Paolo Sarpi
Un frate enciclopedico, che rifiuta di render pubbliche le sue audaci riflessioni sull’uomo associato, la religione, lo Stato; in colloquio con il mondo dei filosofi antichi, che nutrono l’uomo saggio, in grado di vivere senza lo Stato e la religione, medicine dell’uomo fragile e malato; questo frate, già superati i cinquant’anni, coglie l’‘opportunità’ di una contesa tra Venezia e Roma per uscire dal suo mondo e farsi promotore di una lotta contro il giogo, morale e civile, che gravava sull’Italia. La sua parola allora si fa arma di azione politico-religiosa, di smascheramento degli inganni della Chiesa che, tradendo la sua vocazione spirituale, ha usurpato la sovranità dello Stato, anch’esso richiamato ai valori civili della sua missione laica.
Pietro Sarpi, nato a Venezia nel 1552, ancora tredicenne veste l’abito dei servi di Maria nel convento veneziano omonimo, assumendo il nome di Paolo. È nei conventi servitani dell’Osservanza, in particolare a Cremona e a Mantova, che fa la professione religiosa (1572), riceve il sacerdozio (1572-73), consegue il baccelierato (1574), fino al rientro a Venezia nel 1575 proveniente da Milano, dove era stato chiamato dal cardinale Carlo Borromeo. Sono anni di intensi studi, che vedono l’ancora ventiduenne Sarpi, fornito di un’ottima conoscenza delle lingue, «la latina, la greca, l’ebrea e la caldea», in possesso di una «cognizione profonda», oltre alle discipline dei religiosi, anche della matematica e della medicina (F. Micanzio, Vita del Padre Paolo, 1646, in P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino, a cura di C. Vivanti, 2° vol., 1974, p. 1284).
Conseguito il dottorato in teologia presso lo Studio patavino nel 1578, al servita si apre una rapida carriera in seno all’ordine: ventiseienne priore provinciale a Venezia (1579-82); procuratore generale con funzione anche di vicario generale presso la Sede apostolica (1585-88), fino alla soglia del generalato, mancato per opposizione del cardinale Anton Giulio Santori. Un’esperienza, quella romana, sostanzialmente deludente, che nell’estate del 1588 vede il servita lasciare definitivamente Roma, deciso a rimanere nella nativa Venezia, dove orienta la sua vita verso interessi di natura scientifica, già coltivati da tempo, frequentando il ridotto veneziano dei fratelli Morosini e a Padova il circolo di Vincenzo Pinelli. «Natum ad encyclopaediam», come pubblicamente attesta Giovan Battista Della Porta, Sarpi collabora strettamente negli studi anatomici con Girolamo Fabrici d’Acquapendente e nelle discipline fisiche e astronomiche con Galileo Galilei.
Con l’‘occasione’ della contesa dell’interdetto, sorta tra la Repubblica veneta e il papa Paolo V per motivi giurisdizionali di manomorta e di privilegi del foro ecclesiastico, Sarpi il 28 gennaio 1606 viene nominato dal Senato «teologo e canonista» della Serenissima; lungo l’anno della contesa i suoi pareri presentati al governo veneziano sono di stimolo al patriziato più intransigente; i suoi pamphlet a stampa, durante la cosiddetta guerra delle scritture tra i fautori delle due parti, italiani e d’oltralpe, lo rendono celebre in Europa e gli procurano la scomunica del Sant’Uffizio nel gennaio 1607. La contesa si chiude nell’aprile del 1607, nonostante il tentativo senza esito di Sarpi di impedire la rappacificazione della Repubblica con il pontefice; a sancire definitivamente il clima avvelenato, segue il 5 ottobre 1607 l’attentato a Sarpi al ponte di Santa Fosca a opera di sicari giunti dallo Stato pontificio e in seguito là rifugiati.
Con il dopo-interdetto si assiste ai primi intensi contatti epistolari di fra Paolo con il mondo gallicano e riformato francese, con quello tedesco e inglese, in parallelo al tentativo dei calvinisti d’oltralpe di diffondere la Riforma in Venezia, mentre il suo impegno di consulente giuridico e teologico, fortemente ridimensionato per vari mesi, con il 1609 si va intensificando e la gamma dei temi affrontati si fa sempre più ampia: dalle materie ecclesiastiche a quelle della politica internazionale, alle riforme dell’amministrazione interna. Ricorrendo a una straordinaria conoscenza storica e alla conoscenza della vasta documentazione conservata negli archivi pubblici, il servita si avvia a sistemare, secondo un’originale impostazione politico-giuridica, la farraginosa giurisprudenza veneziana, affrontando con una mentalità giuridica protoilluministica temi quali il controllo dell’Inquisizione romana e il diritto d’asilo ecclesiastico. Per oltre quindici anni Sarpi esercita il suo compito a servizio dello Stato in un rapporto ora armonico ora conflittuale con il patriziato veneziano; un’attività sempre più assillante, che procede parallela con quella, più conosciuta, dello storico rivolto al contemporaneo mondo politico e religioso europeo, dall’Istoria dell’interdetto, al Trattato delle materie beneficiarie, al capolavoro ossia l’Istoria del concilio tridentino uscita a Londra nel maggio 1619, all’incompiuto Trattato di pace et accommodamento.
Alla sua morte (15 gennaio 1623), il Senato farà trascrivere in lussuosi volumi pergamenacei i suoi consulti, da conservare nella cancelleria secreta, quale fonte fondamentale della giurisprudenza veneziana; mentre in Europa la sua Istoria del concilio tridentino, messa all’Indice, si diffonde con rapidità, tempestivamente tradotta in latino, inglese, francese e tedesco.
Attesa da anni, usciva nel 1996 (a cura di L. Cozzi, L. Sosio) l’edizione critica integrale dei Pensieri naturali, metafisici e matematici di Sarpi, accompagnati, oltre che da inediti materiali affini, dall’operetta incompiuta Arte di ben pensare, dai Pensieri medico-morali e dai Pensieri sulla religione, trattatelli, i due ultimi, scoperti alcuni decenni prima da Gaetano Cozzi e pubblicati nel 1969 nelle Opere del servita veneziano.
Il volume del 1996 (d’ora in avanti: Pensieri) era stato inizialmente pensato solo come una doverosa integrazione dei Pensieri naturali, metafisici e matematici (d’ora in avanti: Pensieri naturali), mancando nelle Opere quelli relativi agli appunti di geometria e ai problemi di fisica meccanica e di astronomia. Di fatto, la mole stessa del volume mostrava trattarsi di molto di più: quella «quantità di problemi filosofici, scientifici e teologici», che nelle Opere figuravano di proposito ancora sostanzialmente marginali e non determinanti nel delineare la complessiva figura di Sarpi e la sua opera, venivano ora a proporsi come un prezioso spaccato della sua formazione filosofico-scientifica, fondamentale «chiave interpretativa di quelle che erano apparse negli ultimi anni come insanabili contraddizioni» (Frajese 1994, p. 44) dell’opera e della figura sarpiane.
