Paolo Rossi
Storico della filosofia, della scienza e delle idee nel senso più ampio del termine, Paolo Rossi è autore di studi fondamentali sulla rivoluzione scientifica, molti dei quali tradotti in diverse lingue e internazionalmente riconosciuti come classici della storiografia del Novecento. Con i suoi numerosi interventi nei dibattiti su aspetti cruciali della modernità e della contemporaneità ha dimostrato quanta importanza possa avere la ricerca sul passato anche nel porre nella giusta prospettiva le discussioni sul presente. Maestro di molte generazioni di allievi, scrittore capace di coniugare il rigore scientifico con uno stile lucido e brillante apprezzato anche dai non specialisti, promotore di iniziative editoriali, ha contribuito in modo decisivo a diffondere l’immagine della filosofia come indagine sulle diverse forme della cultura e a istituire la storia della scienza come disciplina autonoma anche nel nostro Paese.
Paolo Rossi nasce il 30 dicembre 1923 a Urbino, dove il padre Mario insegna italiano e latino nei licei. La madre, Emilia Monti, una delle prime donne in Italia a compiere studi di psicologia, si era laureata in filosofia nel 1916 a Firenze con Francesco De Sarlo. Nella stessa università lo zio paterno Gilberto Rossi (1877-1960) insegnò fisiologia per trent’anni. Cresciuto tra Ancona, Bologna e Città di Castello, Rossi si laurea in filosofia a Firenze nel 1946 sotto la guida di Eugenio Garin, discutendo una tesi sulla filosofia della libertà in Piero Martinetti. Nei due anni successivi insegna al liceo classico di Città di Castello, dove conosce Andreina Bizzarri, che diventerà sua moglie e inseparabile compagna di tutta la vita, e da cui avrà due figli: Mario e Anna. Assistente di Antonio Banfi (1886-1957) a Milano nel 1948, lavora alla Mondadori come redattore e traduttore.
Libero docente di storia della filosofia nel 1954, professore incaricato di filosofia della storia a Milano (1955-61), è professore ordinario di storia della filosofia a Cagliari (1961-62), poi a Bologna (1962-66), quindi a Firenze fino al pensionamento (1999). Muore a Firenze il 14 gennaio 2012. È sepolto nella tomba di famiglia a Città di Castello: lì, dove lo conoscevano tutti, aveva una casa di campagna in cui amava ritirarsi per studiare, creare oggetti nel suo attrezzato laboratorio di falegnameria e frequentare gli amici di sempre. Di Città di Castello era stato nominato cittadino onorario. Nel 1962 aveva aggiunto il cognome della madre, Monti, a quello paterno, ma ha sempre firmato i suoi scritti solo con quest’ultimo.
Professore emerito dell’Università di Firenze, membro dell’Accademia europea e dell’Accademia dei Lincei, medaglia Sarton della American History of Science Society (1985), premio Viareggio nel 1992 per il volume Il passato, la memoria, l’oblio (1991), premio Marc-Auguste Pictet della Société de physique et d’histoire naturelle di Ginevra (2003), laureato ad honorem delle Università di Pavia (2004) e Bologna (2006), premio Musatti della Società psicoanalitica italiana (2008), premio Balzan per la storia della scienza (2009), cavaliere di gran croce della Repubblica italiana (2009), Rossi è stato anche presidente della Società filosofica italiana (1980-83), fondatore e primo presidente della Società italiana di storia della scienza (1983-90) e della Società italiana per lo studio dei rapporti fra scienza e letteratura (1997-2007).
Alla formazione di Rossi contribuirono, oltre al magistero di Garin, al rapporto con Banfi e alle discussioni con gli allievi più anziani di quest’ultimo (Luciano Anceschi, Enzo Paci, Giulio Preti, Remo Cantoni, Dino Formaggio), la partecipazione alle attività del gruppo ‘neoilluministico’ promosse da Nicola Abbagnano, l’interesse per la scienza, la tecnica e l’epistemologia diffuso nell’ambiente milanese, il legame con il gruppo di intellettuali che si riunì intorno all’associazione culturale bolognese del Mulino, l’esigenza di aprire la filosofia e la storiografia italiane alle esperienze maturate fuori dei confini dell’idealismo, l’incontro al Warburg Institute di Londra con Frances A. Yates (1899-1981) e la frequentazione con la ‘storia delle idee’ di Arthur O. Lovejoy (1873-1962) e di George Boas (1891-1980).
