Paolo Sarpi
L’opera di Paolo Sarpi come storico e come politico rappresentò il più alto contributo intellettuale italiano dell’età della Controriforma offerto alla riflessione europea sui rapporti tra Stato e religione. Scrittore dallo stile nitido e asciutto, di intelligenza acutissima e di una straordinaria ricchezza e varietà di interessi – dalla medicina alla filosofia, dalla matematica alla teologia –, fu il protagonista e l’animatore di quella che venne definita la «guerra dell’Interdetto» tra Venezia e il papato, un conflitto che si collocò al centro della storia europea in un momento particolarmente delicato. I suoi consulti (ancora parzialmente inediti) fondarono su una cultura vastissima e su un autentico genio di polemista l’estremo tentativo di uno Stato italiano di affermare la sua autonomia dall’autorità papale. Come politico, tentò di dare corpo a un progetto di collegamento con la Francia e con gli Stati protestanti. Dall’attività politica nacquero scritti storici (sull’Interdetto, sulla guerra degli Uscocchi, sull’Inquisizione) dove la materia presente veniva illuminata da un lucido dominio dei dati della ricerca storica, qualità che gli dettarono il suo capolavoro: la Istoria del concilio tridentino, monumento insuperato di lingua e di stile sulla linea della storiografia politica fiorentina di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini.
Paolo Sarpi, nato a Venezia il 14 agosto 1552, figlio del mercante friulano Francesco e di Isabella Morelli, cittadina veneziana, entrò nel 1566 nella Congregazione dell’Osservanza dei servi di Maria. La sua intelligenza vivacissima e l’eccezionale memoria di cui era dotato ne accompagnarono la carriera e suscitarono l’attenzione di personaggi come Gabriele Paleotti e Carlo Borromeo. Dopo la professione dei voti (a Cremona nel 1572), studiò a Mantova e si laureò a Padova nel 1578. Gli appunti privati che tenne a partire dal 1578, conservatici solo in parte, documentano la vastità dei suoi interessi. A Mantova conobbe Camillo Olivo, segretario del cardinale Ercole Gonzaga e legato pontificio al Concilio di Trento, da cui ebbe documenti sulle sessioni del Concilio tridentino che avrebbe utilizzato nella sua Istoria. Una carriera rapidissima lo portò vicino a diventare generale dei serviti: come procuratore generale dell’Ordine visse a Roma fino al 1588, anno in cui si ritirò a Venezia disgustato dai costumi della curia e inseguito da sospetti di eresia che gli impedirono di ottenere la nomina a vescovo di Caorle e poi di Nona in Dalmazia dove intendeva ritirarsi per dedicarsi a studi e letture. Frequentando i circoli politici e intellettuali della Venezia del tempo coltivò ricerche di tipo scientifico e filosofico associandosi, anche, alle ricerche dell’amico Galileo Galilei. Ma la passione politica e religiosa si rivelò quando una svolta politica della Repubblica cambiò i suoi progetti.
Il nuovo doge Leonardo Donà, esponente del partito dei ‘giovani’, aprì un fronte di resistenza alle pretese di papa Paolo V che chiedeva imperiosamente di abolire leggi limitative dei privilegi del clero e di consegnare al nunzio due ecclesiastici colpevoli di gravissimi reati. Nominato consultore come teologo e canonista il 28 gennaio 1606, Sarpi accolse con entusiasmo e con una commossa dichiarazione l’occasione di servire la sua città. La sua collaborazione fu determinante nella conduzione della battaglia di scritture contro l’Interdetto scagliato da papa Paolo V contro Venezia: fu grazie a lui che questo divenne l’episodio centrale della politica europea fino alla conclusione della vicenda (1607). Sarpi ne uscì sconfitto e scomunicato, ma non rassegnato: né rassegnati furono i suoi nemici che lo volevano a Roma per processarlo e resero insicura la sua vita perfino a Venezia, dove fu vittima di due attentati.
