovanni e Paolo (dal testo del 1491 di Lorenzo de’ Medici) esibiva un glamour fisico irresistibile, assumendo le movenze di un diavolo ricavato dalle posture di Waslaw Nijinsky (Vaclav Nižinskij).
L’aspetto ‘meta’ si ripresentò, intensificandosi via via e sempre nella sospensione astuta tra demolizione sarcastica e recupero paradossale del genere. In Carolina Invernizio (1970), ad es., oggetto della satira è la letteratura agiografica, la macchina microdickensiana del romanzo d’appendice, del grand guignol feuilletonesco a puntate (sulle orme di Edgar Allan Poe e di Eugène Sue), tra vendette implacabili e atrocità infernali. Lo spettacolo utilizzava opere emblematiche di Invernizio quali Il bacio d’una morta (1889) e soprattutto La sepolta viva (1896), con il protagonista Giovanni deus ex machina in tutte le più ardue incombenze, morti a grappoli, agnizioni a ogni nuova sequenza e peripezie ansanti declamate con evidente incredulità. Ancora una volta, la sotto e la paraletteratura fissata nella strategia del kitsch ascendeva con sorprendente naturalezza all’empireo di un copione teatrale scattante, teso a denudare i tanti stereotipi del perbenismo piccoloborghese, ingenuo e ipocrita.
Inventari poi riproposti in Giallo!!! (1972), un digest poliziesco alla Agatha Christie in cui Poli si divertiva e dunque divertiva in tipologie esasperate di quei repertori, la vamp dalla chioma fiammeggiante e il colonnello sulla sedia a rotelle, il cavallerizzo in giacca rossa e la tennista in tutù bianco, il parroco di provincia e l’idiota del paese.
Nel 1971 vi fu una rilevante escursione nella scena musicale, Soirée Satie, commissionata dalla Biennale veneziana; vi si trovavano intermezzi danzati da Milena Vukotic (nella prima edizione), pupazzi quali interlocutori del graffiante monologo di Poli, e una miscela di fonti varie, oltre che un incastro tra un pezzo insolito, Il tranello di Medusa (Le piège de Méduse, 1913) del medesimo Erik Satie – antesignano dei successivi dada e di Eugène Ionesco – e il cortometraggio Entr’acte (1924) di René Clair (con musiche appunto di Satie). Qui Poli arrivava a vette di eleganza in qualità di soave padrone di casa dalla grazia madrigalesca, di atletico chansonnier e di feroce entertainer. Questo non gli impedì di accanirsi contro l’ideologia totalitaria degli anni Venti e Trenta, nella visione dell’attore/autore esistente anche prima e dopo questo contesto storico, come apparve esplicito nel coraggioso L’uomo nero (1971), con la contrapposizione tra socialista perfido e fascista buonissimo, e nello spietato Femminilità (1975), dove coniugava il romanzo rosa al nero del ventennio fascista, tra angeli del focolare e madri feconde.
Il fatto è che egli rendeva compatibili l’intellettualismo di certe scelte con lo scatenamento di metamorfosi, la mutazione di personificazioni diverse e i cambi di costume mozzafiato, in anticipo sull’attore e trasformista Arturo Brachetti. Nel citato Apocalisse inseriva le sofisticate Storie naturali (1971) di Edoardo Sanguineti e allo stesso tempo passava da un San Giovanni in saio di canapa a una ballerina caraibica. Sempre nello stesso senso, nella miniserie televisiva I tre moschettieri (1976) diretta da Sandro Sequi – in cui, oltre a essere attore, collaborò alla sceneggiatura insieme con Sequi e Giuseppe Bertolucci – interpretava a un tempo Athos, il cardinale Richelieu e la diabolica Milady. E nel 1980 resse da solo, con la propria figura multipla – autentico uomo-orchestra, al massimo supportato da sagome mobili di legno e da bauli stipati di vestiti lussuosi – i sette personaggi di Mistica (da Nadejde, 1903, di Antonio Fogazzaro), mentre nel 1987, in Farfalle (basato su varie poesie di Guido Gozzano), appariva via via come pipistrello dorato, matrigna di Biancaneve, Cleopatra, odalisca, dea Kalì. Ma questo spiega altresì la presentazione, nel 1976, di Rosmunda (dalla tragedia del 1780 di Vittorio Alfieri), testo scomparso nelle messinscene moderne, e presentato nel pendolarismo tra sprezzatura parodica e seriosa immedesimazione negli endecasillabi rispettati con scrupolo, stavolta con esiti decisamente incerti. Più felice Bus (1982), da Exercices de style (Esercizi di stile, 1947) di Raymond Queneau (nella traduzione di Eco), ossia il catalogo dei novantanove modi per spiegare la perdita di un bottone sull’autobus, risolti nella ridda babelica di generi, da favola pastorale a conte settecentesco, da apologo brechtiano a tragedia classica, da opera lirica a numero da music hall.