Tutti quei nuovi testi, con la parziale eccezione dei Pensieri sulla religione, vanno a collocarsi cronologicamente al di qua del 1606, prima cioè del Sarpi cosiddetto pubblico, e questa appartenenza al Sarpi ‘privato’, nonostante la diversità di forme e di temi, conferisce loro una particolare fisionomia e una continuità di pensiero, confermate anche da una tangibile osmosi di contenuti.
Una continuità che sembra invece bruscamente interrompersi con la decisione improvvisa del servita di schierarsi a fianco dello Stato veneto per offrire il suo contributo religioso e civile contro la Roma di Paolo V. Non si tratta ovviamente di un mutamento delle sue concezioni filosofiche e religiose, impensabile per un cinquantatreenne, che affronta il nuovo compito con un’attrezzatura culturale maturata nel tempo, ma di un atto politico-religioso di indubbia rilevanza etica, che immette repentinamente fra Paolo in una situazione esistenziale del tutto nuova, obbligandolo a orientare le sue scelte di studio e di vita quotidiana, a fare i conti con un impegno che ne assorbirà tutte le doti intellettuali e che lo spingerà, gradualmente, a rinunciare ad approfondire indirizzi filosofici e scientifici fino allora coltivati.
Troppe e troppo evidenti sono le differenze delle due fasi della vita di Sarpi divise dal crinale del 1606 per poterle debitamente illustrare, a partire dal quasi assoluto vuoto di documentazione sul Sarpi dei primi cinquant’anni, a cui sopperisce il non sempre affidabile primo biografo Fulgenzio Micanzio; né qui importa segnalare la sproporzione quantitativa della produzione scritta: basti considerare che in un anno qualsiasi il Sarpi pubblico produce più di tutto il Sarpi precedente. A differenziare sostanzialmente quei due momenti, senza scendere in minute analisi delle singole opere, appare decisivo il carattere civile della nuova esperienza umana e intellettuale di Sarpi, un immettere azione e pensiero nel vivo della realtà politica e religiosa del tempo. A provarlo risulta elemento fin troppo eloquente il fatto che tutta la produzione del Sarpi pubblico, compreso il suo epistolario più personale, è permeata da concreti fatti culturali, politici, religiosi, economici: la storia presente e passata irrompe in ogni sua pagina, monopolizza l’attenzione, diventa oggetto di riflessione e di giudizio.
Nel Sarpi anteriore al 1606, nelle centinaia di annotazioni dei Pensieri naturali, ma anche nei trattatelli di carattere morale ed epistemologico (con l’eccezione, si vedrà, dei Pensieri sulla religione), si ha la sensazione di cogliere un’assordante lontananza, se non assenza, del mondo civile e religioso, nonché del dibattito contemporaneo politico; la storia non sembra far breccia in quel sistema di appunti filosofici; anche le rare ma originalissime riflessioni sulla società, sullo Stato, sul diritto naturale e positivo, non scendono mai ad analisi di concrete situazioni del tempo; nulla trapela sull’affermarsi delle monarchie assolute, sulla Controriforma e i suoi strumenti dell’Inquisizione e dell’Indice dei libri; ma è anche totale l’assenza di un sentire religioso intimo, di un accostamento al messaggio evangelico delle chiese riformate d’Europa.
Benché Micanzio scriva che «ardevano in questi tempi le guerre civili in Francia, et aveva gusto il padre sentirne ragionare» (Vita del Padre Paolo, cit., p. 1306), inutilmente ne cercheremmo un’eco negli scritti privati, mentre vivi sono i rimandi del Sarpi pubblico alla «lega maneggiata in Francia già 30 anni con l’istromento de fratti nelle confessioni», e al fatto che «la città di Parigi restasse tanto tempo pertinace nella rebellione per li ufficii de fratti, e ad altri non fosse dato carico di far le scentinelle, se non a loro»; o, più in lontananza, a quel «fra Gierolemo Sevonarola, che con le prediche e uffici fu bastante di far scacciar li Medici di Fiorenza e mutar stato in quella città» (consulto inedito del 17 dicembre 1618). C’è che il Sarpi privato non ha intenti civili; il Sarpi scienziato-filosofo, osserva Micanzio, «scriveva per sé solo» (p. 1322), confermando che fra Paolo «mai volse scrivere cosa alcuna da publicare, sino che le publiche necessità non ve lo costrinsero» (p. 1288). Dunque solo «le publiche necessità», l’impegno civile, l’avevano spinto a forzare la sua naturale ritrosia a render pubblici i suoi scritti. Solo dopo il 1606 si instaura uno stretto connubio di pensiero e azione, totalmente assente prima.
D’altronde è persino inutile ricordare che è grazie al ricorso alla stampa che Sarpi è quello che il mondo occidentale ha conosciuto e conosce, quando la sua parola si rivela arma potentissima, divenendo, come afferma Hubert Jedin, dopo Martino Lutero e Giovanni Calvino, «il più grande avversario che il Papato abbia avuto al principio dell’epoca moderna» (H. Jedin, Sarpi storico del concilio di Trento, «Humanitas», 1952, 7, p. 495). Da tutt’Europa amici e avversari, nelle corti e nei circoli culturali, si informano su di lui, su cosa sta scrivendo, su nuove opere che progetta di inviare alla fiera di Francoforte, e poco importa che si tratti spesso di false informazioni. Per tutto il Sei e Settecento le sue opere si troveranno ai primi posti tra gli autori italiani pubblicati e tradotti fuori d’Italia. Nulla di tutto ciò per il Sarpi privato, i cui scritti mancano a tutt’oggi di una ben che minima storia della diffusione e della fortuna, e il loro messaggio non uscirà dalla cella del servita se non filtrato attraverso il Sarpi pubblico, dai primi consulti del 1606 all’Istoria del concilio tridentino e oltre.
A scorrere i 655 Pensieri naturali, metafisici e matematici distribuiti tra il 1578 e il 1597 (in Pensieri, cit., pp. 3-515), in un primo momento si resta frastornati per la congerie di temi che si susseguono in modo quasi casuale: da appunti (per dire solo di alcuni) di carattere metafisico, gnoseologico ed epistemologico, a osservazioni sulla meccanica, l’astronomia (e non manca l’attenzione alla teoria copernicana), la chimica, l’ottica, la matematica, a riflessioni sulla morale, il diritto, la politica e il fenomeno religioso. Quel sapere enciclopedico ci fa conoscere un Sarpi, pensatore analitico, attento a cogliere le novità più disparate e a estenderne le implicazioni più vive e anche più inquietanti.