Nel 1619 la pubblicazione a Londra sotto pseudonimo (Pietro Soave Polano) della sua Istoria del concilio tridentino rappresentò l’episodio principale di una diffusione dei suoi scritti fuori d’Italia, perdurando nel suo Paese la condanna della Congregazione dell’Indice e la scomunica del Sant’Uffizio. Morì il 15 gennaio 1623 nel monastero veneziano dei serviti, rifiutando i sacramenti della confessione e dell’estrema unzione, ma accettando la comunione. Da Roma si colse l’occasione per un intervento su Venezia al fine di evitare che gli venisse eretto un monumento: la tenace memoria romana dell’antico avversario doveva accanirsi per secoli contro di lui.
Il pensiero di Sarpi è documentato nel suo sviluppo da annotazioni private delle sue letture e delle sue idee. Le note, redatte a partire dal 1578, conservate nel convento dei serviti di Venezia insieme a tutte le sue carte, perirono nell’incendio che distrusse la biblioteca conventuale nel 1769: ne rimangono tracce importanti nelle riflessioni e negli abbozzi su questioni di matematica, astronomia, religione e medicina conservati in fondi di biblioteca e d’archivio a Venezia nonché, soprattutto, nelle copie dei «pensieri naturali, metafisici e matematici» che furono redatte da amanuensi settecenteschi prima dell’incendio.
Alla luce di queste tracce, le opere maggiori e gli scritti editi sono apparsi come la punta visibile di un iceberg: nella parte rimasta manoscritta delle sue riflessioni e dei suoi appunti la cultura e le idee di Sarpi appaiono di straordinaria ricchezza e densità, rivelando, pur attraverso il velo di un procedere per dilemmi e di un linguaggio coperto, la grande quantità di interessi di un lettore acuto di autori antichi e moderni: da Aristotele a Occam, da Pomponazzi a Machiavelli, fino alle componenti di una cultura contemporanea europea, specialmente, ma non solo, francese e in particolare della sua componente libertina da Bodin a Montaigne, a Charron, a Hobbes, a Campanella.
Le tracce di questa rapida e intensa maturazione mostrano una personalità complessa, impegnata in un bilancio dello stato delle conoscenze, in primo luogo sul modo in cui si apprende e si conosce la realtà e si creano e si governano le opinioni: si va dalla gnoseologia e dalla morale alla biologia, all’ottica, alla medicina e alla fisica. Potenzialità rimaste senza sviluppi nell’uomo maturo, ma coltivate con grande intensità da un Sarpi che appare precocemente interessato ai temi che caratterizzeranno la rivoluzione scientifica del Seicento. Gli incontri con personalità come Giovan Battista Della Porta e Galilei avvennero a partire da curiosità e ricerche che permisero a Sarpi di dialogare alla pari con i suoi interlocutori. In questo laboratorio di un giovane alle prese con l’inventario del sapere si trovano anche le tracce che si attueranno pienamente nell’opera matura: quelle concernenti la religione e il suo rapporto con lo Stato.
La religione fu per lui, ha scritto Federico Chabod, «un fatto morale, di morale umana» (La politica di Paolo Sarpi, in Id., Scritti sul Rinascimento, 1967, p. 471), non misticismo né tormentosa ricerca teologica. Uno stile di vita serio e severo, un parlare pacato e una grande attenzione all’interlocutore e la mancanza di atti o parole fuori norma ne caratterizzarono la personalità. Nonostante la prudenza nicodemitica che fu la sua regola di vita (è celebre la dichiarazione: «la falsità mai mai, il vero non a tutti»), qualcosa dovette trapelare dei suoi riposti pensieri: una precoce accusa di eresia già negli anni mantovani fu seguita dalle insinuazioni malevole del gesuita Achille Gagliardi raccolte e rilanciate a Roma dal nunzio a Venezia Antonio Maria Graziani in occasione della candidatura a vescovo di Caorle: era, secondo loro, «uomo che possa credere qualcosa di quel che non si deve, e non credere in qualche altra parte quel che siamo obligati»; e si segnalava la sua appartenenza a una «scoletta piena d’errori» (in Opere, a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, 1969, p. 28).