Ma è la musica che per lo più scioglieva le oscurità degli spettacoli di Poli e riduceva il rischio dell’autoreferenzialità; musica direttamente saggiata dall’attore nella regia di opere, da una prudente e rispettosa Traviata (1853) di Giuseppe Verdi nel 1981 a Pierino e il lupo (Petya i volk, 1936) di Sergej Prokof'ev e L’elefantino Babar (L'histoire de Babar, le petit éléphant, 1945) di Francis Poulenc, entrambi nel 1993, a Storia del soldato (Histoire du soldat, 1918) di Igor’ Stravinskij nel 1998.
In Caterina de’ Medici (da La reine Margot, 1845, di Alexandre Dumas père) del 2000, sfoggiava gli intrighi e i cinismi dell’ambiziosa madre di tre sovrani, a conferma della sua convinzione che funzionano meglio sul palco i personaggi negativi rispetto a quelli buoni. Si pensi che nel pezzo Piccoli martiri, contenuto nella citata La vispa Teresa, si compiaceva di rappresentare la perfida che acceca i bambini; ma il consueto distacco ironico conviveva con le iperboli sensuose allorché questa rimpiangeva i focosi amplessi con l’amante, il tutto entro l’eleganza di una cornice intonata a balletto di corte e largo uso di pupazzi, e ruoli femminili affidati a maschietti.
In Sei brillanti (2006), su alcune primedonne del giornalismo italiano di due secoli – con monologhi resi tutti da solo, tanto da meritarsi il premio Olimpici (dopo il Flaiano nel 1996) – sembrava quasi ricambiare la solidarietà di firme prestigiose femminili, da Cederna a Natalia Aspesi, ed esaltava gli amori saffici cantati da Mura (Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri).
Tra i modelli della sua ricca biblioteca, l’area illuminista gli dettò nel 1988 Legami pericolosi (da Les liaisons dangereuses, 1782, di Pierre Choderclos de Laclos) e nel 1996 I viaggi di Gulliver (da Gulliver's travels, 1726, di Jonathan Swift). Analogamente, forti suggestioni da Denis Diderot gli suggerirono nel 1981 Paradosso – messo in scena in occasione del Carnevale della ragione promosso dal regista Maurizio Scaparro alla Biennale – in cui, adagiato assieme alla sorella Lucia su lettini gemelli, leggeva passi dal Paradoxe sur le comédien (1770-1780), e nel 2002 Jacques il fatalista (da Jacques le fataliste et son maître, 1765-1784). In questo contesto si iscrivono anche l’iperbole di provocazioni e l’anti pruderie di Magnificat (1984), satira della Controriforma (in cui compare anche una didattica omofila tenuta da Poli abate a quattro chierichetti), basata su testi che spaziano da Pietro Aretino a François Rabelais, da Francesco Petrarca a Galileo Galilei.
Ma per la limpidezza del dettato, per la scarnificazione e la sobrietà del vocabolario, antitesi alle baroccherie e alle dismisure precedenti, nel 2009 si appoggiò pure su Goffredo Parise per Alfabeto (da Sillabario, 1972-1982), dove rafforzò modelli e motivazioni per proseguire nel senso dell’ariosità, con uno spettacolo sempre intarsiato di commenti canori ammiccanti e sfasati rispetto al contesto, motivi presi in prestito da Osiris e Nilla Pizzi, Gorni Kramer (Francesco Kramer Gorni) e Gino Paoli, come se un oratorio andasse a sbattere su un cabaret. Qui l’infaticabile lettore dei Cantafiaba della televisione (nei primi anni Sessanta) incrociò il gusto favolistico, liberando le fantasticherie surreali già offerte nel 1985 in Cane e gatto – bestiario strampalato da pagine novecentesche nostrane, da Alberto Moravia a Tommaso Landolfi, dall’onnipresente Aldo Palazzeschi a Guido Bacchelli – riprese nel 1994 nel priapeo L’asino d’oro (da Metamorphoseon, noto come Asinus aureus, di Apuleio) e culminate nel 2007 in Le fate, con innesti eterogenei, tra cui Matteo Bandello e Charles Perrault, e la giocattoleria naif di Emanuele Luzzati.