Prevalgono le centinaia di ‘pensieri’ di carattere scientifico, in cui spiccano le osservazioni di metodo a base psicofisiologica, per le quali mi limito a rimandare ai commenti scrupolosi dei curatori; ma di necessità, in questa sede, non è possibile sostare neppure su altri filoni di sicuro interesse filosofico presenti nel taccuino dei Pensieri naturali, limitandomi a segnalare tra i più stimolanti l’accentuato relativismo (più che non scetticismo) tanto giuridico ed etico, dove Sarpi annota – e sarà una componente fondamentale del pensiero politico del Sarpi pubblico – che il giusto «non consta per natura, ma per legge», ed è pertanto deciso da coloro che detengono il potere, «o uomo o popolo» (Pensiero 420), quanto estetico («il bello si varia non sol da paese a paese, ma da persona a persona», essendo «il bello e il brutto [...] opinioni», Pensiero 468); le penetranti osservazioni di carattere morale, che troveranno più organico compimento nei Pensieri medico-morali; il linguaggio analizzato come strumento per la divulgazione dell’errore («Vedesi certamente che ogni nostro studio ed ogni nostra filosofia tende a scoprir gl’inganni delle parole e ancor de’ concetti», Pensiero 553); la concezione psicofisica unitaria dell’uomo e dell’animale; le acute riflessioni intorno ai fenomeni sensoriali e percettivi, attraverso cui Sarpi giunge a negare la differenziazione aristotelica tra intelletto agente e possibile; la formazione delle «opinioni», argomento che troverà attenta trattazione nell’Arte di ben pensare, con radicali corollari come quello sulla mortalità dell’anima, quando il servita osserva che a differenza degli animali l’uomo crede «d’esser tanto perfetto, che gran peccato sarebbe se morisse [...], onde si dà per allora una esistenza, la quale non trovando in una parte, la trova nell’altra» (Pensieri, cit., p. 596).
Prevale una visione fredda e razionalistica fondata su una concezione naturalistica della realtà, che attinge alla filosofia atomistica, empiristica e scettica, con richiami a Plutarco, Sesto Empirico, Lucrezio ed Epicuro, e ai moderni – mai nominati – Pietro Pomponazzi, Niccolò Machiavelli, Bernardino Telesio, Giordano Bruno e, più tardi, Montaigne, Pierre Charron, Jean Bodin, che ricordano la frequentazione del libertinismo erudito. Ma dove Sarpi si rivela più originale e autonomo è in un esiguo manipolo di ‘pensieri’, non più di una decina, compresi tra gli anni 1588 e 1591, che trattano, per la prima volta, di Stato, di religione (sinteticamente denominata Torà, la religione nella sua funzione sociale), di società, dell’uomo guidato dalla filosofia e di quello in balia delle passioni. In quei dieci pensieri disseminati tra appunti vari di altro genere, emerge, isolata, una distinzione, che rimarrà costante nel pensiero privato sarpiano, tra la filosofia e la religione, la prima qualificata come «cibo dell’anima», la seconda come «medicina». E medicina, con la religione, sono anche la «repubblica» («natural medicina, non cibo»), e la stessa società, necessarie all’uomo comune, da sempre malato («la società, la repubblica e la Torà furono sempre, quando fu l’uomo»), anche se in teoria gli uomini «viverebbeno meglio in anarchia, dove ciascun si regge, quando la composizion dell’animo avessero»: supposizione irrealistica, perché a causa della loro «pravità» gli uomini necessitano di «una somma potestà». Brevi assiomi, che finiscono per convergere quasi irresistibilmente sulla religione, considerata, come le altre «proprietà», «cosa mondana», posta in sottordine alla «repubblica», che si serve di «lei a quello che non può la maestà provedere»; ma medicina infida, che può trascinare nella sua trasformazione «in processo di tempo» alla distruzione della società. Infida, ma non indispensabile, come recita un altro pensiero, che si apre con fulminante incipit: «Non è vero che la Torà ritenga le republiche, e che senza di lei non sosterebbonsi», perché la sua funzione di «terrore» nel distogliere l’uomo dai reati non è determinante, prova ne sia che «talun che l’abbia deposta dal suo animo, séquita co’ medesimi costumi, senza peggioramento veruno». E con disarmante osservazione contabile conclude: «La Torà dunque non è tanto utile quanto crede alcuno, ma fa perché più fanno due che uno, ed ogni poco d’aggiunto aggiugne» (Pensiero 413). Non necessaria, dunque, a rendere il suddito obbediente alle leggi, tanto che «a mezzodì e levante fa più effetto la Torà, l’onore più nel settentrione, l’ambizione ne’ paesi medi» (Pensiero 414).
Questa scissione radicale tra religione e civiltà è stata ampiamente sottolineata e messa in antitesi alla visione, per fare un solo nome, di Machiavelli, che considera la religione dei Romani vincolo strutturale del vivere civile (Ciliberto 2005, p. 466); una scissione che avvicina «Sarpi al pensiero libertino, che avrebbe postulato una società di atei, ossequienti alla legge morale» (Vivanti 2005, p. 56). A conclusione, un ultimo ‘pensiero’ liquidatorio nella sua concisione:
Il politico, in formar la città, si vuol servire di tutta la materia che trova, uomini, denari, armi, spassi, medicine, etc. e se alcuno di cotali stromenti manca, egli ne fa senza. Perché anco trova la Torà, se ne serve, ma farebbe senza di lei, se non la trovasse (Pensiero 423).
Pensiero dissacrante in quell’allineare a denari, spassi ecc., la Torà ‘trovata’ e accomunata con uno dei tanti «stromenti» che «il politico» decide insindacabilmente di utilizzare. Momento di grande rilievo nel pensiero politico di Sarpi, anche se va osservato che questa svalutazione della funzione politica della religione solo parzialmente preannuncia le ragioni della sua radicale estromissione dall’ambito temporale secondo il Sarpi pubblico; quella dei Pensieri è una visione tutta e solo politica, quella del Sarpi pubblico sarà politica, ma anche religiosa, di una religione che è estranea alla politica perché «il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in cielo».
Va infine tenuto presente che quella decina di ‘pensieri’ così straordinari nella loro audacia rappresentano un unicum nel percorso filosofico del Sarpi anteriore al 1606: la politica e la religione appaiono nei Pensieri naturali solo con il Pensiero 380, quello del cibo e della medicina, per scomparire con il Pensiero 423, quello degli spassi e dei denari, senza ripresentarsi alla riflessione neppure nei successivi Pensieri medico-morali, dove invece riappare e diventa protagonista l’uomo che ha raggiunto la «composizion dell’animo», affrancato dalle passioni, non bisognoso pertanto né di leggi, né di Stato, né di religione, e che vivrebbe «meglio in anarchia», attento a non contaminare la sua sanità nell’inevitabile contatto con la «pravità» dell’uomo malato.