La «scoletta» era un ridotto di nobili e uomini di cultura: fu lì che Sarpi ebbe i primi contatti con Leonardo Donà e con l’ambiente di una frazione della nobiltà veneziana insofferente della politica prudente del gruppo al potere, decisa a resistere alle pretese di un papato legato a doppio filo con la Spagna. Uno scontro nel 1596 tra Donà e il nunzio su questioni politiche (una proposta di riprendere la guerra contro i turchi) ed ecclesiastiche (l’applicazione dell’Indice dei libri proibiti) portò alla luce l’insoddisfazione di una parte della classe dirigente veneziana. Ma fu con il nuovo pontefice Paolo V Borghese che a un’avanzata aggressiva delle pretese romane rispose un atteggiamento non remissivo del governo veneziano. Nonostante l’insistenza papale non furono abolite due leggi veneziane che vietavano la fondazione di monateri e chiese e altri luoghi pii senza il permesso del Senato e il trasferimento di beni immobili a persone ecclesiastiche; e non vennero liberati dal carcere e rilasciati al foro ecclesiastico due abati colpevoli di gravi reati di violenza. Donà, da poco eletto doge, si trovò davanti alla minaccia papale di fulminare l’interdetto e la scomunica. In quel clima, come già ricordato, Sarpi fu nominato consultore canonista e teologo il 28 gennaio 1606. Nello stesso giorno il Senato rigettò il breve con le richieste papali e lo fece riprendendo gli argomenti proposti in un consulto sarpiano.
Fu l’occasione che cambiò il corso della sua vita e rivelò la passione politica con cui seguiva le vicende di quella «inclita città» al cui doge, come scrisse in una commossa lettera al Senato, aveva desiderato ardentemente di «poter essere atto in qualche maniera a servire»: ora Dio stesso aveva «insperatamente aperta la strada al mio desiderio». Ne nacque una lunga serie di consulti destinati a una circolazione che fu vasta e andò ben al di là delle aule del Senato veneziano. Concepiti come armi di una battaglia che fu la prima dopo l’invenzione della stampa a essere combattuta attraverso la propaganda tra poteri in conflitto, i consulti vennero non solo dibattuti e votati in Senato, ma circolarono nelle corti europee dove si guardò alla vicenda con grandissima attenzione: negli anni dell’avvento al potere di Enrico IV e delle tensioni che dovevano sfociare nella guerra dei Trent’anni, la crisi italiana era diventata una questione su cui si cercava di influire da parte di molti Stati. E Sarpi stesso si collocò del tutto naturalmente al centro di una rete di corrispondenti che gli permise di svolgere una funzione importante.
I testi dei consulti e gli appunti elaborati per il doge s’imposero all’attenzione per il vigore dello stile e per la robustezza degli argomenti. Sulla base di una vasta cultura storica e teologica più che canonistica, Sarpi fornì gli elementi di sostegno a una posizione di intransigente difesa delle prerogative della sovranità statale contro i tentativi di usurpazione messi in atto dalla politica papale. Sarpi mise subito in chiaro che non era possibile cedere su nessun punto delle richieste papali perché questo avrebbe comportato la lesione della maestà dello Stato. Fin dall’inizio Sarpi ribadì che: «nissuna ingiuria penetra più nell’intimo d’un principato quanto che la maestà sua, la sopranità cioè, sii limitata e sii soggietta a leggi d’altrui» (in Consulti, a cura di C. Pin, t. 1, 2001, consulto 2). Su questa base fu redatta la risposta veneziana ai brevi papali del 10 dicembre 1605.
Da Roma si sosteneva l’obbligo di obbedire alla suprema autorità del pontefice minacciando, in caso contrario, la scomunica dei responsabili e l’interdetto sullo Stato. La questione era allora oggetto del duro scontro tra Giacomo I Stuart, da un lato, e Paolo V e il cardinale Bellarmino, dall’altro, sulla questione capitale dell’Oath of Allegiance (il giuramento di fedeltà imposto nel 1606 dal sovrano inglese ai suoi sudditi cattolici) e della fedeltà politica dei cattolici inglesi. La celebre congiura delle polveri (ossia il piano ideato da un gruppo di cattolici inglesi per assassinare nel 1605 Giacomo I) rappresentò l’evento che segnò la rottura finale. Sarpi era allora in contatto con esponenti della cultura e della politica inglese come sir Edwin Sandys, Dudley Carleton, William Bedell che seguivano con grande interesse le vicende veneziane. Altrettanto facevano i protestanti tedeschi, che vedevano risorgere la speranza che Venezia diventasse la ‘porta dell’Evangelo’. Da Ginevra Giovanni Diodati si informava da Sarpi su quanti seguissero segretamente le idee della Riforma e concepiva la sua traduzione in italiano della Bibbia come l’arma di una espansione vittoriosa della «verità dell’Evangelo». Sarpi era il punto di riferimento di questa rete internazionale di appoggio per l’opera sua, che era di autore ma anche di editore. In questa veste pubblicò, nel maggio 1606, la traduzione italiana di due scritti di Jean Gerson dove si discuteva sulla validità della scomunica; e tra agosto e settembre dello stesso anno dette alle stampe tre suoi scritti: le Considerazioni sopra le censure della Santità di papa Paulo V contra la Serenissima Republica di Venezia (in italiano e latino), il Trattato dell’Interdetto e l’Apologia per le opposizioni dell’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale Bellarmini.