Gli spettacoli che conclusero una febbrile operosità creativa furono Il mare del 2010 (dalla raccolta di racconti Il mare non bagna Napoli, 1953, di Anna Maria Ortese) e Gli aquiloni del 2012, montaggio di materiali da Giovanni Pascoli, portato in giro nella stagione 2013-2014, fino alla sosta definitiva per ragioni di stanchezza, oltre che per lo sfinimento dell’inventore di spettacoli di cui per lo più era il solitario intestatario produttivo.
Interruzione solo parziale del lavoro, però. Se il logorio di tournées affaticanti per oltre mezzo secolo di carriera –in giri scomodi, spesso per la sperduta provincia italiana – e la stanchezza per un’oggettiva solitudine, specie agli inizi, nel panorama paludato della scena nostrana, ebbero il sopravvento sulle energie ancora intatte, fiaccandone innanzitutto la voce prima possente e tanto duttile, per oltre due anni continuò pur tuttavia a mostrarsi in felici apparizioni televisive –in particolare nella trasmissione su RAI 3 del 2015 E lasciatemi divertire. Viaggio nei sette vizi capitali, con Pino Strabioli, già suo partner in scena nei Viaggi di Gulliver – in programmi vintage, in rivisitazioni di precedenti serie.
L’8 gennaio 2016, alla riapertura del fiorentino Teatro Niccolini, mise ancora una volta in mostra la sua singolare memoria – prodigiosa davvero, data l’età avanzata – sciorinando al volo la poesia I fiori (dal romanzo Il codice di Perelà, 1911) del suo prediletto Palazzeschi, cui aveva già reso omaggio nel 2000 con Aldino, mi cali un filino?, florilegio efficace di citazioni dello scrittore fiorentino, tra cui la pruriginosa Visita alla Contessa Pizzardini Ba (dalla raccolta L’incendiario, 1910). Ma appunto I fiori, pezzo indiavolato, pregno di veleni caustici e di ilari, blande oscenità, erano ignari di essere l’ultima uscita pubblica dell’artista. Il 18 febbraio 2016 Poli venne infatti colpito da un’ischemia che ne ridusse l’autonomia e lo colpì crudelmente proprio nella parola. Il 25 marzo, assistito dai parenti, si spense all’ospedale romano Fatebenefratelli.
Opere. Cofirmate con Ida Omboni, varie drammaturgie, tra cui: Rita da Cascia, Milano 1967; Carolina Invernizio, Milano 1970; Telefoni bianchi e camicie nere (contiene i testi degli spettacoli L'uomo nero e Femminilità), Milano 1975; Giallo!!!, Milano 1977; Mistica, Montepulciano 1980; Giuseppe Giuseppe! Filastroccario verdiano, Montepulciano 1981. Utili i libri Alfabeto Poli, a cura di L. Scarlini, Torino 2013, e Sempre fiori mai un fioraio. Ricordi a tavola, a cura di P. Strabioli, Milano 2013. Opportuno anche, per la costruzione del proprio mito, Siamo tutte delle gran bugiarde. Conversazione con Giovanni Pannacci, Roma 2018.
R. Di Giammarco, Paolo Poli, Roma, 1985 (nella bibliografia, presente anche la ricca discografia); La scena en travesti. Il travestitismo nello spettacolo italiano, a cura di A. Jelardi, G. Farruggio, E. Savarese, G. Bassetti, Roma 2009 (in partic. G. Meis, Saggio-conversazione con Paolo Poli, pp. 183-204); T. Megale, Paolo Poli, l’attore lieve, Bergamo 2009; S. Di Michele, Ottant’anni da regina. Paolo Poli, La Madre della Patria, in Il Foglio Quotidiano, 9 ottobre 2010, pp. V-VIII; M. Romiti, Paolo Poli e Lele Luzzati. Il Novecento è il secolo nostro. Dialoghi tra Paolo Poli e Marina Romiti fra le scenografie e le invenzioni di Lele Luzzati, prefazione di N. Aspesi, Firenze 2012; T. Megale, Paolo Poli, in Archivio multimediale dell'attore italiano, sotto la dir. di S. Ferrone, Firenze 2013, http://amati.fupress.net/S100?idattore=1730; T. Megale, Paolo Poli, in Drammaturgia, 4, 2017, pp. 205-248