La figura dell’uomo saggio diventa centrale nell’affascinante operetta Pensieri medico-morali (in Pensieri, cit., pp. 603-28), che solo nella prima parte risponde all’intento terapeutico dei fenomeni psichici, emotivi e morali, seguendo la norma che, «essendo l’animo parte dell’uomo [...], non si può curar l’animo se non curato il tutto» (p. 607), come ribadito dalla letteratura neostoica del tempo; in realtà quell’iniziale intento è ben presto dirottato verso un variegato susseguirsi di riflessioni, dove «si parla molto di passioni e di voluttà e di dolori, e di felicità e dello stato di quiete», aspetti di un’etica con chiari rimandi neoepicurei e neostoici (Cozzi 1979, p. 249), ma in cui si avverte un costante sottofondo scettico, che smorza ogni orgogliosa certezza sul possesso di valori e verità, che d’improvviso possono capovolgersi: «Sempre raccordati – ammonisce il servita – ch’ogni ragione ha la sua contraria [...], onde non è sicuro operar per ragione [...]; e però l’opinion tua apresso te stesso seguila parcamente e leviter» (Pensieri, cit., p. 627). Al prudente scetticismo si accompagna un marcato relativismo: «Non ti maravigliare mai di azzione o opinione alcuna perché non vi è cosa così absurda, che non sia stata piantata per legge: e quello ch’oggi è favola, fu già articolo di fede»; con il conseguente monito: «Non aborire nessuna opinione, perché potrai entrare in quella, né isposarne alcuna, perché ti repudierà, e nella repudiata potrai tornarci» (pp. 626-27). Dunque, nessuna arroganza intellettuale («né la scienza ha utilità alcuna che l’ignoranza non l’abbia maggiore», annota Sarpi, p. 613), come nessuna arroganza morale: «Sopra il tutto fuggi quel rigore che si chiama virtù, ma è vizio pestifero quella rettitudine catoniana. Ella è un pretesto dell’ambizione et ostinazione» (p. 618). Innegabile pure in tutto il trattatello un senso di allarme per la solitaria e precaria sanità del saggio: «sei uomo mortale, sei pignata fragile» (pp. 615-16); «le virtù sono poche, e li vizi inumerabili, la comunicazione è più a male che a bene» (p. 624).
Cosciente della sua condizione umana, l’uomo che aspira all’«indoglienza, cioè conservazione della costituzione della nostra composizione», trova il suo «cibo dell’anima» nella «vera filosofia» degli antichi, come antichi sono i modelli a cui mira. Di Democrito è il messaggio della «tranquillità o securità dell’animo», di Chilone il monito del «nihil nimis», di Epitteto il saper affrontare le difficoltà «come tu facessi per burla e come fanno li putti», di Aristippo l’invito «ex omnibus voluptatem capere» (pp. 618-19). Ma modello per eccellenza del vero saggio non può che essere Socrate, il filosofo che insegna a non tenere «l’animo sempre teso et inarcato, e sul savio e serio», e a seguire «le inclinazioni tue naturali, non morbose, perch’andarci contra è navigar contr’acqua»; ricordandoci – e con questo aforisma si chiudono i Pensieri medico-morali – che «la più illustre azzione di Socrate era saper giocar con li putti alli astragali» (p. 628). È con il viatico di questi antichi saggi che il saggio-Sarpi – impossibile non pensare a un autoritratto, sia pur gelosamente mascherato – si immette per inderogabili necessità nella vita quotidiana, ben attento a salvaguardare il proprio mondo interiore. E così si autoammonisce:
Non aver mai fine di piacer all’universale, perch’ha operazioni contrarie alle tue, se le tue sono buone, né mai lo farai capace (p. 616);
raccordati di Democrito, “qui tranquille volet vivere, nihil publice agat, neque multa privatim” (p. 617);
Alle cose ordinarie puoi pensare un poco, alle estraordinarie tutte le provisioni del mondo non bastano: e quando anco qualche cosa con la prudenza si potesse dirizzare [...] è meglio lasciar correre, che soportare la seccagine del consiglio (p. 619);
Non credere che la vocazione tua sia il negozio, ma l’ozio, qual procurerai quanto potrai, e pensa che la più illustre delle azzioni tue è il vivere (p. 617).
Difficile non cogliere in questa diffidenza verso l’azione un disimpegno riguardo alla vita pubblica, che poco si addice a chi tra breve scenderà nel vortice del mondo «turbolento» della lotta politica e religiosa. Ma intanto, dovendo di necessità vivere nella realtà quotidiana, il pensiero stoico senechiano, filtrato attraverso la voce dei moderni Montaigne e Charron, lo ammonisce:
Non devi mai “iactare philosophiam”: ella correga li costumi tuoi, non li publici [...] Al di dentro vivi e giudica secondo la ragione, al di fuori secondo la comune vivi e parla [...]. Mai piglia impresa di voler persuadere la tua opinione all’universale, ch’è impossibile; né per leggerezza ti lascia uscir parola contro la comune, ma abbi “verba in tua potestate”, al che giova “minimum cum aliis loqui, plurimum secum”: e se puoi stare così mascherato con tutti, non curare ch’alcuno vegga la tua faccia; e se non puoi contenere il prorito di lasciarla vedere, eleggi con giudicio, [...] dicendo con Epicuro: “Satis magnum alter alteri theatrum sumus” (p. 626).
Una maschera a provvidenziale salvaguardia del proprio mondo interiore, che, va subito detto, poco ha a che fare con la sofferta confessione di Sarpi al giurista parigino Jacques Gillot, il 12 maggio 1609 (P. Sarpi, Lettere ai Gallicani, a cura di B. Ulianich, 1961, p. 133), di essere costretto a portare la maschera, dato che in Italia nessuno poteva farne a meno («Personam coactus fero, licet in Italia nemo sine ea esse possit»). Qui Sarpi ammette di portare la maschera, ma «coactus», forzatamente, fino a quando, liberata l’Italia dal giogo politico e religioso, non potrà strapparsela di dosso; là, il saggio consiglio di «contenere il prorito» e di restare «mascherato con tutti». Ma il Sarpi pubblico, quello civile, non solo in questo prenderà le distanze dal Sarpi privato.
Considerati il frutto più arduo della speculazione sarpiana, i Pensieri sulla religione (in Pensieri, cit., pp. 643-67), nonostante le evidenti fonti alle quali attingono, da Lucrezio anzitutto, ai moderni Machiavelli, Pomponazzi, Gerolamo Cardano, Bodin, Montaigne e, più diretto, al De la sagesse di Pierre Charron, risultano fortemente originali e dirompenti. Grazie all’acuta analisi del fenomeno religioso, mai finora direttamente affrontato dal servita, e all’attenzione allo sviluppo storico delle religioni in stretto rapporto con la società civile e politica, quei Pensieri sulla religione, pur presentando indubbie connessioni con i Pensieri naturali e con l’Arte di ben pensare, segnano un momento di grande novità nel percorso filosofico di Sarpi.
Questo il giudizio unanime degli studiosi. Restano tuttavia aperti interrogativi di fondo per definire un lavoro così impervio e pionieristico, a partire dal contesto in cui l’opera nasce, lo scopo che si propone, la sua brusca interruzione.