La polemica violenta che si scatenò tra le due parti in lotta e il ruolo di protagonista assunto da Sarpi fecero allora sorgere la convinzione di una sua conversione alla Riforma. Di fatto Sarpi fu sempre attento a non dare adito a sospetti di abbandono dell’appartenenza al cattolicesimo romano che avrebbero indebolito la posizione di Venezia. Ma, nello stesso tempo, mostrò interesse e simpatia per tutte le realtà contemporanee in cui la religione non era in conflitto con la fedeltà politica, fossero i gallicani francesi o gli anglicani. Nei consulti e nelle scritture relative alla questione dell’Interdetto tenne sempre a ribadire l’obbedienza di Venezia non al papato ma alla «Chiesa antica e santa». Il documento fondamentale con cui si aprì la fase più aspra del conflitto fu scritto interamente da lui: si tratta del Protesto, pubblicato il 6 maggio 1606, con cui il doge imponeva agli ecclesiastici del dominio di non obbedire all’Interdetto pur professando la volontà della Repubblica di «vivere nell’unità della Chiesa cattolica sotto l’obedienza della Chiesa universale». Quella distinzione tra la Chiesa antica e la moderna Chiesa papale non era solo un’astuzia di polemista: nell’opera politica e storica di Sarpi costituì un tema fondamentale. La pretesa papale di un potere assoluto fu da lui bollata come una grande «deformazione», una novità assoluta e una frattura rispetto alla forma della chiesa apostolica. Per essa coniò il termine di totato, prima formulazione del moderno termine totalitarismo, a indicare l’inaudita pretesa di un dominio illimitato avanzata dal papato medievale.
Gli studiosi si sono interrogati a lungo su quale fosse la radice di questa convinzione, se provenisse dall’adesione alle idee della Riforma protestante o avesse un’origine diversa, per es. nella presenza nelle istituzioni e nella cultura veneziana di un diverso modello di Chiesa, quella cristiana d’Oriente. Di fatto, l’opposizione tra papato e Chiesa universale alimentò la battaglia dell’Interdetto e suscitò intorno a Sarpi le simpatie dell’Europa protestante e anglicana, come pure quelle dei gallicani francesi. Procedendo sulla via di una risoluta ed efficace lotta contro le pretese romane fu lui a proporre l’audace idea di contestare l’Interdetto papale con un appello a un futuro Concilio. Era stato Lutero l’ultimo a farvi ricorso nonostante la condanna papale. Quando si dovette rispondere alla minaccia papale questa fu la proposta presentata da Sarpi che accanto al consulto preparò una scrittura di carattere storico sul conciliarismo (consulto 9 e Principio di scrittura della potestà d’i concili, in Id., Consulti, cit., pp. 344-57). La proposta non trovò il consenso degli altri due consultori e nemmeno quello del governo veneziano: né venne accolta l’idea del patriarca di Aquileia Francesco Barbaro di convocare un concilio provinciale, per cui si ripiegò su di un testo più moderato. Ma si trattò comunque della manifestazione pubblica di un giudizio critico sul Concilio di Trento come strumento di rafforzamento del potere papale che doveva trovare poi la via della grande opera storica scritta in anni successivi.