Dalla Yates trasse stimolo per i suoi studi sull’arte della memoria, dalla storia delle idee la conferma della convinzione, già maturata nel rapporto con Garin, che il lavoro storiografico non possa limitarsi alla ricostruzione razionale di pochi problemi filosofici ritenuti (a posteriori) fondamentali, ma deve cogliere l’esperienza filosofica nei suoi rapporti con gli altri aspetti della cultura e indagare il passato senza proiettarvi le attuali certezze o partizioni disciplinari. Ne derivava la necessità di portare al centro della ricerca anche temi marginalizzati da molta storiografia, sia positivistica sia soprattutto idealistica, che li aveva considerati poco ‘filosofici’: l’arte della memoria, i linguaggi artificiali, il rapporto tra l’eredità della magia e dell’alchimia e lo sperimentalismo dei moderni, il sapere come strumento di dominio dell’uomo sulla natura, gli atteggiamenti dei filosofi e degli intellettuali in genere verso la tecnica e le macchine.
Dopo una breve monografia dedicata all’umanista ed eretico trentino Giacomo Aconcio (1952), scritta sotto l’influenza degli studi di Garin sull’Umanesimo italiano e di Delio Cantimori sugli eretici del Cinquecento, Rossi pubblica nel 1957 Francesco Bacone dalla magia alla scienza, esito di ricerche iniziate a Milano nel 1950. È l’opera che lo impone all’attenzione internazionale e diventa ben presto un classico della storiografia filosofica del Novecento. Presenta un Bacone nuovo: non più il simbolo, consacrato nell’Ottocento, di un ingenuo induttivismo protopositivistico, e nemmeno l’anticipatore «filosofo dell’età industriale» descritto da Benjamin Farrington (1891-1974) in un brillante saggio (Francis Bacon, philosopher of industrial science, 1951) di cui Rossi curò e introdusse l’edizione italiana (1952), ma il proponente di una filosofia che aveva un debito profondo verso la stessa tradizione a cui reagiva.
Come osservò Boas, le nuove interpretazioni di Rossi si fondavano su una vasta e rigorosa ricostruzione storica. L’analisi del contesto culturale faceva emergere le differenze tra la magia come sapere segreto e la concezione baconiana di una scienza che fosse insieme conoscenza del mondo e intervento sul mondo, che nascesse dalla collaborazione e fosse accessibile a tutti (Boas 1958, pp. 584-87). Quello di Rossi, scrisse un anonimo recensore della traduzione inglese (Francis Bacon. From magic to science, 1968), era «uno studio affascinante» che aveva, fra gli altri, «il grande merito di accettare la complessità dei processi intellettuali», senza «indulgere in false semplificazioni» e senza «cadere nella trappola dell’imporre una coerenza postuma all’oggetto dell’indagine». Rossi «dimostrava, con grande erudizione e buon senso, quanto Bacone avesse preso da molte mode e tradizioni del suo tempo, anche quando in altri scritti ne accusava gli esponenti», e scorgeva sviluppi nel pensiero di Bacone che erano sfuggiti a critici meno accorti» (Baconianism, 1968, p. 833). La stessa Yates elogiò il modo in cui Rossi dimostrava definitivamente come i temi baconiani del dominio sulla natura e del miglioramento della condizione umana attraverso il sapere fossero già presenti nella magia rinascimentale: Bacone disapprovava le filosofie rinascimentali della natura, ma allo stesso tempo ne emergeva (Yates 1968). Secondo Thomas S. Kuhn (1922-1996), il Bacone descritto da Rossi come una «figura di transizione tra il mago Paracelso e il filosofo sperimentale di Robert Boyle» aveva «contribuito più di ogni altra cosa, in anni recenti, a modificare la comprensione storica dei modi in cui erano nate le scienze sperimentali» (T.S. Kuhn, The essential tension, 1975; trad. it. 1985, p. 62).
L’interesse per la magia era sorto in Rossi quando Garin aveva pubblicato i Testi umanistici sull’ermetismo (1955). Tuttavia già negli anni Sessanta, Rossi venne distanziandosi sempre più dalla visione gariniana di una continuità essenziale fra Umanesimo, Rinascimento e modernità: la scienza moderna, sosteneva Rossi, era nata da una rivoluzione, e questa aveva il suo fulcro nel naturalismo sperimentale, non nell’Umanesimo civile, nella rinascita del platonismo, nelle filosofie rinascimentali della natura o nella difesa dell’autonomia dell’uomo e della sua centralità nel cosmo. Il dissenso finì con il riguardare la stessa Yates, la quale, agli occhi di Rossi, insisteva giustamente sulla necessità di studiare l’occultismo e la magia, ma tendeva in qualche modo a sottolineare esclusivamente gli elementi di continuità fra la tradizione ermetica e l’immagine moderna della scienza. Per tutta la vita Rossi ha ribadito che gli intrecci fra il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’, nel caso di Bacone come di altri protagonisti della Rivoluzione scientifica, non autorizzano affatto a misconoscere, o addirittura a negare, che nella storia delle idee si diano svolte decisive. Queste determinano, nel corso del tempo e attraverso vicende tortuose, conseguenze così grandi da indurre a credere che le svolte non siano mai avvenute, che le alternative fra cui scegliere siano sempre state poche e facili da affrontare, come se tutto si fosse svolto in una sorta di eterno presente. Come scrisse Charles Schmitt nella motivazione dell’assegnazione a Rossi della medaglia Sarton, il Bacone aveva contribuito più di ogni altro libro a rivalutare l’importanza della magia e dell’occultismo nella prima scienza moderna, ma Rossi «non aveva lasciato che le questioni centrali si allontanassero dal punto focale» (Schmitt 1985, p. 138), come invece era avvenuto in seguito, quando l’enfasi sulla tradizione ermetica era diventata una sorta di moda storiografica.