La datazione, fissata dai curatori prima dell’interdetto e dopo la comparsa del De la sagesse nel 1601, al quale l’operetta si rifà con passi ripresi alla lettera, va in realtà spostata più avanti, almeno per quanto riguarda l’ultima revisione, essendo l’idiografo pervenutoci in gran parte di mano di fra Marco Fanzano, amanuense di Sarpi a partire solo dalla primavera del 1609, con successive integrazioni autografe di Sarpi. Quella collocazione dell’ultima rivisitazione se non della integrale composizione, quando ormai il Sarpi consultore in iure si prepara ad affrontare un’intensa attività di consulenza giuridica, di composizioni storiche e di relazioni internazionali, mette più direttamente in rapporto i Pensieri sulla religione con il Sarpi pubblico che con quello privato. Qui basti osservare che l’attenzione mai prima così viva alla storia e ai rapporti tra Stato e religioni organizzate, fa apparire quel trattatello, pur in un contesto di intenti diversi, già proiettato verso alcune profonde linee conduttrici dell’Istoria del concilio tridentino, lavoro a cui il servita comincia a dedicarsi almeno dal 1610, a conferma della felice intuizione di Corrado Vivanti che i Pensieri sulla religione, per quanto «meditazione distaccata, freddamente intellettualistica», possono «darci modo d’intendere tante pagine dell’Istoria» (introduzione a P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino, a cura di C. Vivanti, 1° vol., 1974, p. LIV).
In questa sede, volendo privilegiare il carattere civile della riflessione sarpiana, accennerò all’analisi della religione sotto l’aspetto più propriamente politico, trascurando tutta la prima parte dell’operetta, originalissima, in cui Sarpi illustra la genesi del sentimento religioso spiegata attraverso un’analisi psicologica dell’uomo primitivo, che considera l’idea del divino una proiezione della mente umana, poiché le opinioni che l’uomo è in grado di fabbricare non possono essere diverse da quelle che ha di se stesso, al più una sua amplificazione che «leva quello che non vorressimo, cioè l’imperfezione» e «aggionge tutto quello che vorressimo, cioè perfezione» (Pensieri, cit., p. 649). Considerazioni complesse e straordinarie, tra le più sorprendenti del pensiero sarpiano, che tuttavia vengono interrotte e non più riprese per lasciar luogo alle riflessioni più propriamente politiche, che si aprono d’improvviso con l’osservazione che «il politico, che regola tutti gl’altri istromenti della vita, che non siano abusati contra il publico ma li servino, dà regola anche a questo», cioè alla religione.
Non si tratta più del «politico» dei Pensieri naturali, che usa danari e spassi ed eventualmente anche la religione; qui un politico realistico, non lontano dalla concezione libertina dell’«impostura», sa che la religione «può far gran bene, e gran male», «è di grand’uso, e di grand’abuso», pertanto «bisognando, se ne vale in ragion di soffisma per conservazione dello stato» (p. 649). È la religione, osserva Sarpi con fredda analisi, che permette al «politico» di mantenere la coesione del popolo, risultato che si consegue solo quando essa risponde alle esigenze sia dei «cervelli rozzi», sia di quelli «sottili», riuscendoci attraverso il simbolo, che contempera la rozzezza del «volgo» con le esigenze intellettuali dei «perspicaci», non escludendo dalla deificazione ogni «chimera, né cosa abietta» (p. 650), perché con il volgo «bisogna stare», e ricorrendo al mistero («il misterio è molto utile»), ai miracoli, allo stesso «mendacio» se utile come medicina, facendo «creder il vero e utile con premesse false» (p. 652). Ma gli effetti positivi di tale «medicina» si raggiungono solo «quando si riscontra in proporzionata», il che avviene unicamente grazie alle religioni «megliori», quelle che «mettono Dio al più alto, che dà maggior speranza [e ] l’uomo al più basso, che rafrena più gl’affetti» (p. 654); in tal modo «mettono l’animo in tranquillità e lo fanno generoso e umano». Di queste religioni
la somma – ribadisce Sarpi dal suo osservatorio storico e antropologico – fa Dio per la sola ammirazione senza cupidità né timore. Lo mette altissimo infinitamente sopra ogni concezzione. Ha opinione di lui senza gran determinazione del suo essere. Stima che ricevi in bene ogni concezzione che l’uomo ha di lui, e che aggradisca ogni servizio che li presta.
Dunque, al di là di ogni rigida determinazione dogmatica, essa lascia gran libertà nelle credenze e nei riti, «non aborrisce nessuna opinione che gl’altri abbino. Nè alcun servizio che gl’altri prestino» (p. 656). Una religione tollerante, che non si identifica con nessuna religione pubblica storica, perché le comprende e supera tutte (e qui si sarebbe tentati di interrogarci sulla religione personale di Sarpi, tentazione che subito accantono, ma che in questi Pensieri trova indubbiamente uno spiraglio di risposta non solo suggestiva).
Con questo metro di utilità civile e sociale, e costantemente attento agli stretti rapporti con le istituzioni politiche, Sarpi esamina nel loro percorso storico le religioni, da quelle primitive alla cristiana, passando per la religione dei Greci e dei Romani (di questi ultimi si riconosce la netta distinzione dello «ius sacerdotale [...] dal ius civile», p. 659), a quella ebraica (con il culto di un solo Dio, «giudice e moroso, che dà pene, premi, et è geloso», p. 660, e finendo per considerare gli altri dei «o cattivi, overo opinati», «onde tutte le altre religioni dannate», p. 661), per poi soffermarsi più puntualmente sul cristianesimo, dal periodo delle origini in seno all’ebraismo a quello dei primi secoli. Nel tracciare i dati salienti del cristianesimo, Sarpi rileva gli aspetti che l’avvicinano alla «somma» tra le religioni, conferendo «speranza, confidenza, allegrezza» all’uomo, grazie «alla espiazione facillissima» (p. 662), alla semplicità della dottrina e dei riti («con pochissimi misterii», p. 662) al prospettare la salvezza attraverso la fede, al sentire Dio «solo e altissimo», «istesso a tutte le nazioni», e di contro l’uomo «miserrimo in questo secolo» (p. 661); ma non nasconde che con l’attesa della prossima fine del mondo questo cristianesimo «leva la politica», rende gli uomini «insociabili, avendo gli altri per impii», svilisce le virtù civili, ponendo come meta «un’altra vita» (p. 662), unica e vera patria. Caratteri venuti progressivamente trasformandosi con la diffusione crescente della nuova religione, che porta al dogma trinitario e alla divinizzazione di Gesù, prima solo «uomo conciliatore, potente senza meno» (p. 662), al moltiplicarsi di «molti articoli de credenza» (p. 663) di difficile comprensione, con la conseguente confusione delle coscienze e il vantaggio dei «cattivi» che creano differenze e scrupoli. Con l’imperatore romano «costretto a congiungersi» con i cristiani sempre più numerosi, si assiste infine a una confusa commistione tra «la polizia e la religione», in cui tuttavia sono «posti i politici nel grege. Non datoci luoco speciale nella religione» (p. 664), e la politica considerata attività «che meglio fosse non attenderci» (p. 664), perché nella distinzione delle due patrie, celeste e terrena, le ragioni della prima hanno il sopravvento sulle «virtù» della seconda. Il cristianesimo a sua volta subisce un forte declino con il moltiplicarsi di «molti misterii» (p. 664) e dell’«arcano» contrario alla semplicità originaria, ormai dimenticata. Fin qui, l’analisi storica, che s’interrompe con un cenno alla «posterità di Carlo Magno» (p. 665).