Nei consulti l’opera di difesa delle prerogative del potere statale è condotta tenendo fermo il nesso tra i precedenti in materia di diritto e quelli storici: ma la linea di argomentazione è soprattutto vigorosamente storica. È da una considerazione storica ad ampio orizzonte che risultano chiare anche le convinzioni di Sarpi. Se ne ha un esempio nel parere «sopra l’officio dell’inquisizione» (18 novembre 1613). Qui fissò in una precisa scansione di 39 punti il ‘capitolare’ da osservare in tutti i casi di inquisizioni per eresia, dove riassunse le regole da seguire sulla base dei concordati e delle delibere del Consiglio dei Dieci e della Zonta, ponendo attenzione a impedire ogni abuso ecclesiastico e a tutelare l’autonomia dell’autorità temporale: per questo precisò che non dovevano essere sottoposti a processo i casi di superstizioni, bestemmie, sortilegi. Quanto alla censura libraria, rivendicò al potere politico il diritto di emanare provvedimenti anche in questa materia. E soprattutto tenne fermo sul punto che l’autorità ecclesiastica non dovesse giudicare né ebrei né musulmani («infedeli»): e questo perché «l’infedeltà non è eresia». C’era poi il caso dei cristiani di rito greco: ma questi erano soggetti al magistrato pubblico per loro convinzione e per la tradizione veneziana.
La frattura tra la Chiesa d’Oriente e quella romana aveva aperto una controversia che restava pendente. Un punto capitale di tutto il consulto è quello secondo cui non è solo la legge della Chiesa che lega le coscienze, ma anche quella del principe. Sarpi aveva ben compreso che, lasciando al solo potere spirituale la possibilità di legare le coscienze, si apriva la via per disobbedire alle leggi dello Stato. E qui Sarpi rinviava direttamente al testo evangelico per dimostrare che le chiavi concesse a san Pietro riguardavano solo il regno dei cieli. Era soltanto alla potestà temporale che spettava la custodia della pubblica quiete. Questo testo venne stampato alla macchia nel 1638 e comparve in traduzione inglese a Londra nel 1639 e latina a Rotterdam nel 1651.
La fine della battaglia per l’Interdetto non rappresentò un ritorno alla vita ritirata di studi e meditazioni che Sarpi aveva immaginato per sé. Al contrario: i suoi rapporti con la cultura europea si intensificarono. Mentre si interrompeva quello con Galilei che lasciava Venezia per la corte toscana e per Roma, si moltiplicavano le relazioni con corrispondenti e amici insieme ai quali condivideva l’ostilità verso i gesuiti e la preoccupazione per l’avanzata dell’aggressivo cattolicesimo della Controriforma.
Il rapporto con il cappellano dell’ambasciata inglese a Venezia, William Bedell, le lettere scambiate con magistrati gallicani come Jacques Leschassier, con il grande filologo Isaac Casaubon e con una fitta rete di interlocutori non italiani, alimentarono il già intenso scambio con la cultura europea e arricchirono Sarpi di occasioni di confronto, ma soprattutto della possibilità di tenere aperta quella porta veneziana verso l’Europa che la censura ecclesiastica e l’Inquisizione romana tendevano a chiudere. «L’Inquisizione cesserà e l’Evangelio avrà corso», scriveva Sarpi a Jérôme Groslot de l’Isle nel 1610: la speranza del mutamento era da lui riposta nei progetti di guerra di Enrico IV.
Di fatto la conclusione della vicenda dell’Interdetto, avvenuta il 21 aprile 1607 grazie alla mediazione del cardinale François de Joyeuse, non rallentò l’attività di Sarpi come consultore: al contrario, l’attentato di cui fu oggetto nell’agosto stimolò la reazione del governo che gli concesse un trattamento speciale e gli affidò una grande quantità di questioni relative ai rapporti con Roma. Intanto si stringevano intorno a lui le fila di contatti con corrispondenti di tutta Europa che aspettavano dalla sua opera un contributo decisivo alla rottura con il papato. Questo fece nascere allora contro di lui, già colpito dalla scomunica, il sospetto di una vera e propria conversione religiosa ad altra chiesa. In realtà, al di là della difficoltà di penetrare nel segreto di una coscienza ben tutelato da una prudenza che apparteneva a tutta la cultura del tempo, resta il fatto che le convinzioni di Sarpi andavano verso una religione che non moltiplicasse inutilmente gli articoli di fede e che procedesse senza intolleranza, come dimostrò nel seguire e commentare le divisioni interne al calvinismo e l’esito del sinodo di Dordrecht.