Tuttavia, Rossi era critico anche verso quegli studiosi i quali tendevano a ridurre le innovazioni al mero piano del pensiero teorico: Alexandre Koyré (1892-1964), ai cui lavori pure attribuiva un’importanza decisiva, aveva secondo Rossi trascurato l’importanza degli esperimenti e degli strumenti nella genesi della scienza moderna (Sulla scienza e gli strumenti, in Musa musaei. Studies on scientific instruments and collections in honour of Mara Miniati, 2003, pp. 141-53). In una concezione della scienza che privilegiava il platonismo e il matematismo, Bacone era giudicato un filosofo «credulo e affatto acritico», incapace di comprendere alcunché di scienza, perché legato all’alchimia, alla magia, al modo di pensare di un «primitivo» (A. Koyré, Études d’histoire de la pensée scientifique, 1966, p. 39). La rivoluzione scientifica, secondo Rossi, non era stata né baconiana né galileiana né cartesiana: era invece stata e baconiana e galileiana e cartesiana. Era assurdo dimenticare che accanto alle scienze classiche (matematica, astronomia, ottica geometrica, statica, studio geometrico del moto) si erano poi sviluppati nuovi settori scientifici: il magnetismo, l’elettricità, il calore, la chimica, che non a caso furono definite scienze baconiane. L’incontro della filosofia con le tecniche, i mestieri e gli strumenti aprivano la strada a una nuova nozione dell’esperimento, della sua funzione e del suo rapporto con le teorie.
Il Bacone di Rossi attribuiva un’importanza decisiva alle arti meccaniche e al lavoro manuale: un’altra dimensione della rivoluzione scientifica sottovalutata dagli storici e dai filosofi. E da una costola di quel libro (il cui primo capitolo era dedicato alla disputa sulle arti meccaniche) nacquero le ricerche che dettero vita a un altro volume, I filosofi e le macchine, 1400-1700 (1962), forse il libro di Rossi tradotto in più lingue (la traduzione inglese, Philosophy, technology and the arts in the early modern era, uscì a New York nel 1970).
In scritti successivi, Rossi ha confutato i diversi ritratti di Bacone di cui filosofi ed epistemologi si sono serviti per sostenere le loro concezioni della scienza. Uno di questi era «il Bacone puramente immaginario» che Karl Popper (1902-1994) rappresentava come il teorico di un’irrealizzabile mera raccolta di fatti in una mente completamente vuota, semplice recipiente. Un altro era il Bacone di Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor W. Adorno (1903-1969), che nella Dialektik der Aufklärung (1947; trad. it. Dialettica dell’illuminismo, 1966) ne avevano fatto il simbolo di tutto ciò che la scienza è stata fin dai primordi, è, minaccia di essere e non dovrebbe più essere, l’apostolo di un sapere che è essenzialmente dominio senza limiti su una natura «disincantata» e potere che non conosce freni «né all’asservimento delle creature né nella docilità verso i signori del mondo». Un altro ancora il Bacone che Carolyn Merchant (n. 1936) accusava, con Galileo Galilei, René Descartes e Isaac Newton, di avere legittimato «lo sfruttamento e la manipolazione della natura e delle sue risorse» «a beneficio dell’imprenditore borghese maschio» (C. Merchant, The death of nature: women, ecology and the scientific revolution, 1980; trad. it. 1988). Critiche analoghe Rossi ha mosso anche alle immagini parziali o distorte di Galilei, per es., al Galilei metodologicamente «anarchico» di Paul K. Feyerabend (1924-1994).
Dalle letture di testi dell’ars memorativa compiute per il sesto capitolo del Bacone nacquero le ricerche che condussero alla pubblicazione di Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz (1960; trad. ingl. Logic and the art of memory, 2000), un volume pionieristico, che precedette di sei anni The art of memory di Frances Yates. Rossi vi mostrava come l’arte della memoria non solo avesse una tradizione antichissima, che risaliva ai Greci, ma fosse una cosa viva in innumerevoli autori dell’età moderna, fino a Gottfried Wilhelm von Leibniz. Nel corso dei secoli, tuttavia, era stata volta a scopi diversi: dapprima concepita come una «tecnica neutrale» al servizio della retorica e dell’ars praedicandi, si era venuta caricando di significati metafisici. Dopo l’incontro con le tradizioni del lullismo, del cabalismo e dell’ermetismo, si era trasformata nel progetto di una enciclopedia totale, di un «teatro del mondo». Da un lato, si era intrecciata con le ricerche e le utopie intorno a una lingua artificiale e universale, dall’altro, aveva influenzato pesantemente le discussioni intorno ai sistemi di classificazione in botanica, zoologia, chimica. Era diventata parte essenziale del nuovo metodo scientifico di Bacone e Descartes, ma era anche confluita nel progetto leibniziano di una ars combinatoria, prima di scomparire come tecnica a sé.