Questa straordinaria analisi storica del fenomeno religioso, originale e audacissima anche nel panorama del pensiero religioso e politico europeo del tempo, presuppone uno studio specifico e approfondito della storia religiosa pagana e soprattutto giudaico-cristiana, che sicuramente Sarpi – lo dimostrano i molti scartafacci autografi rimastici – affronta durante la nuova esperienza della contesa dell’interdetto, che aveva richiamato prepotentemente la sua attenzione sul fenomeno religioso e sui suoi rapporti con la politica, studio che prosegue nei primi anni del dopo-interdetto, con l’assidua discussione con i corrispondenti gallicani sui problemi ecclesiologici dei primi secoli del cristianesimo, su cui il Sarpi privato, per sua stessa ammissione, non aveva mai attentamente sostato.
Con l’interdetto del 1606, il Sarpi finora conosciuto attraverso i suoi scritti privati sembra improvvisamente trasformarsi. Lui che ha per decenni declinato ogni «prorito» di dare alle stampe o di divulgare anche solo in forma manoscritta i suoi contributi filosofici, ora presenta dense scritture al Senato veneto e insistentemente consiglia di diffondere in Europa a stampa le ragioni della Repubblica, vincendo le iniziali resistenze dei responsabili veneti, restii a irritare maggiormente l’avversario romano. Un Sarpi che nelle sue pur rare annotazioni aforistiche sulla religione non aveva mai nominato il cristianesimo, e nei suoi pensieri morali aveva sistematicamente evitato rimandi all’etica cristiana, ora rammenta alla Chiesa della Controriforma il messaggio evangelico di povertà e di carità della Chiesa antica, separa radicalmente il Regno di Cristo, che non è di questo mondo, dal potere secolare, e contrappone la dottrina dei santi Padri al temporalismo pontificio. Temi su cui non aveva mai riflettuto «innanzi che le occorrenze del mondo m’invitassero a pensare come a cose serie, e non come a passatempi», poiché, confiderà a fine contesa a un corrispondente francese, fino ad allora «[io] aveva tutti i miei gusti nelle naturali e matematiche» (P. Sarpi, Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, 1° vol., 1931, p. 22).
Sappiamo che il servita, senza dare ulteriori spiegazioni, giustifica questo suo repentino passare all’azione con l’«occasione», senza la quale «un uomo non può niente» (2° vol., p. 130), come confiderà anni dopo a un corrispondente tedesco, ma con sorpresa in luogo del saggio che s’inoltra nella vita quotidiana deciso a «mai “iactare philosophiam”» e a non «voler persuadere» la sua «opinione all’universale, ch’è impossibile», troviamo un Sarpi tenacemente pugnace nel promuovere le sue convinzioni, vero suggeritore delle istanze politico-religiose più radicali del patriziato veneziano, non ultima l’appello al concilio generale contro Paolo V, suggerimento contestato dai colleghi giuristi e teologi e ben presto respinto in sede politica. Di fronte poi alla prospettiva di un governo disposto con realismo a qualche concessione al pontefice, che minaccia un aggravamento delle censure ecclesiastiche, il consultore reagisce duramente denunciando l’impudenza dei pontefici, i quali ritengono che «ogni mezo (se ben del resto iniquo et empio) adoperato per conservare e accrescere l’auttorità temporale, che pretendono, diventi giusto e legitimo» (P. Sarpi, Consulti, a cura di C. Pin, t. 1, 2001, p. 468, consulto 19), e ammonendo che ogni concessione agli ecclesiastici avrebbe solo rafforzato le loro «pretensioni», a partire dall’Inquisizione, all’Indice dei libri, alle immunità personali e reali ecclesiastiche, alla materia testamentaria e a quella beneficiaria, alla giurisdizione su greci ed ebrei (pp. 480-88, consulto 20).
La fine della contesa, nell’aprile del 1607, trovava un fra Paolo profondamente deluso per l’esito dei grandi disegni religiosi di riforma avviati e ben presto naufragati, per il repentino tramonto di «quel principio di libertà che Dio ci aveva aperta», per essere tornati a bere, dopo un temporaneo risveglio, «qualche oppiata del vase che addormenta tutti» (Lettere ai protestanti, cit., 1° vol., p. 4); motivi religiosi non disgiunti da una persistente preoccupazione civile per un disarmo generale del patriziato, tanto che in Venezia, lamenta, «nissun cura quali possino essere nel tempo futuro le massime con quali ora si governa, purché servano all’ozio presente» (p. 28).
È un Sarpi sconfitto, ma che non intende desistere, passato ormai definitivamente dall’«ozio» del filosofo, «qual procurerai quanto potrai», all’azione febbrile del politico. Personaggio scomodo a quanti in Venezia cercavano di ristabilire con Roma relazioni amichevoli, pronti a venire incontro alle insistenti richieste di Paolo V di ritirare (e di sconfessare) i libri antipontifici usciti sul fronte veneziano durante la recente contesa, quelli «ripieni di eresie», che il Sant’Uffizio aveva condannato, e l’allusione andava anzitutto alle scritture di fra Paolo, dal quale il pontefice pretendeva pubblica ammenda presso i tribunali ecclesiastici. Una velenosa tensione, con rischio di rottura diplomatica, che durerà fino agli inizi del 1609, quando si giunse unilateralmente a chiudere la vicenda con un gesto di sfida da parte di fra Paolo, che in accordo con il doge Leonardo Donà, suo stretto alleato, consegnava al Collegio veneziano, il 25 febbraio 1609, per essere letta in Senato la Scrittura in diffesa delle opere scritte a favore della Serenissima Republica nella controversia col Sommo Pontefice (Consulti, cit., t. 2, pp. 677-95), il documento più lucido ed energico che mai si fosse sentito in quel consesso durante la secolare storia di Venezia a difesa della sua autonomia di Stato libero. Sarpi vi ricapitolava con passione la sua visione politico-religiosa esposta nei suoi pamphlet a stampa al tempo dell’interdetto, esigendo dalla classe dirigente un’aperta assunzione di responsabilità nel riconoscere ufficialmente come proprie le ragioni pubblicate dal suo «teologo e canonista» durante la contesa e di conseguenza dichiarando di respingere ogni ulteriore pretesa pontificia di ritrattazione.
