Sarpi, Paolo
Teologo, scienziato e storico, nato a Venezia nel 1552 e ivi morto nel 1623. Frate dell’ordine dei servi di Maria, fu anche consultore della Repubblica di Venezia e nel 1605-07 difese le prerogative della Repubblica colpita dall’interdetto di Paolo V. Nell’autunno del 1607, S. fu vittima di un attentato a opera di sicari probabilmente al servizio della curia romana. Intrattenne rapporti con le personalità intellettuali di maggiore spicco nell’Europa del tempo, in corrispondenza con calvinisti, gallicani e anglicani, nonché con scienziati come Galileo Galilei, i medici Fabrici d’Acquapendente e Santorio Santorio. I suoi interessi spaziarono dalle letterature antiche al diritto, dall’anatomia all’astronomia. L’opera maggiore, l’Istoria del Concilio tridentino, fondata su un’ampia analisi dei documenti conciliari, fu pubblicata a Londra nel 1619 e venne subito messa all’Indice.
Numerosi sono i Pensieri sarpiani che riecheggiano tesi di M. sul reggimento delle repubbliche e sulla loro evoluzione ciclica; parimenti di ascendenza machiavelliana è in S. – intriso di cultura medica assai più di quanto non fu il Fiorentino – l’impiego di metafore ‘patologiche’ per delineare le crisi politiche o i mezzi necessari a reggere lo Stato (L. Cozzi, introduzione ai Pensieri naturali, metafisici e matematici, a cura di L. Cozzi, L. Sosio, 1996, p. XLI). Nella scia di M., ma andando anche oltre in ragione della sua peculiare formazione scientifica, S. istituisce un’equiparazione tra scienze dimostrative e scienze storiche. Gli eventi storici procedono con la stessa inesorabilità degli eventi naturali e l’incapacità di coglierne le leggi dipende solo dai limiti intellettuali dell’uomo. In un’annotazione risalente forse al 1607, glossando la Monarchia di Spagna di Tommaso Campanella, S. ricalca non solo le tesi di Principe xxv sulla fortuna, ma anche la peculiare distinzione fra «occasione» politica e «fortuna». S. scrive:
Nelle cose umane da questo nasce la fortuna che è il successo non conosciuto e non aspettato, che se è conosciuto si chiama prudenza. Il dire che ad ogni imperio vi vuole Dio la prudenza e l’opportunità è dire che appresso una causa a noi nota vi si ricerca il concorso di molte altre incognite che con un nome sono l’opportunità (in L. Cozzi, introduzione ai Pensieri, cit., p. L).
Analoga posizione assumeva nell’Istoria del Concilio tridentino, circa l’intervento provvidenziale nella storia. Se M. esordiva in Principe xxv interrogandosi circa l’«opinione che le cose del mondo sieno [...] governate da la fortuna e da Dio», S. avrebbe scritto più tardi:
E certamente è pio e religioso pensiero l’attribuire alla Divina Provvidenza la disposizione d’ogni avenimento, ma il determinare a che fine sieno da quella somma sapienza gli eventi inviati è poco lontano dalla prosunzione. Gli uomini tanto strettamente e religiosamente sposano le opinioni proprie, che si persuadono quelle essere altrettanto amate e favorite da Dio, come da loro (Istoria del Concilio tridentino, a cura di C. Vivanti, 1° vol., 2011, p. 102).
Se nella prassi storiografica e politica di Francesco Guicciardini appare un sostanziale disinteresse per i problemi religiosi, S. sembra invece riprendere da M. la convinzione che la religione debba essere ricompresa in un’ampia e sagace valutazione politica, non come mero fatto strumentale, ma quale componente essenziale della società. Esemplare in questo senso l’ironico ritratto sarpiano di Leone X, che mostra di possedere molteplici virtù mondane, mancando ‘solo’ di religiosità (C. Vivanti, introduzione a Istoria del Concilio tridentino, cit., pp. xxx-xxxi). Da M. viene anche ripresa la valutazione non univoca della ‘legge’, e della legge religiosa in particolare. S. condivide con M. l’idea che la religione costituisca un vincolo sociale; sennonché le posizioni sarpiane si allineano soprattutto a quelle espresse dal coevo pensiero scettico e libertino francese. Ha osservato giustamente Luisa Cozzi come
il prevalere di una concezione negativa degli effetti della religione sulla società, e il distacco con cui Sarpi riesce a considerare il fenomeno religioso [dipendano] oltre che dall’influsso del pensiero di Machiavelli, dalle [...] tendenze filosofiche epicuree e dalla suggestione [...] del poema lucreziano. L’eco del De rerum natura, trapelante anche in Machiavelli, appare evidente laddove Sarpi traccia l’origine psicologica della religione, descritta come conseguenza della natura fisica e psichica dell’uomo e dei suoi bisogni. Sarpi accenna alla fabbricazione dei miti da parte dell’uomo come proiezione di bisogni e debolezze e il testo dei Pensieri sulla religione si svolge nel segno di Lucrezio e Machiavelli nel riconoscere tale disposizione come la radice delle miserie umane (introduzione ai Pensieri, cit., p. lxxix).
