Paolo Ruffini
Paolo Ruffini, medico e matematico, deve la sua fama principalmente ai risultati ottenuti nel campo delle equazioni algebriche, anche se i suoi interessi spaziarono in ogni ramo della matematica. Come docente in tutte le discipline matematiche del suo tempo, socio e poi presidente della Società italiana delle scienze, membro dell’Istituto nazionale napoleonico e di altre numerose accademie, svolse una notevole funzione didattica e di relazione nel mondo scientifico italiano.
Paolo Ruffini contribuì non poco a dar lustro al ducato estense, che dal 1598 aveva in Modena la sua capitale. Nacque il 22 settembre 1765 a Valentano (Viterbo), dove il padre, d’origine reggiana, esercitava la professione medica. Ben presto la famiglia ritornò alla città di origine, dove Ruffini trascorse i primi anni della vita, che poi proseguì interamente nella capitale del ducato, tanto da essere usualmente considerato modenese.
Nella locale università, dopo il biennio filosofico, seguì il quadriennio di studi medici, laureandosi nel 1788. Nel biennio filosofico (obbligatorio prima della scelta della facoltà), venivano impartiti anche insegnamenti fisico-matematici e qui Ruffini ebbe come maestri Paolo Cassiani, Luigi Fantini e Giambattista Venturi. Fu proprio Cassiani che maggiormente contribuì alla sua formazione matematica e ben presto notò le sue capacità, tanto che nel 1787, quando rinunciò all’insegnamento perché nominato ministro del Consiglio d’economia, caldeggiò la nomina dell’allievo, ancora studente, a suo sostituto.
Per Ruffini iniziò così l’attività accademica di professore di matematica, che proseguì fino a pochi giorni dalla morte con la sola interruzione dell’anno 1798-99. Con il conseguimento della laurea, la nomina a professore universitario fu ufficializzata e, a partire dal 1791, egli intraprese anche l’esercizio della professione medica. Nell’arco della sua vita vide l’avvicendamento di diversi governi: gli Estensi (fino al 1796), il dominio francese con la Repubblica Cispadana poi Cisalpina, la Repubblica Italiana e il Regno d’Italia (fino al 1814, salvo un intermezzo austro-russo, 1799-1800), la Restaurazione con il duca austro-estense Francesco IV (dal 1814). Nonostante il suo spirito conservatore, Ruffini accettò il succedersi degli eventi mantenendo un certo distacco dall’impegno politico e facendosi valere per le capacità scientifiche, il rigore morale e la difesa incondizionata della religione cattolica. Per quest’ultimo motivo, quando nel 1798 fu imposto ai pubblici funzionari di prestare giuramento alla Repubblica, egli rifiutò, non essendogli stato concesso di aggiungere alla formula che «intendevasi rispettata e salvata la Religione»; fu così destituito dall’insegnamento, ruolo nel quale fu reintegrato già dall’anno successivo.
Certamente per stima nei suoi confronti, fu eletto nel Consiglio degli Juniori del corpo legislativo (1797), ma rinunciò subito all’incarico per evitare spostamenti a Milano, adducendo motivazioni legate agli impegni medico-scientifici e alle condizioni di salute. Le stesse ragioni, unite a un profondo attaccamento alla città d’adozione, lo indussero a rifiutare la cattedra offertagli presso l’Università di Pavia (1802), allorché l’Università di Modena fu trasformata in Liceo dipartimentale, ove egli rimase a insegnare.
Nel 1806, alla Scuola d’artiglieria e genio (voluta da Napoleone, e che aveva aperto i battenti a Modena fin dal 1798) si rese vacante la cattedra di matematica applicata (cioè meccanica) in seguito alla morte di Cassiani: ancora una volta fu Ruffini a prendere il posto del suo maestro. Caduto Napoleone, con la Restaurazione del 1814, Francesco IV ripristinò l’università e a Ruffini non solo vennero affidati più insegnamenti (matematica applicata e medicina pratica, cui si aggiunse l’anno successivo clinica medica), ma anche l’incarico di rettore.
Alle numerose incombenze (era anche medico della duchessa) si aggiunse, nel 1816, la presidenza della Società italiana delle scienze, detta poi ‘dei XL’. Inoltre dal 1803 fu socio dell’Istituto nazionale napoleonico e dal 1806 dell’Accademia di religione cattolica. Morì a Modena il 10 maggio 1822.