La divergenza, a cui si è accennato sopra, dall’interpretazione gariniana del rapporto fra Umanesimo e modernità si accentuò quando Rossi pubblicò una raccolta di studi su Giambattista Vico, Le sterminate antichità (1969), nella quale presentava un pensatore molto legato alla cultura del Seicento e alla tradizionale distinzione fra storia sacra e storia profana, nutrito di letture che si arrestavano a circa mezzo secolo prima della stesura della Scienza nuova, dunque né un precursore dello storicismo ottocentesco (come volevano gli idealisti italiani), né dell’Illuminismo, né, come Garin avrebbe continuato a sostenere, il genuino erede di un Umanesimo intrinsecamente alternativo alla scienza cartesiana (cfr. i saggi di Rossi Chi sono i contemporanei di Vico? e Ancora sui contemporanei di Vico, entrambi in «Rivista di filosofia», 1981, 72, 1, pp. 51-82; 1985, 76, 3, pp. 465-74).
L’interesse per il rapporto fra magia e modernità non ha mai abbandonato Rossi. A questo tema ha dedicato non solo le pagine storiografiche su autori come Pico della Mirandola, Francesco Patrizi, Giordano Bruno, ma molte pagine di critica di aspetti della cultura contemporanea. L’incontro con l’antropologo Ernesto De Martino, suo collega a Cagliari e amico fino alla morte prematura, rafforzò Rossi nell’idea che il passaggio dal pensiero magico al pensiero razionale fosse stato l’effetto di una scelta difficile, non di una trasformazione o maturazione spontanee: il modo magico di pensare non era affatto scomparso dopo la nascita e l’affermazione della modernità, e la razionalità rimaneva una conquista precaria, da difendere (una convinzione che, come Rossi non mancò di sottolineare più volte, si trovava chiaramente già in Freud). In un libro che Rossi considerava fondamentale, Il mondo magico (1958) e in altri scritti, De Martino aveva affermato che quella scelta «non era conclusa»: il magico è ancora fra noi. Esso, scrive Rossi,
tende continuamente a riaffiorare in alcune forme della vita religiosa, nelle numerose e varie forme di plagio esercitate da molti fondatori di sètte, nella manipolazione delle coscienze da parte dei molti guru che operano nella politica, nella mistica del capo carismatico, nella stessa immagine dello scienziato onnipotente. La magia e la Tradizione Ermetica non sono state cancellate dalla storia ad opera della Rivoluzione Scientifica: sopravvivono in forme diverse e a differenti livelli (I ragni e le formiche, 1986, p. 262; cfr. Naufragi senza spettatore, 1995, pp. 115-16).
Secondo Rossi, in Italia, e non solo, dalla fine degli anni Sessanta si era venuto diffondendo un «clima antiscientifico, ermetizzante, occultistico e decisamente filomagico». In un articolo del 24 maggio 1968 su «Rinascita» intitolato Nuove analisi per il nostro tempo (poi in Storia e filosofia: saggi sulla storiografia filosofica, 1969) scriveva:
È entrata in crisi la tesi della superiorità dei moderni. Non solo nel senso di un rifiuto del progresso come cammino lineare e garantito, ma nella messa in questione del concetto stesso di civiltà moderna […] (Storia e filosofia, cit., pp. 242-43).
Il mondo della tecnica, della scienza, dell’industria non veniva analizzato nelle sue componenti storiche, ma «concepito come pura e totale negatività» (Storia e filosofia, cit., p. 249).
In questo clima proliferavano le forme più svariate di eredità del pensiero magico: rifiuti radicali di ogni progettualità, evocazioni apocalittiche, nostalgie arcadiche, ma anche sfrenati ottimismi e
farneticazioni su una nuova, stupefacente “scienza proletaria” che avrebbe presto sostituito la corrotta scienza borghese e su un pensiero magico che avrebbe dato luogo ad un’alternativa al disseccato razionalismo […] Le posizioni che riducevano la scienza a ideologia borghese, pensavano che il sapere scientifico-razionale fosse responsabile dello “svuotamento di senso” e del “disincanto del mondo”, si con-
giunsero con posizioni regressive e mistico-reazionarie. Un vero e proprio oscurantismo antiscientifico ispirato a Spengler e a Heidegger indossò i panni del marxismo sposandosi con l’eredità di Nietzsche, del vitalismo e dell’avanguardismo del primo Novecento. La ridiscesa sul piano arcaico dell’esperienza magica, l’esaltazione del primitivismo e dell’immediatezza, il rimpianto per il passato come paradiso di un’umanità non repressa, la nostalgia per il mondo contadino non apparvero più – come erano stati per lungo tempo – temi di esclusiva pertinenza del pensiero reazionario: vennero proposti e sostenuti, anche all’interno della sinistra, come validi strumenti di liberazione dai peccati e dalle alienazioni presenti nella civiltà moderna (prefazione a Francesco Bacone, cit., 20043, pp. 21, 23).