Nei Pensieri, non disposti per la pubblicazione, la lezione machiavelliana appare riconoscibile. Nelle opere destinate alla stampa M. non poteva essere richiamato esplicitamente: ma vi è un trattato in cui S. allude in maniera trasparente al Segretario. Era accaduto che, dopo un ventennio di scaramucce e scorrerie, nel 1615-17 giungesse al suo apice la crisi per il controllo del mare Adriatico che vedeva la Repubblica di Venezia opposta ai pirati Uscocchi, i quali agivano con il coperto sostegno della casa d’Austria. S., dopo aver aggiornato a più riprese l’Historia degli Uscochi di Minuccio Minucci (che giungeva originariamente al 1602), completandola fino al 1613 e poi fino al 1616, dedicò una cospicua analisi alla pace di Madrid, che il 26 settembre 1617, per intervento di Spagna e Francia, obbligava l’Austria a trapiantare gli Uscocchi nell’interno della Croazia, bruciandone i vascelli. La pagina d’esordio del Trattato contiene un rinvio polemico a M. e al suo tema più scottante, quello relativo alla lealtà dei principi:
E all’occhio della prudenza si farà manifesto con chiaro lume che, quantunque la ragione naturale detti et in tutti li secoli passati sia stato insegnato li maggiori principi esser maggiormente ubligati alla sincerità et osservanza della parola, nondimeno sono in questo secolo più creduti certi spiriti contaminati che li predicano essenti per loro eminenza sopra gli altri dal mantenere la fede e le promesse, si vedrà per colmo di verità che l’arte d’ingannare gl’uomini con i giuramenti [...] insegnata da un professore d’impietà, ora è fatta propria dai professori di singolar religione (Trattato, in La repubblica di Venezia, a cura di G. e L. Cozzi, 1965, p. 142).
Viene così aperta una polemica diretta con Principe xviii e l’arte politica dei gesuiti. D’altro canto, oltre a riecheggiarne spesso il lessico, S. deriva da M. anche l’idea, ricorrente nel Principe, che la guerra, al bisogno, non debba essere rinviata («non esser la guerra il peggior male che possi alli stati da causa esterna avvenire», Trattato, in La repubblica di Venezia, cit., pp. 141-42).
Il giudizio machiavelliano sulla crisi della Serenissima viene sostanzialmente ripreso da S. in un decisivo consulto del 29 gennaio 1620, Del confutar scritture malediche, originato dalla diffusione di una intensa pubblicistica antiveneziana. Anche qui ritornano insistenti termini e spunti machiavelliani. S. oppone al giudizio su Venezia espresso da Sabellico e Biondo Flavio, quello guicciardiniano:
Il Sabellico et il Biondo, doi scrittori delle cose venete, si mostrano uomini di giudizio e di eloquenza [...]; il mondo non li ha per veridichi, io stimo che non per loro colpa [...]. E per parlare dei tempi vicino a questi, il Guicciardino, che più tosto fu mal affetto che altrimenti, e scrive del bene e del male, onora la Repubblica più che altri che hanno scritto solo il bene (Del confutar scritture malediche, in Opere, a cura di G. e L. Cozzi, 1969, p. 1177).
Non solo appare significativa l’opposizione fra Sabellico e Biondo da un lato e la linea M.-Guicciardini dall’altro, ma il richiamo, attraverso il nome del solo Guicciardini, al complessivo e bilanciato giudizio machiavelliano su Venezia, implica anche un’adesione alla prassi storiografica machiavelliana e a quella condanna del ceto dirigente veneziano che proprio da Istorie fiorentine I xxix trae origine e sostanza. S. sembra ricavare dall’analisi machiavelliana l’esortazione a sottrarre Venezia alla ‘quiete’ perseguita dai suoi ceti dirigenti. Tuttavia di quel giudizio S. non accetta fino in fondo le conseguenze, aderendo piuttosto alla nascente stagione dello scetticismo, inaugurata da Montaigne, che ripensa in forme rinnovate il rapporto fra politica e morale. La sarpiana cultura della dissociazione, che pone al centro il ruolo della coscienza individuale, segna un profondo distacco dall’antropologia del Segretario fiorentino, ovvero da una concezione unitaria dell’esperienza umana e della politica; S. tende piuttosto a distinguere tra la dimensione della civitas e una specola soggettiva e interiore, caratterizzata dalla difesa delle prerogative dell’individuo (L. Cozzi, introduzione ai Pensieri, cit., p. lxxi; Battista 1998, pp. 230 e 280).
Bibliografia: La repubblica di Venezia, la casa d’Austria e gli Uscocchi: aggionta e supplimento all’Istoria degli Uscochi, Trattato di pace et accomodamento, a cura di G. e L. Cozzi, Bari 1965; Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli 1969; Pensieri naturali, metafisici e matematici, a cura L. Cozzi, L. Sosio, Milano-Napoli 1996; Istoria del Concilio tridentino, seguita dalla Vita del padre Paolo di Fulgenzio Micanzio, a cura di C. Vivanti, 2 voll., Torino 2011.
Per gli studi critici si vedano: G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; G. Benzoni, I “frutti dell’armi”: volti e risvolti della guerra nel ’600 in Italia, Roma 1980, Ventimiglia 2004; A.M. Battista, Politica e morale nella Francia dell’età moderna, a cura di A.M. Lazzarino Del Grosso, Genova 1998; E. Raimondi, Politica e commedia: il centauro disarmato, Bologna 1998; G. Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma 2003; P. Guaragnella, Il servita melanconico. Paolo Sarpi e l’arte dello scrittore, Milano 2011.