Furono anni di attività intensissima di scrittore di consulti, ma anche e soprattutto di autore di opere storiche e polemiche che avevano per oggetto lo stato presente della religione in Italia e si distendevano sempre più verso una messa a punto storica dell’evoluzione della Chiesa. Di una considerazione amara e polemica della situazione e delle origini remote della decadenza della vita religiosa in Italia si ha un documento nei capitoli da lui aggiunti al libro di sir Sandys tradotto con l’aiuto di Fulgenzio Micanzio e in collaborazione con Bedell per un’edizione veneziana che non ebbe luogo. Al disegno, tutto sommato benevolo, della sociologia religiosa italiana fatto da Sandys, Sarpi aggiunse integrazioni proprie ai primi otto capitoli, con le quali richiamò l’attenzione sulle origini storiche di quelle deformazioni che avevano svuotato di serietà e di consapevolezza i rituali liturgici e i sacramenti, in particolare quello della confessione. L’opera non finì tra le mani dei veneziani e giunse alla stampa solo a Ginevra nel 1625. Non migliore sorte ebbero le altre opere storiche concepite e realizzate in questi anni: il Trattato delle materie beneficiarie e, soprattutto, l’Istoria dell’Interdetto e l’Istoria del concilio tridentino.
L’esperienza politica e la vasta cultura storica accumulata con assidue letture da Sarpi si depositarono principalmente in queste due opere dove le sue convinzioni personali sullo stato presente della religione e sulle cause remote presero forma distesa in un disegno di grande respiro e in pagine di asciutta eleganza e di robusta tessitura documentaria. Esattamente il contrario di quella «fastidiosissima prolissità», di quei continui «sciocchi giudizi, insopportabili nella storia», di quell’infarcire la narrazione di rinvii eruditi che costringono il lettore «a sostare a ogni passo» che criticava negli Annales del Baronio (in una lettera a Casaubon del giugno 1612, cfr. Opere, a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, in Storici, politici e moralisti del Seicento, 1° vol., 1969, pp. 291-92). Di contro alla storiografia umanistica e all’accumulo di erudizione, la scelta storiografica di Sarpi fu a favore di una narrazione asciutta e serena e di un’assunzione di un grande problema storico come asse portante della ricerca di indizi e prove in un vasto orizzonte di fonti scritturali, giuridiche e politiche. Il Trattato delle materie beneficiarie affronta la questione di come si fossero introdotti abusi nella pratica evangelica di Cristo e degli apostoli di ricevere offerte per il proprio sostentamento e per distribuirne il soverchio ai poveri. Si prende avvio dall’età della predicazione di Cristo e dai primi abusi introdotti da Giuda per mostrare come i «defetti» presenti nel corpo ecclesiastico fossero il punto d’arrivo di una lunga evoluzione e non il frutto di un’improvvisa deformazione. L’opera rimase a lungo inedita, ma nutrì della sua sostanza le riflessioni di due autori come Richard Simon ed Edward Gibbon.
Ma fu soprattutto con l’Istoria del concilio tridentino che Sarpi lasciò un segno incancellabile nel contesto di una storiografia europea che dai tempi di Guicciardini e di Machiavelli cercava di applicare la lezione dei grandi modelli antichi alla comprensione dei processi storici dell’età contemporanea. Negli anni del declino dell’impegno politico veneziano (che furono anche quelli del dialogo epistolare con una vasta rete di corrispondenti di tutta l’Europa e di ogni appartenenza religiosa), Sarpi affrontò la ricostruzione storica del Concilio di Trento, l’assemblea ecclesiastica da lui definita «l’Iliade del nostro tempo».
Era la prima vera storia del Concilio che superava d’un balzo i tentativi polemici di parte protestante e la nebbia dell’apologetica cattolica e offriva una straordinaria messe di informazioni fuse nel grande respiro di una narrazione magistrale che non perde mai di vista il problema generale lucidamente proposto fin dalle prime pagine. Qui la catastrofe della Chiesa celata dall’avvio trionfale del primo Cinquecento riprende il modello guicciardiniano della Storia d’Italia (come ha notato Corrado Vivanti nella sua edizione dell’Istoria del 2009) e introduce alla vicenda del Concilio, una vicenda concepita da Sarpi come un caso di eterogenesi dei fini, dato l’esito imprevedibile di un’assemblea ecclesiastica che, osteggiata dal papato e convocata per riformare la Chiesa e saldare la frattura religiosa della cristianità europea, aveva finito con il produrre non la riforma ma la più grave «deformazione»: l’affermazione del papato al di sopra di tutto il corpo ecclesiastico e la definitiva rottura con i riformatori protestanti.