Per questo, il volume Aspetti della rivoluzione scientifica (1971, 19892 con il titolo La scienza e la filosofia dei moderni, 1989) si apriva con una premessa intitolata Il processo a Galilei nel secolo XX. Erano, vi si legge, «tornati di moda tutti gli ingredienti della rivolta neoromantica degli inizi del secolo contro la scienza». Si era andata formando e consolidando una base teorica e culturale sulla quale si innestavano, «variamente e spesso malamente rimescolati», temi e motivi tratti indifferentemente da Søren Kierkegaard e dal giovane Karl Marx, da Friedrich Nietzsche e da Freud, da Martin Heidegger e da Paul Tillich, dall’ultimo Husserl e da Adorno. Il risultato era un «oscurantismo antiscientifico ammantato da pensiero rivoluzionario» (La scienza e la filosofia dei moderni, cit., p. 14). In particolare, Rossi rilevava impressionanti analogie fra heideggerismo e tradizione ermetica (per es., nel saggio del 1988 Antichi, moderni, postmoderni; poi in Paragone, cit., cap. I). L’indagine storiografica rigorosa e condotta senza tesi preconcette dimostrava invece, secondo Rossi, che proprio quando si era formata in Europa l’idea del progresso come crescita per accumulazione delle conoscenze si era anche rafforzata la consapevolezza della precarietà del sapere e della provvisorietà del progresso, e che era insensato rappresentare la modernità come un’epoca di sviluppo lineare, di certezze assolute e di fiducia illimitata in una ragione ‘forte’. Come ogni epoca, anche la modernità presentava zone oscure, compresenza di paradigmi conflittuali, intrecci di ‘vecchio’ e ‘nuovo’. La contrapposizione fra moderno e postmoderno, fra ‘pensiero forte’ e ‘pensiero debole’ era così minata alla radice.
Una sorta di ritorno della magia era ravvisabile, secondo Rossi, anche in quelle forme del pensiero ecologista che rivendicavano un ritorno al passato, «i diritti della mela di Adamo contrapposta a quella di Newton» (Gli scacchi alla ragione, «Rinascita», 4 aprile 1974, pp. 19-20). Oggi si è fatta strada una «convinzione ecologica» secondo la quale «ogni cosa è connessa a ogni altra cosa, e in natura i processi interattivi hanno un’importanza prioritaria: tutte le parti dipendono l’una dall’altra e influiscono reciprocamente l’una sull’altra e sul tutto». Per es., la già citata Merchant aveva descritto il mondo ucciso dal determinismo e dal meccanicismo impostisi con la rivoluzione scientifica fra Bacone e Newton come «organico», materno, olistico. Ma, si chiede Rossi:
questa convinzione ecologica non è singolarmente vicina alla visione magica del mondo? alle tesi presenti in Marsilio Ficino, Giordano Bruno e Tommaso Campanella di un tutto vivente? (Francesco Bacone, 20043, p. 36).
A quelle che considerava tentazioni primitivistiche, e nelle quali vedeva anche una persistenza del narcisismo infantile descritto da Freud, Rossi contrapponeva la convinzione che per far fronte alla crisi ecologica e alla rarefazione delle risorse occorresse maggiore responsabilità, consapevolezza e razionalità nell’uso degli strumenti della scienza e della tecnica, non il loro rifiuto. Riprendendo dall’economista Kenneth Boulding (1910-1993) la metafora della Terra come navicella spaziale, scriveva:
Qui lo spazio è poco, le risorse scarseggiano e la sopravvivenza dipende principalmente dalla capacità di risparmiare e di riciclare le risorse. Ciò richiede […] non l’abbandono alla spontaneità, ma l’uso di tecniche molto sofisticate (Dedalo e il labirinto: l’uomo, la natura, la tecnica, in Pensare la natura. Dal Romanticismo all’ecologia, a cura di G.F. Frigo, P. Giacomoni, W. Müller-Funk, 1998, pp. 37-38).
Nel mito baconiano di Dedalo, Rossi vedeva non l’espressione di un’«ingenua e sanguigna fiducia nell’ideologia del dominio», ma la consapevolezza dell’«ambiguità costitutiva della tecnica»: la stessa persona, ingegnosa ed esecrabile a un tempo, che aveva costruito il labirinto aveva anche escogitato lo stratagemma del filo per uscirne; «la tecnica produce il male e offre rimedi al male». L’uomo deve rinunciare la pretesa all’onniscienza, abbandonando, «insieme e contemporaneamente, il sadismo dello sfruttatore e il masochismo del rinunciatario» (Dedalo e il labirinto, cit., pp. 40-41).