Nella sua lunga carriera accademica, Ruffini ricoprì cattedre in tutte le discipline matematiche universitarie del tempo. In particolare, dal 1787 al 1796 fu professore di istituzioni analitiche (introduzione al calcolo sublime e calcolo sublime). Fu questo il suo primo insegnamento, quello in cui aveva sostituito il maestro Cassiani, un avvocato che era stato il primo docente a Modena di analisi matematica, quando nel 1772 l’Università era stata ufficialmente riaperta per volere del duca Francesco III. Nel 1791 Ruffini insegnò anche elementi di matematica in sostituzione di Fantini, ritiratosi perché anziano e cieco. Dal 1797 al 1803 fu docente di geometria e analisi presso l’università, che con l’occupazione francese aveva subito sostanziali trasformazioni. Dal 1803 al 1807 insegnò matematica sublime al Liceo dipartimentale, e dal 1807 al 1822 matematica applicata, prima presso la Scuola di artiglieria e genio, e poi presso l’università.
Diversi manoscritti inediti di queste lezioni sono conservati nell’Archivio Ruffini, presso l’Accademia nazionale di scienze lettere e arti di Modena. Ruffini pubblicò invece due opere con esplicite finalità didattiche: l’Algebra (1807) e la sua Appendice (1808). Esse costituiscono il III e parte del V tomo del Corso di matematiche ad uso degli aspiranti alla Scuola d’artiglieria e genio di Modena, un insieme di testi predisposti per la preparazione dei candidati all’esame per l’ambito accesso.
Ruffini è noto per i risultati ottenuti in campo algebrico. La sua opera più importante è la Teoria generale delle equazioni, in cui si dimostra impossibile la soluzione algebraica delle equazioni generali di grado superiore al quarto (1799) che, tra l’altro, segnò il suo esordio come scienziato.
Essa si inserisce e, in certo senso, conclude un filone di studi che nella seconda metà del Settecento aveva visto significativi contributi di Edward Waring, Alexandre-Théophile Vandermonde, Giuseppe Luigi Lagrange nella ricerca della formula risolutiva delle equazioni algebriche di grado superiore al 4°. L’analisi approfondita della ragione che permetteva di avere formule risolutive «espresse per radicali» nelle equazioni fino al 4° grado, e la speranza di poter estendere il procedimento ai gradi superiori, aveva indotto gli algebristi allo studio delle funzioni razionali delle radici, studio possibile ‒ anche a prescindere dalla conoscenza esplicita delle radici ‒ attraverso i legami tra le radici stesse e i coefficienti dell’equazione (formule di Viète-Girard). Nel 1770-71 Lagrange era giunto alla conclusione che la risolubilità o irresolubilità per radicali di una generica equazione algebrica di grado n dipendeva dall’esistenza o meno di una funzione razionale intera delle n radici dell’equazione che, al permutarsi di queste, assumesse solo m valori distinti, con . < n, essendo questi m valori le radici di un’altra equazione (la trasformata o risolvente) di grado m.
Nella sua ampia trattazione Ruffini dichiara di partire dai risultati di Lagrange, ma adottando i suoi metodi arriva ben oltre. Per le equazioni di 3° grado ricava in modo classico, cioè a posteriori, la formula risolutiva (o cardanica), poi riottiene la stessa anche con il metodo a priori, cioè lavorando solo sul fatto che la risoluzione di un’equazione cubica dipende da quella di una sua trasformata di 2° grado e sulle funzioni razionali delle radici. Giunge così alla conclusione che nel caso delle tre radici reali e distinte (caso irriducibile), queste dovranno necessariamente esprimersi passando attraverso il campo dei numeri complessi. Questa acquisizione chiuse definitivamente un dibattito accesosi fin dal Cinquecento con la scoperta della formula cardanica, e vanificò i numerosi tentativi susseguitisi per secoli al fine di evitare l’uso dei numeri complessi nel caso delle tre radici reali.