Perentoria, in questo senso, la chiusa di tutta la ponderosa scrittura: alle condizioni poste da Roma «non vi è altro rimedio che rimettere la causa a Dio giusto giudice e pregarlo che doni grazia a tutti li cristiani di far la sua santa volontà». Di questa severa e implacabile scrittura, ben presto circolante fuori dal Palazzo, in cui Sarpi intende farsi interprete del sentimento più genuino dello Stato, bastino poche enunciazioni, qui allineate senza bisogno di commento.
Dove si tratta della salute delle anime, tutti, anco li prìncipi, sono soggietti alli ecclesiastici, ma dove si tratta della tranquillità publica e della vita civile, tutti, anco li ecclesiastici, sono soggietti al principe.
Il prelato e il principe hanno ricevuto potestà da Dio, uno per reger li uomini quanto allo spirito, l’altro per regger li istessi nella vita civile, e il principe nelle cose spirituali ubidisce al prelato, il prelato ubidisce al principe nelle temporali. Questo vuol dire esser due potestà supreme, independenti, non subordinate, che una non può impedirsi nelli negozi dell’altra, né commandarli in quello che Dio ha raccomandato alla cura di essa.
Il prelato ecclesiastico, qualonque luoco egli tenga nella Chiesa, eziamdio che sii papa, avendo ricevuto da Cristo solamente le chiavi del regno celeste, non ha ricevuto auttorità di poter rivocare o annullare le leggi delli prìncipi spettanti alle cose temporali, né meno potestà di privarli delli Stati loro, né di comandarli in quello che tocca il governo politico, né di liberar li sudditi dal giuramento di fideltà legitimo prestato al suo principe.
La pretensione di poter abilitar o inabilitar alli regni, instituire e destituire li re [...] non è cosa corrispondente agli essempi di Cristo quando viveva, né delli Apostoli, né delli santi pontefici suoi successori, che mai tentarono tal cose.
Trattandosi di cose temporali, il suddito è obligato da Dio a prestar ogni obedienzia al suo principe nonostante che il papa commandi altrimente.
Non ostante qualonque essenzione, il principe ha ogni potestà sopra le persone e li beni degli ecclesiastici, quando la necessità del ben publico constringa e necessiti a valersi di quelle.
Il dare al papa una esorbitante e spaventevole auttorità, senza termine, senza legge e senza regola, è una falsa opinione, aliena dalla Scrittura e dalli santi Padri; ma l’asserir appresso che sii necessario alla fede crederla è eresia.
Il 24 marzo 1623 il Senato, due mesi dopo la morte di fra Paolo, deliberava di far trascrivere in lussuosi codici membranacei tutti i suoi consulti, oltre un migliaio, e di corredarli con indici e sommari, facendone in tal modo uno dei pilastri dell’ordinamento giuridico della Repubblica, a cui i futuri consultori in iure avrebbero dovuto fare costante riferimento. Si trattava, per dirla con Gaetano Cozzi, di un diritto ecclesiastico «tra i più articolati e moderni d’Europa», di un lascito di «princìpi giuridici e una prassi e uno stile che caratterizzeranno l’ordinamento giuridico della Repubblica nei suoi due ultimi secoli di vita» (G. Cozzi, Venezia nello scenario europeo (1517-1690), in G. Cozzi, M. Knapton, G. Scarabello, La Repubblica di Venezia in età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, in Storia d’Italia, dir. da G. Galasso, 12° vol., t. 2, Torino 1992, p. 91).
La sua carriera di consultore dopo la conclusione della contesa con Paolo V aveva avuto un avvio faticoso. Guardando in particolare alla Chiesa gallicana, alla sua autonomia da Roma, ai suoi istituti giuridici, Sarpi aveva concepito una radicale riforma della Chiesa veneziana, da ricondurre anch’essa a una forte autonomia da Roma, cominciando dalla materia beneficiaria, perché lì stava il «cardo nostrae libertatis» (Lettere ai Gallicani, cit., p. 81, 27 aprile 1610). Il risultato era stato deludente per le forti resistenze delle troppe famiglie patrizie interessate alle «reali facoltà e richezze ample e grandi e molte» (Consulti, cit., t. 2, p. 926, consulto 84) impetrate da Roma sotto forma di benefici ecclesiastici.
Ben presto fra Paolo doveva essersi convinto che la strada imboccata delle riforme radicali di carattere religioso era senza sbocco a causa di una classe dirigente che nella sua «maior pars» guardava con diffidenza alle novità. Memore dei Pensieri medico-morali, che consigliavano di non mettersi «all’impresa di levar un’opinione cattiva radicata, massime giudicata necessaria come una superstizione», non restava per «estinguere la tirannide», a differenza del «secolo passato», che ricorrere a «un mezzo più dolce», «incominciando dal tetto» (Lettere ai protestanti, cit., 1° vol., p. 23).
Non si trattava di rinunciare agli scopi fondamentali di promuovere una riforma della Chiesa riportata dallo Stato al suo compito puramente spirituale, e di ricuperare il pieno esercizio delle prerogative sovrane della Repubblica, minate dalle pretese della Chiesa, ma ora tutto ciò andava perseguito evitando dichiarazioni di principio, richiami scritturali all’investitura divina dello Stato (fondamento da Sarpi necessariamente mantenuto solo per affermare l’autonomia dal potere divino del papa), facendo invece leva sulla secolare prassi veneziana sapientemente vagliata grazie all’assidua ricerca negli archivi statali, e additando con discrezione l’esempio di leggi e di istituti più moderni degli Stati d’oltralpe. Un valutare, insomma, il problema secondo un metro politico, di bene pubblico, di superiore interesse dello Stato, mettendo al centro la concezione tutta laica della ‘sovranità’ e lasciando in ombra istanze teologiche e persino atteggiamenti inutilmente anticuriali.
Bisognava anzitutto «liberare» dalla «superstizione» i «debilia ingenia», somministrando una dottrina commisurata al livello dell’ignoranza, e pertanto passando sotto silenzio «plura et potiora» di quella che poteva essere una «solidior doctrina» (Lettere ai Gallicani, cit., p. 107), ma non «proporzionata» agli «infermi». Una strategia che a poco a poco si mostrerà vincente e vedrà l’azione civile del Sarpi pubblico crescere in importanza in un sempre più frequente intervento del consultore presso i maggiori organi di governo per rispondere su una crescente gamma di materie di carattere ecclesiastico e secolare. Interventi capillari, ma alla giornata, senza una programmazione e una più organica sistemazione di carattere generale del pensiero politico sarpiano.