Parallelamente a queste riflessioni, l’interesse per la memoria e il ‘mondo mentale’, per l’oblio e il ritorno del passato, avevano spinto Rossi a letture di antropologia, psicologia, psichiatria, psicoanalisi, sempre compiute nella prospettiva dello storico delle idee. Di queste letture si sono nutriti numerosi saggi, come quelli che formano i volumi Il passato, la memoria, l’oblio (1991) e Bambini, sogni, furori (2001), e l’agile Mangiare (2011). Quest’ultimo, pur nella sua brevità, mostra di quanti significati antropologici e culturali sia carico uno dei comportamenti umani apparentemente più elementari, e come insieme con il cibo si consumino non soltanto desideri primari, ma anche emozioni profonde, ossessioni, intrecci inestricabili di natura e cultura.
Forte delle sue analisi storiche, Rossi ha scritto saggi, spesso polemici, intesi a mostrare l’inconsistenza delle interpretazioni e delle basi storiografiche (spesso veri e propri errori) su cui critici della modernità e postmoderni fondano le loro ricostruzioni del passato e del presente. Si tratta, ha sostenuto, di immagini false, al pari degli idola baconiani (‘Idola’ della modernità, «Rivista di filosofia», 1986, 77, pp. 423-47, poi in Paragone, cit., pp. 39-63).
Gran parte di questi scritti furono pubblicati nella «Rivista di filosofia», con la quale Rossi aveva collaborato fin dal 1955 e del cui comitato direttivo era entrato a far parte nel 1969. Sono in seguito stati raccolti, insieme con saggi nuovi e spesso con aggiunte, in diversi volumi (I ragni e le formiche. Un’apologia della storia della scienza, 1989; Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, 1995; Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, 1991; Il passato, la memoria, l’oblio. Sei saggi di storia delle idee, 1991). Il discorso polemico di Rossi si estendeva alle «diagnosi “epocali” e “negative” della modernità» presenti in molte filosofie contemporanee, nelle quali si dà della tradizione filosofica dell’Occidente l’immagine come di «un’entità organica e unitaria entro la quale sarebbe dato di reperire una (ben chiara) “direzione”» (Paragone, cit., p. 7). Certo, «l’adesione a modelli rigidi, l’impiego di modi di pensare fondati su grandi dicotomie» riescono ad
attenuare o a cancellare il significato e il fascino delle “avventure di idee” […] Ma quando si ha a che fare con le avventure di idee è sempre difficile scrivere la parola fine. Le radicali alternative, le contrapposizioni forti, le affermazioni di carattere epocale si rivelano sempre di più strumenti insufficienti e parziali (Il passato, la memoria, l’oblio, cit., p. 52).
In particolare, Rossi ha rivolto questo genere di critiche a quegli intellettuali, soprattutto italiani, che, vuoi in nome della militanza politica, vuoi in virtù di una autoattribuita qualità vaticinante o profetica, si sono sentiti in diritto di pronunciare diagnosi, esortazioni, sentenze, salvo rifugiarsi nell’ambiguità o nel ripensamento al momento opportuno (cfr. soprattutto i saggi Fra Arcadia e Apocalisse: note sull’irrazionalismo italiano degli anni Sessanta, in G. Luti, P. Rossi, Le idee e le lettere, 1976, pp. 61-117, poi in Paragone, cit., pp. 65-122, ed Eredità occulte: intellettuali italiani nel dopoguerra, «Rivista di filosofia», 2009, 100, pp. 99-116).
Il volumetto Speranze (2008), infine, riunisce in poche, brillanti e cautamente appassionate pagine le sue critiche sia alle profezie apocalittiche sia alle prospettive utopistiche, ribadisce il suo rifiuto dell’alternativa fra nostalgia e disperazione e, nello spirito di Bacone, indica i motivi per nutrire impegnative, «ragionevoli speranze».
Già dallo studio su Bacone e il suo contesto culturale Rossi aveva ricavato un ammaestramento generale circa il posto della filosofia nelle faccende umane. Nel corso degli anni è venuto esplicitandolo, indotto a ciò soprattutto dalla tendenza diffusa, in Italia e non solo, a svalutare il lavoro storiografico come privo di vera dignità filosofica. Già le ragioni del fatto che molti «filosofi di professione» hanno manifestato nei confronti di Bacone un vero e proprio «accanimento» gli sembravano probabilmente da ricercare in questo, che «ciò che i filosofi amano di più è la convinzione che la filosofia (a volte: la loro propria, personale filosofia) sia il motore primo dei grandi mutamenti o il disvelamento del significato nascosto e profondo della storia». Il loro non è, come quello di Bacone, il racconto di «un rischioso viaggio nelle infide acque dell’Oceano», ma «l’enunciazione di un fatale destino».