Per le equazioni di 5° grado, Ruffini compì uno studio dettagliato di quello che oggi si chiama il gruppo S5, cioè il gruppo delle sostituzioni su 5 variabili e, sempre con il procedimento a priori, dimostrò che una funzione razionale delle 5 radici dell’equazione, al permutarsi di queste, non può assumere né 8, né 4, né 3 valori distinti e che è impossibile ricorrere a risolventi di primo o di secondo grado. Era così provata l’irresolubilità algebrica per equazioni di 5° grado e Ruffini si limitò a brevi cenni per l’estensione ai gradi superiori, questione che sarà ripresa in successive pubblicazioni.
All’epoca il risultato fu accolto con non poco scetticismo, per diversi motivi. In primo luogo era abbastanza diffusa l’idea che, sebbene con procedimenti complicati, si potessero trovare formule risolutive. Ruffini, inoltre, era stato introdotto alla teoria delle equazioni da Cassiani, e dall’analisi dei manoscritti di questi (conservati presso l’Accademia nazionale di scienze lettere e arti di Modena) sono emerse numerose tavole di studio sulle permutazioni di 3, 4 e 5 variabili; ma negli ambienti scientifici Cassiani e Ruffini erano due perfetti sconosciuti. Sull’argomento il primo aveva tenuto solo una conferenza (di cui è rimasto soltanto il titolo), mentre il secondo era alla sua prima pubblicazione, e ‒ come emerge dal suo carteggio ‒ non aveva ancora avuto alcun contatto né con studiosi fuori del ducato, né con accademie scientifiche. La dimostrazione di Ruffini era poi incompleta, ma soprattutto di difficile lettura, anche perché egli non aveva a disposizione quella teoria dei gruppi con cui si conduce oggi la dimostrazione; anzi, nel corso del suo lungo procedimento, aveva dovuto via via costruire gli strumenti primordiali di questa teoria; infine, i metodi usati erano troppo moderni per i tempi.
Con lo specifico scopo di completarla e alleggerirla, Ruffini tornò a più riprese sulla sua dimostrazione. Dapprima nel 1802 (memoria edita nel 1803), in seguito alle osservazioni di Pietro Abbati Marescotti, un modenese che scambiò con l’amico Ruffini numerose lettere e che per primo credette alla sua dimostrazione, suggerendo come semplificarla ed estenderla ai gradi superiori al 5°. Successivamente nel 1806 e nel 1813, con la vana speranza che la dimostrazione venisse letta e giudicata da Lagrange, dall’Istituto delle scienze di Parigi o dai matematici tedeschi. Solo nel settembre 1821, pochi mesi prima di morire, Ruffini fu onorato da una lettera di Augustin-Louis Cauchy, in cui questi asseriva di riconoscere la validità del suo teorema.
Il teorema sull’insolubilità delle equazioni algebriche di grado maggiore di 4 per tanto tempo fu noto semplicemente come teorema di N. Abel, perché il matematico norvegese lo aveva dimostrato nel 1825, sulla base dei teoremi che Cauchy aveva ottenuto riordinando i risultati del matematico modenese.
La non praticità delle formule risolutive per equazioni di 3° e 4° grado e l’irresolubilità per i gradi superiori avevano stimolato lo studio di metodi per l’individuazione e il calcolo delle radici con procedimenti di approssimazione numerica. Partendo ancora una volta dai risultati di Lagrange, che aveva messo a punto un procedimento lungo e laborioso, nel 1802 la Società italiana delle scienze bandì un concorso per la «ricerca di un metodo più breve e meno faticoso di trovare le radici numeriche di una equazione di grado qualunque». La medaglia d’oro fu assegnata alla memoria scritta da Ruffini (1804), in cui egli espose quello che è sostanzialmente oggi noto e ancora utilizzato come metodo di Ruffini-Horner, anche se i contributi di Horner sono successivi (1815 e 1845). Il procedimento in oggetto prevede di porre a confronto i valori assunti dal polinomio f(x) nei due punti x e x+p e per ottenere dai coefficienti di f(x) quelli di f(x+p) Ruffini presentò un algoritmo basato su successive divisioni del polinomio f(x) per x+p attraverso il noto schema della cosiddetta divisione di Ruffini. Sia Ruffini sia Horner mostrarono poi i vantaggi del loro metodo nell’estrazione delle radici n-esime dei numeri.