Non erano mancati in realtà disegni più ambiziosi. Nell’estate del 1609, nel gran cantiere della produzione sarpiana, c’è posto anche per un vasto progetto, che Sarpi annuncia in una lettera ufficiale al residente veneziano a Napoli, giustificando la sua richiesta di documentazione sull’exequatur regio là in vigore. Scrive Sarpi: «Ho gran desiderio non solo di metter insieme tutti li buoni instituti per quali un dominio vien governato con quiete in questi nostri tempi assai turbolenti, ma ancora li fondamenti e raggioni con quali essi instituti si sostentano» (cit. in introduzione a P. Sarpi, Consulti, cit., t. 1, p. 13). Proposito straordinario e con tanto di benestare del Senato e del Consiglio dei Dieci, ma senza seguito. Come rimane affidato solo agli auspici di Jacques Gillot l’accenno a un ponderoso trattato sarpiano sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa (Lettere ai Gallicani, cit., p. 139), tema centrale del carteggio con il giurista parigino. Solo verso la fine del 1610 Sarpi metterà mano a un’opera che, a detta di Micanzio, sarebbe dovuta essere «la più bella e importante composizione [...] mai comparsa al mondo», ma che Sarpi aveva presto abbandonato dopo averne abbozzato i tre primi capitoli e steso una traccia di 206 rubriche.
Nel carteggio con Gillot, il più ricco di dottrina politica dell’epistolario sarpiano, e nel Della potestà, senza l’assillo di rispondere alla «maior pars» dei senatori, Sarpi può manifestare liberamente le sue concezioni più avanzate. Così in una serrata discussione sui rapporti fra potestà civile ed ecclesiastica, tra regno celeste e regno mondano, il servita giunge a escludere una equilibrata paritaria convivenza dei due supremi poteri («non possono avere alcun contatto, alcun vincolo, alcun rapporto, se non quello che ponga l’uno, direttamente e in tutto, alle dipendenze dell’altro»), poiché «la maestà non accetta servizi in paritario contraccambio, li pretende tutti subordinati, nulla dev’essere superiore al re, nulla a lui pari» (p. 141, 8 dicembre 1609); concezione che trova nel Della potestà de’ prencipi una decisa formulazione anticipatrice dell’assolutismo hobbesiano, dove con forza si ribadisce che
chi ha la maestà commanda a tutti e nessuno può commandar a lui; [...] non è soggetta a nessuna legge umana, sia qual si voglia, ma egli commanda eziandio a tutte le leggi; [...] non commanda secondo le leggi ma alle leggi stesse, resta ubligato solo a Dio e alla sua conscienzia.
E una radicalità ancora più scoperta si intravede nelle ‘rubriche’, come quelle che recitano:
Che la principal cura data da Dio al Prencipe è della religione;
Che la cura del Prencipe è di far che li sudditi tengano la verità;
Al Prencipe appartiene congregar li ministri [ecclesiastici] per avvisar sopra la verità e sopra la disciplina della Chiesa (Della potestà de’ prencipi, a cura di N. Cannizzaro, 2006, pp. 52 e 76).
Formulazioni perentorie, geometriche, di astratto dibattito, lontane dal tono colloquiale e realistico dei consulti contemporanei. Basti a confronto, tra i molti esempi, questo passo di argomento analogo:
Il paroco ha auttorità di confessare li infermi della sua parochia, ma non potrà entrar in casa per far questo santo ufficio senza licenza espressa o tacita del padre di famiglia [...]; e quando dicesse: ‘quest’anima è commessa da Dio alla mia cura e però voglio trattar con lei dovunque la sia’, potrebbe aver per risposta dal patrone di casa: ‘questa casa è commessa da Dio alla mia cura, e pertanto io non voglio che alcuno ci entri a far qual si voglia cosa senza che io lo sappia’ [...]. Così nelli domìni, se ben Cristo ha dato alli suoi ministri l’auttorità di far le fonzioni ecclesiastiche, per metter questa in atto ha voluto che vi sii il consenso di chi domina nel luoco» (Consulti, cit., t. 2, p. 936, consulto 84).
È un Sarpi più dimesso, ma non meno efficace nella sua azione di promozione civile, che oltre al compito di chiarire i problemi e di offrire soluzioni tecnicamente corrette e vincenti, mira a un’operazione di formazione mentale, a liberare le menti dalle false opinioni. Lo sottolineava un patrizio amico del servita, quando scriveva che per «i pontificii» «anderanno le cose loro deteriorando, perché quelli che vanno subintrando nel governo intendono i negotii diversamente da quello che si sono intesi per il passato» (Lettere ai Gallicani, cit., p. 250). Risultati parziali e saltuari, a seconda delle tendenze politiche dei componenti degli organi di governo e delle occasioni che le consulenze gli offrono.
Non sempre si presentano occasioni per imprimere una svolta nella legislazione veneziana come con la bellissima scrittura Sopra l’Officio dell’Inquisizione o con il trattato Sopra le immunità delle chiese, entrambi circolanti in Europa e apprezzatissimi da Ugo Grozio; ma anche «opportunità» meno vistose vanno colte di volta in volta per ammodernare la legislazione veneziana. Così, attraverso un argomentare piano e pragmatico, il consultore può con successo rivendicare alla Repubblica il diritto di dottorare allo Studio di Padova per autorità dello Stato, sottraendolo ai poteri universali dell’Europa medievale, il papa e l’imperatore; o sottrarre le «cause di astrologia, divinazioni, malie, fatocchiarie o strigarie» al dominio dell’Inquisizione, liberare i librai dal rendere conto alla Chiesa dei libri in deposito, togliere sacralità ai contratti sotto giuramento e per ciò stesso esentarli dal foro ecclesiastico. Conquiste, tra le tante, dovute al faticoso e non appariscente compito di consulente giuridico della Repubblica, alla quale Sarpi consegna, negli ultimi anni di vita, quasi sistematicamente due consulti la settimana, spesso di notevole consistenza e tra i più belli della sua carriera. E a quanti lo esortavano a «rallentare le sue fatiche», il servita ormai vecchio e malato, replicava, come narra Micanzio, «che suo officio era servire e non vivere, e sempre ognuno muore nel suo mestiere» (Vita del Padre Paolo, cit., p. 1402).
È negli oltre mille consulti che va cercato il più genuino Sarpi civile, dove in una miniera di considerazioni filosofiche, giuridiche, politiche sentiamo la caparbia volontà del frate veneziano di educare una classe dirigente ai valori laici dello Stato; e negli anfratti di quei consulti non è raro cogliere la presenza dei lontani aforismi del Sarpi privato, ‘contaminati’ ormai dai «tempi assai turbolenti», come in questo passo scritto a due mesi dalla morte:
La religione è causa delli supremi beni dell’uomo, di là viene la salute delle anime, l’amore e la concordia a chi se ne vale in bene, ma per l’abuso della religione vengono le più crudel guerre e le più perniziose contaminazioni che possono occorrere, e li tempi presenti ne portano lamentevoli essempi. L’ufficio dell’Inquisizione dove è ben usato, mantiene netti li luochi dalla contagione di eresia, e con la unità della religione conserva insieme la tranquillità publica, ma il medesmo ufficio introdotto nei Paesi Bassi è stato principio di causare tutte le ruine occorse in quelle regioni da 60 anni in qua, et altrove serve più per eccitar calunnie che per conservare la fede (Opere, cit., p. 1208).
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