Questo tipo di filosofia non è un’invenzione recente. Era ben noto anche al lord cancelliere, che la definì almeno due volte. La prima volta scrisse: la tradizione filosofica ha costruito innumerevoli mondi da palcoscenico dove le storie hanno come unica prerogativa quella di corrispondere ai desideri di ciascuno. La seconda volta scrisse: hanno l’aria di cuochi inarrivabili e ti danno da mangiare sempre lo stesso piatto, che è, invariabilmente, carne di porco domestico.
Forse, proprio la spregiudicata negazione del carattere decisivo della filosofia è ciò che una parte della posteriore tradizione filosofica non ha mai perdonato a Francis Bacon (Francesco Bacone, 20043, p. 47).
Molti filosofi, osservava Rossi, tendono a usare la parola filosofia «come un termine “onorifico” anziché descrittivo». Per loro, il ricorso al contesto storico delle filosofie del passato ha senso solo se funzionale alla ricostruzione di «argomenti razionali», ma questi, pur avendo un peso grandissimo e un rilievo straordinario nella storia, non sono l’unica cosa che meriti di essere studiata o quella in funzione della quale tutto il resto debba essere usato. Le critiche di Rossi erano state rivolte in un primo tempo soprattutto alla storiografia filosofica idealistica, poi si erano estese a tutte le forme di ‘ricostruzione razionale’ del passato che in nome di una razionalità concepita secondo canoni attuali o, peggio, eterni, facevano violenza alla complessità del passato schiacciandolo sotto il peso di proiezioni a posteriori: la storia tutta ‘interna’ della scienza praticata per lo più dagli scienziati, la storia di discipline tra loro separate, la storia di comodo narrata dagli epistemologi a caccia di meri esempi a sostegno delle loro teorie, la storia inventata dai filosofi amanti delle sintesi e delle diagnosi epocali. Rossi confessava invece di aver sempre avuto «una spiccata predilezione per il mondo spesso ambiguo e sfuggente delle idee, delle metafore, dei modi di percepire e pensare il mondo, delle scelte e delle “preferenze” o (per usare termini venuti più tardi di moda) dei paradigmi, themata, immagini della scienza, tradizioni di ricerca, conoscenze tacite o inespresse, stili di pensiero» (Il passato, la memoria, l’oblio, cit., p. 8). Tutte cose, continuava,
che agiscono con forza, anche se spesso in modi non immediatamente evidenti, anche sulle più rispettabili “teorie” e sulla scelta fra le molte possibili argomentazioni alle quali fanno ricorso, per sostenerle e propagandarle, i filosofi e gli scienziati […] Anche lo studio dei “fossili intellettuali” è in grado di insegnare molte cose (p. 60).
Con «immagini della scienza» – un termine per il quale riconosceva un debito verso lo storico della scienza israeliano Yehuda Elkana (1934-2012) – Rossi intendeva «quell’insieme di pensieri, riflessioni, affermazioni, convinzioni su ciò che la scienza è o dovrebbe essere». Su questo piano, affermava,
nascono le preferenze per un tipo di scienza fondato sulle costruzioni di modelli astratti o sulla ripetizione degli esperimenti. Nascono le gerarchie fra le fonti della conoscenza, le decisioni di considerare problemi rilevanti alcune delle infinite questioni aperte, le delimitazioni dei campi di indagine, le linee di demarcazione fra scienza e pseudoscienza (Scienze della natura e scienze dell’uomo: alcune vie di comunicazione, «Intersezioni», 1981, 1, poi in La nuova ragione. Scienza e cultura nella società contemporanea, a cura di P. Rossi, 1981, pp. 148-49).
Riconoscere tutto ciò, tuttavia, non significa affatto ridurre le teorie scientifiche a meri sistemi di credenze. Parallela alla tendenza dei filosofi a ridurre la storia a ricostruzione razionale, e ugualmente pericolosa, era per Rossi la tendenza quasi inevitabile degli storici delle discipline speciali a limitare le loro narrazioni a un’immaginaria comunità transtemporale di ‘specialisti’ di quella tale disciplina (o reclutabili in essa a posteriori). È come se si illudessero che «la specialità di cui si occupano sia esistita da sempre: ne recuperano i contenuti in una varietà di testi che appartengono a epoche diverse e a terreni eterogenei e costruiscono le linee di sviluppo di un oggetto immaginario». Ma, come notava Georges Canguilhem (1904-1995), «l’oggetto della storia della scienza non coincide affatto con l’oggetto della scienza» (I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, 20032, pp. 9-10). Ha indubbiamente un senso collegare la logica aristotelica a quella tardomedievale e a quella di Leibniz, o le classificazioni di Plinio a quelle di Linneo, o le dottrine alchimistiche a quelle di Antoine-Laurent Lavoisier, o le teorie linguistiche di Aristotele a quelle di Descartes e di Noam Chomsky, o i discorsi di Athanasius Kircher sull’Egitto agli studi di Jean-François Champollion. Ma, così facendo, si escludono dalle genealogie «molte ingombranti presenze» e «personaggi che hanno avuto un comportamento poco raccomandabile» e frequentato «disdicevoli compagnie». Il risultato è che,
ridotto a una specie di tavola rotonda fra epistemologi, o chimici, o egittologi, o studiosi di botanica o di linguistica, il passato serve solo a trovare facili conferme delle verità codificate nei manuali universitari del presente. Perde ogni rilievo e ogni spessore teorico (Il passato, la memoria, l’oblio, cit., pp. 60-61).