Gli interessi scientifici di Ruffini non riguardarono solo le equazioni algebriche, ma tutti i rami della matematica, in particolare l’analisi con i suoi fondamenti, la teoria degli infinitesimi e delle serie. A tal proposito ricordiamo la discussione che egli ebbe con il giovane matematico livornese Giuliano Frullani, sviluppatasi in un nutrito scambio epistolare (1814-1821). In vista dell’ammissione alla stampa nelle «Memorie della società italiana delle scienze», Ruffini doveva esprimere un giudizio su due suoi scritti. In tali scritti Frullani usava le serie alla maniera di Eulero, senza porsi alcun problema di convergenza, associando una somma anche a quelle divergenti, eseguendo trasformazioni sulle variabili della serie ‒ come il passaggio da x a 1/x ‒ senza alcuna considerazione sull’eventuale modifica del carattere della serie.
Ruffini sollevò severe obiezioni, incomprensibili per Frullani, che non faceva altro che seguire l’uso dei tempi, e che si difese citando esempi di matematici illustri; ma lo studioso modenese poneva l’accento su un’esigenza di rigore che troverà la sua formalizzazione nel Cours d’analyse di Cauchy del 1821.
Ruffini, grazie al suo prestigio e in seguito anche al suo ruolo di presidente della Società italiana delle scienze, fu in contatto con i più celebri studiosi italiani dell’epoca e la lettura dei suoi carteggi fornisce uno spaccato della vita di queste istituzioni nei primi anni dell’Ottocento.
In particolare, la Società italiana delle scienze, il sodalizio scientifico fondato a Verona da Anton Maria Lorgna (1782), riuniva sotto il vessillo delle scienze i quaranta studiosi più prestigiosi di un’Italia ancora frammentata in vari Stati. Napoleone aveva sovvenzionato la Società con una cospicua rendita annua proveniente dai possedimenti del Dipartimento del Panaro, ma con la sua caduta (1814) la somma fu confiscata. Il presidente in carica, Antonio Cagnoli, che nel periodo del suo insegnamento presso la Scuola di artiglieria e genio (1798-1807) si era trasferito a Modena anche con la sede della Società, temeva la bancarotta. Allo scadere del suo terzo mandato la strategia vincente fu la nomina a presidente di Ruffini (1816), che godeva di grande fiducia sia in campo scientifico, sia da parte del duca. E il duca, grazie alla sua mediazione, accettò di sostenere finanziariamente la Società, pur ponendo alcune gravose condizioni. Ciò nonostante, la Società italiana delle scienze riprese un’intensa attività scientifica e mantenne la sua sede a Modena fino all’Unità d’Italia.
Fin dal 1798, con il mancato giuramento di fedeltà alla Repubblica, Ruffini aveva mostrato un forte attaccamento ai propri principi religiosi, in netto contrasto con le idee, allora dilaganti, del materialismo e del determinismo illuminista. Come si evince dalla lettura del suo carteggio, su sollecitazione di uomini dell’ambiente colto modenese come il marchese Gherardo Rangone, egli impugnò la penna per trattare questioni filosofiche con l’intento specifico di difendere la fede cattolica. Le memorie in merito sono tre. La prima, Immaterialità dell’anima (1806), uscita in concomitanza con l’elezione a socio dell’Accademia di religione cattolica (l’attuale Accademia di S. Tommaso d’Aquino), gli valse il dono di una medaglia d’oro e di una d’argento da parte di Pio VII. Seguendo il metodo logico deduttivo proprio del matematico, l’autore si prefigge di dimostrare «che un Essere dotato della facoltà di conoscere è necessariamente immateriale» e confuta il sistema metafisico di Erasmus Darwin. La seconda, Riflessioni critiche sopra il saggio filosofico intorno alla probabilità del signor Conte Laplace (1821), sottopone a un esame approfondito il trattato di Laplace per criticare la concezione deterministica dei fenomeni naturali, ricusare l’applicazione del calcolo delle probabilità alle questioni morali e l’applicazione della legge dei grandi numeri all’interpretazione della regolarità dei fenomeni naturali, che porterebbe all’esclusione della sua dipendenza dalla provvidenza. Nella terza, Intorno alla definizione della vita assegnata da Brown, postuma (1833), ma che era stata letta nel 1817 all’Accademia di religione cattolica, Ruffini critica la posizione del fisiologo come tendente al materialismo.