La nitida narrazione dei «maneggi» interni all’assemblea tridentina vi si intreccia con l’analisi del quadro politico europeo e l’esposizione delle questioni trattate nel Concilio è inquadrata con uno sguardo attento alle premesse storiche dell’elaborazione teologica e dell’evoluzione canonistica. Il modello della storiografia politica cinquecentesca dominata dalle azioni e dai discorsi dei protagonisti e quello dell’annalistica di Baronio come mera elencazione di dati lasciano qui il posto a una potente capacità di fondere il documento nella ricostruzione storica. A lungo da parte cattolica si tentò di smontare l’edificio costruito dallo storico veneziano sostenendone l’infondatezza e l’ignoranza dei dati documentari. Quest’accusa, ripetuta fin nel secolo scorso, è stata svuotata di contenuto proprio dalla pubblicazione delle fonti del Concilio portata avanti nel Novecento dalla cattolica Görres-Gesellschaft. Come ha dimostrato Vivanti, pagine su pagine di Sarpi seguono da vicino le fonti autentiche del Concilio, a lui pervenute tra l’altro grazie al già ricordato Camillo Olivo da lui conosciuto a Mantova.
L’opera vide la luce a Londra nel 1619, pubblicata contro la sua volontà dall’arcivescovo esule di Spalato Marcantonio De Dominis. A lui si dovettero la scelta dello pseudonimo trasparente del frontespizio (Pietro Soave Polano) e un titolo polemico che dispiacque molto a Sarpi: Historia del concilio tridentino nella quale si scoprono tutti gl’artificii della corte di Roma, per impedire che né la verità di dogmi si palesasse, né la riforma del papato, et della chiesa si trattasse.
Questo fu l’episodio più importante della circolazione europea dell’opera di Sarpi. In Italia la scomunica del Sant’Uffizio e la condanna dei suoi scritti da parte della Congregazione dell’Indice ne impedirono la lettura.
Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, 2 voll., Bari 1931.
Istoria dell’interdetto e altri scritti editi e inediti, a cura di M.D. Busnelli, G. Gambarin, Bari 1940.
Lettere ai Gallicani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961.
Opere, a cura di G. Cozzi, L. Cozzi, Milano-Napoli 1969.
Pensieri naturali, metafisici e matematici, a cura di L. Cozzi, L. Sosio, Milano-Napoli 1996.
Consulti, a cura di C. Pin, 2 tt., Pisa-Roma 2001.
Istoria del concilio tridentino (seguita dalla Vita del Padre Paolo), a cura di C. Vivanti, 2 tt., Torino 2009.
Per la vasta letteratura critica antica e recente si rinvia alle annotazioni di Luisa e Gaetano Cozzi, Corrado Vivanti e Corrado Pin nelle loro edizioni di testi sarpiani.
Due convegni hanno proposto bilanci storiografici:
Ripensando Paolo Sarpi, Atti del Convegno internazionale di studi nel 450° anniversario della nascita di Paolo Sarpi, Venezia 2002, a cura di C. Pin, Venezia 2006.
Paolo Sarpi. Politique et religion en Europe, Actes du Colloque international, Lyon (21-22 novembre 2008), éd. M. Viallon, Paris 2010.
Il lungo dibattito aperto dal confronto tra la Istoria sarpiana e la risposta cattolica di Pietro Sforza Pallavicino ha conosciuto una tappa fondamentale nel Novecento con l’edizione critica delle fonti da parte della Görres-Gesellschaft e con la straordinaria messe di studi e di ricerche dedicati alla storia del Concilio di Trento dallo storico cattolico Hubert Jedin (in partic., con la storia del Concilio pubblicata in quattro volumi tra il 1948 e il 1975). A questa si attiene la recente storia del Concilio di John W. O’Malley (Trent. What happened at the Council, Cambridge [Mass.]-London 2013), il quale riconosce «verve and brilliance» a Sarpi, ma si attiene alla tradizione Sforza Pallavicino-Jedin.