Nulla, per es., farebbe oggi pensare a un terreno comune di discussione fra filosofi, geologi, paleontologi, cosmologi, antropologi, linguisti, teologi e storici; eppure ne I segni del tempo Rossi ha dimostrato che l’abbandono della cronologia biblica e la scoperta del tempo profondo, sia nella natura sia nella storia, emerse da una rivoluzione intellettuale in cui furono coinvolti personaggi come Vico, Newton, Georges-Louis Leclerc conte di Buffon e una folla di figure meno note, in un intreccio di problemi, opinioni, polemiche incomprensibile a chi guarda al passato attraverso gli occhiali del presente. Se né la storia della filosofia, né la storia della scienza sono processi unitari, non è possibile pensare che vi sia un metodo storiografico unico, e nemmeno migliore degli altri: «una varietà di approcci e di metodi non ha, nella ricerca storica, nulla di negativo»; di più: «la ricerca di strutture fondamentali che regolano lo sviluppo del pensiero» e che dovrebbero condurre a una storiografia “scientifica” non è «né un compito importante né un ideale accettabile» (Storia e filosofia, cit., pp. 233-34).
La storia assomiglia a un viaggio nel passato nel quale si percorrono, seguendo strade sconosciute, Paesi diversi dal nostro e si incontrano persone che parlano lingue diverse dalla nostra. Come fanno coloro che viaggiano nello spazio e nel presente, tentano di assumere su di sé (anche se si tratta di un’idea regolativa) il compito di “imparare a dimenticare chi siamo e come pensiamo” (Filosofia e storia della filosofia, in La filosofia, a cura di P. Rossi, 2° vol., 1995, p. 466).
Non è solo il futuro ad essere imprevedibile […] Anche il passato è pieno di cose nuove e sconosciute […] Anche esso sfugge alle classificazioni, alle pretese nonché all’arroganza di molti filosofi. E tutto questo fatalmente conduce a mettere in causa, direttamente o indirettamente, le certezze del presente. Conduce al copernicanesimo cognitivo ovvero al definitivo abbandono dell’idea di poter essere sempre e comunque collocati al centro della storia del mondo (Un altro presente, 1999, p. 27).
Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Bari 1957, Torino 19742, Bologna 20043.
Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Milano-Napoli 1960, Bologna 19832.
I filosofi e le macchine, 1400-1700, Milano 1962, 19743, rist. 2002.
Le sterminate antichità. Studi vichiani, Pisa 1969 (nuova ed. ampliata con il titolo Le sterminate antichità e nuovi saggi vichiani, Firenze 1999).
Storia e filosofia: saggi sulla storiografia filosofica, Torino 1969, ed. ampliata 1975, nuova ed. 2002.
Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli 1971 (ed. ampliata con il titolo La scienza e la filosofia dei moderni, Torino 1989).
G. Luti, P. Rossi, Le idee e le lettere. Un intervento su trent’anni di cultura italiana, Milano 1976.
Immagini della scienza, Roma 1977.
I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Milano 1979, 20032.
I ragni e le formiche. Un’apologia della storia della scienza, Bologna 1986.
Storia della scienza moderna e contemporanea, a cura di P. Rossi, Torino 1988, Milano 20002.
Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Bologna 1989, poi, con tre nuovi saggi, 2009.
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Naufragi senza spettatore. L’idea di progresso, Bologna 1995.
La nascita della scienza moderna, Roma-Bari 1997 (trad. ingl. The birth of modern science, Oxford 2001).
Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia, Bologna 1999.
Bambini, sogni, furori. Tre lezioni di storia delle idee, Milano 2001.
Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, Milano 2006.
Speranze, Bologna 2008 (trad. francese Espoirs, Paris 2008).
Mangiare, Bologna 2011 (trad. francese Manger. Besoin, désir, obsession, Paris 2012).
La scienza ieri e oggi, a cura di M. Borri, Parma 2012.
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Focus - Ricordo del prof. Paolo Rossi, a cura di A. Pagnini, «L’Arco di Giano. Rivista di medical humanities», primavera 2013, 75 (saggi di A. Pagnini, D. von Engelhardt, A. La Vergata, G. Corbellini, A. Ballerini).