Esaminando la produzione scientifica di Ruffini si ha l’impressione che l’interesse per la matematica prevalse nettamente su quello per la medicina. Ciò nonostante dal 1791 fino agli ultimi suoi giorni egli si spese molto nelle cure dei pazienti, con visite frequenti e sollecite e con generoso impegno, dal più umile dei concittadini ai membri della casa ducale. In campo medico egli non mostrò quelle idee innovative che seppe esprimere in matematica, ma, per la serietà nell’esercizio della professione, non pochi furono i privati e i medici del ducato che a lui si rivolsero per ricevere pareri. Sono circa quattrocento le lettere del carteggio Ruffini inerenti la professione medica; dalle minute di risposta, a cui spesso sono allegate ricette, si possono avere idee sul metodo seguito. L’indirizzo era quello della scuola medica di Giambattista Borsieri, le cui Institutiones medicinae practicae (4 voll., 1781-1788) furono scelte a modello per i corsi che Ruffini impartì all’Università: medicina pratica dal 1814 e clinica medica dall’anno successivo. Delle lezioni universitarie restano i voluminosi manoscritti (inediti): Medicina pratica, Lezioni di patologia, Lezioni cliniche, conservati presso l’Archivio Ruffini.
Nel 1817-18 Modena fu colpita da un’epidemia di tifo e, prestando cure ai tanti ammalati, ne rimase seriamente colpito lo stesso Ruffini, tanto da essere in pericolo di vita. Una volta guarito, per dirimere una discussione sulla tipologia della malattia, stese una memoria (1820), l’unica di materia medica da lui pubblicata, in cui ne sostenne l’indole contagiosa e ne descrisse i sintomi e le cure più opportune.
Teoria generale delle equazioni in cui si dimostra impossibile la soluzione algebraica delle equazioni generali di grado superiore al quarto, 2 voll., Bologna 1799.
Della soluzione delle equazioni algebraiche determinate particolari di grado superiore al quarto, «Memorie della società italiana delle scienze», 1802, 9, pp. 444-526.
Della insolubilità delle equazioni algebraiche generali di grado superiore al quarto, «Memorie della società italiana delle scienze», 1803, 10, pp. 410-70.
Sopra la determinazione delle radici delle equazioni numeriche di qualunque grado, Modena 1804.
Della immaterialità dell’anima, Modena 1806.
Della insolubilità delle equazioni algebraiche generali di grado superiore al quarto qualunque metodo si adoperi algebraico esso siasi o trascendente, «Memoria dell’istitituto nazionale italiano, classe di fisica e matematica», 1806, 1, pp. 433-50.
Algebra e sua Appendice, 2 voll., Modena 1807-1808.
Di un nuovo metodo generale di estrarre le radici numeriche, «Memorie della società italiana delle scienze», 1813, 16, pp. 373-429.
Riflessioni intorno alla soluzione delle equazioni algebraiche generali, Modena 1813.
Memoria del tifo contagioso, «Memorie della società italiana delle scienze», 1820, 2, pp. 350-81.
Riflessioni critiche sopra il saggio filosofico intorno alle probabilità del sig. conte Laplace, Modena 1821.
Elogio di Berengario da Carpi recitato nella chiesa di S. Carlo l’anno 1793, Fasti letterari delle città di Modena e Reggio, 3° vol., Modena 1824.
Intorno alla definizione della vita assegnata da Brown, «Memorie della regia accademia di scienze lettere e arti di Modena», 1833, 1, pp. 319-33.
Riflessioni intorno alla eccitabilità, all’eccitamento, agli stimoli, ai controstimoli, alle potenze irritative, alle diatesi sì ipersteniche che iposteniche, «Memorie della regia accademia di scienze lettere e arti di Modena», 1833, 1, pp. 1-55.
Opere matematiche, a cura di E. Bortolotti, 1° vol., Palermo 1915; 2° vol., Roma 1953; 3° vol., Roma 1954.
Macchina atta a contenere le fratture oblique del femore in modo da impedire l’accorciamento della coscia, manoscritto in f.17, Archivio Ruffini, Accademia nazionale di scienze lettere e arti di Modena.
A. Lombardi, Notizie sulla vita e su gli scritti di Paolo Ruffini, Modena 1824.
H. Burkhardt, Die Anfänge der Gruppentheorie und Paolo Ruffini, «Zeitschrift fur Matematik und Physik», 1892, (trad. it. E. Pascal, «Annali di matematica pura e applicata», 1894, 22, pp. 175-212).
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